In partenza (Ieri finirà)

Non aveva ancora finito di leggere quella lettera che s’era portata dietro, una sequela di luoghi comuni e di frasi fatte da rifare, quando sua moglie si sporse verso di lui e disse: “A cosa pensi, Antonio?”. Quando lo chiamava Antonio, qualcosa probabilmente non andava. E qualcosa, in quel momento, non andava davvero: alla fine della lettera mancava solo il cognome (il nome c’era, c’era eccome), sulla busta che la conteneva erano state impresse due labbra rosse di rossetto ‐ lui adorava quel colore, e il suo cuore sobbalzava al solo riconoscerlo ‐ e la sera prima aveva proposto alla loro proprietaria di fuggire insieme. Il cielo, dal finestrino, sembrava un mare sottovetro e sporco; gli alberi si affrettavano lungo la strada. Antonio non sapeva, a dire il vero, se sua moglie avesse intuito o meno del rapporto fra lui e Linda. Sperava di no. Quello stesso pomeriggio avrebbe preso un altro treno per partire con lei. Era la sua occupazione preferita, studiare fughe come quando era bambino. “Dalla meta capisci il viaggiatore”, aveva letto una volta. Ma non sapeva se ce l’avrebbe fatta sul serio: doveva rispettare le coincidenze, e finire di leggere la lettera, e sopportare la sfuriata di sua moglie, di lì a poco. Che infatti non tardò.
“Troppo pensieroso, per i miei gusti. Quale altra scommessa hai perso?”. Giulia s’era stretta nelle spalle aggiustandosi il bavero; una sua mossa tipica, da vecchia matrona, che Antonio non aveva sopportato mai. Meno male che fra poco arriviamo, si disse. Controllò l’orologio e notò che mancava un quarto a l’una. A l’una e cinque si sarebbero fermati. Nella lettera al rossetto c’era scritta la destinazione che Linda aveva scelto per la loro luna di miele illegale: Antonio la pregustava come l’isoletta di sugo sulla pasta.
Però intanto c’era Giulia.
“Sempre calcio, calcio… so io dove te lo darei. Con quella faccia da morto che ti ritrovi, sempre a pensare a cose inutili !”.
Sempre gentile, la cara vecchia Giulia.
Per fortuna il controllore l’aveva tratto in salvo: ad Antonio era bastato il fruscio delle tendine luride del treno, lo spostamento d’aria della porta a scorrimento, per tornare a sentire su di sé i raggi del sole.
Il silenzio di Giulia, che cosa sopraffina. Specie se unito a quel bacio stampato sulla carta.
Giusto, la lettera!, pensò Antonio, rifugiandovisi senza proferire altra parola. Perché lì, in mezzo alle frasi fatte e alle sdolcinatezze, sotto il velo sottile di sudore profumato di una mano indaffarata, dietro la scia di grasso vermiglio lasciata dal rossetto; fra tutte quelle cose, c’era scritto il suo destino. Che ‐ qualche volta capita ‐ in tal caso era anche una destinazione.
La profezia era tutta in un “Ti aspetterò al treno per Venezia”. Il sigillo in un “Per sempre tua”. Di una banalità adorabile.
“Anto’, ma che leggi?!”, sparò Giulia, facendolo sobbalzare. Per poco la lettera non sgusciò via dal suo astuto nascondiglio: la pagina sportiva della gazzetta locale. Banale pure quello ‐ evidentemente era una cosa contagiosa. “N‐n‐niete Giulie’, che devo leggere? Controllo i risultati… Non sia mai stavolta c’ho azzeccat…”.
“E ti pareva! Pure rosso ti fai per quelle quattro stronzate. Secondo me sei arrivato al punto che devi curarti !”, lo interruppe lei, riaggiustandosi il bavero. E Antonio pregò che il treno si trasformasse in aeroplano, e che ci fosse un sedile ad espulsione come nelle auto d’epoca. Ma quello era un treno vero, e purtroppo sapeva (e poteva) soltanto fischiare; almeno, così era una volta. Ora al posto del fischio, una voce metallica e monocorde annunciava l’imminente arrivo nella stazione più vicina.
La loro.
Giulia si alzò in anticipo e uscì, lanciando un’occhiataccia al povero Antonio, che intanto estraeva accuratamente, ma non senza emozione, l’amatissima lettera dall’interno del giornale. Era stravolto, il momento era vicino, e le distanze s’accorciavano come il suo fiato. Ebbe a stento l’accortezza di calar giù il bagaglio dalla mensola, e nella sua goffaggine si lesse traditore attraverso gli occhi altrui. Specialmente di Giulia.
Nel corridoio stretto ed affollato, in attesa di poter scendere, ripensò al suo piano: dopo aver lasciato il giornale sul sedile dello scompartimento, avrebbe avuto il giusto pretesto per simulare un attacco di panico davanti a sua moglie. “Cazzo, la schedina, la gazzetta! Va a finire che stavolta ho vinto qualcosa e me lo lascio sfuggire perché non ci sto con la testa… Scusami, tesoro, torno subito!”.
È proprio così che avrebbe detto, all’uscita dalla stazione. Sarebbe corso via così, per non tornare più indietro.
“Anto’… ti svegli?”. Le unghie laccate di Giulia le si agitavano davanti al viso come l’ala di un piccione.
Antonio si scusò con un sorriso docile ‐ forse troppo, pensò, col rischio di suscitare qualche sospetto. Dopodiché furono fuori, lui davanti a lei per farle strada, con la valigia piena di piombo in una mano e il bacio stampato a tamburellargli nella tasca sinistra dei pantaloni, affianco al pugno chiuso.
Ogni metro fu percorso a nuoto nel miele, con il sudore che disegnava strani monili sulla fronte e il cuore che batteva all’impazzata. Antonio si sforzò di non guardarsi attorno per vedere se lei era già lì, se anche la serendipità era intervenuta a benedire quel mattino di fine inverno col cielo così blu da fare male agli occhi. A dirla tutta, riuscì a mantenersi più che discreto mentre gettava uno sguardo sul tabellone dei treni in partenza, cercando Venezia e trovandola, gialla e splendidamente lampeggiante, in cima agli annunci.
Binario 2, 10 minuti alla chiusura delle porte.
Antonio capì che doveva affrettarsi. Per fortuna, il riquadro luminoso dell’uscita era davanti a loro: a lui e a Giulia. Così iniziò immediatamente a simulare: si batté una mano in fronte e finse; finse fino in fondo d’essersi dimenticato.
“E ti pareva pure questa! Sei un disastro, diamine!”, ringhiò sua moglie, terminando il ringhio in uno sbuffo. Poi disse qualcosa di simile a ‘sbrigati’, solo che Antonio non poté sentire, perché già non c’era più.