L'anima del carnefice

Nelle avenidas i cingoli dei carri armati avevano lasciato le stesse cicatrici che avevano i martiri sulla pelle. Segni profondi, palpabili, pronti alla vendetta.
Incontrare i boia per strada non era cosa rara, anzi, incontrare chi aveva ucciso il tuo futuro era cosa comune.
Nel dehor di un cafè, quell'uomo dagli occhi azzurri come il mare, racchiusi in piccole fessure sopra un viso bonario, quasi gentile, le mani lunghe e affusolate come quelle di un pianista o di un chirurgo, dai gesti misurati e precisi, mi aspettava. Quelle mani che prendevano un bicchiere di Cabernet Sauvignon cileno e lo portavano alle labbra con solenne lentezza, con la consapevolezza di quello che sarebbe stato il gusto al palato, il sentirne gli aromi e le fragranze.
Un uomo così, che sapeva dare un valore alle cose terrene, che sapeva apprezzare a fondo le cose buone della vita, si apprestava a raccontarmi quello che era stato il suo “impiego” negli anni passati, con la tranquillità di chi racconta le sue vacanze estive a Vigna del Mar.
Otto ore di lavoro sulla carne di persone per lui senza nome, senza età, senza sesso, senza volto, senza storia. Pezzi di carne da fare urlare, da sfinire, da rendere morbida, da piegare.
Si godeva il sole mentre raccontava senza enfasi e accanimento la sua storia. Guardavo la sua bocca e ad ogni parola sembrava uscissero pezzi di carne, sangue, urla.
E gli sovvenne il nome di uno degli ospiti del garage, così chiamava il suo posto di lavoro, perché lo aveva “incontrato” il giorno del compleanno di uno dei suoi bambini. Ne aveva tre, e così quel giorno, prima di prendere servizio gli aveva comprato uno di quei giochi di costruzioni a mattoncini colorati e mi disse che lui non voleva che i suoi figli giocassero con le solite armi giocattolo perché erano diseducative, insegnavano la violenza.
Il racconto si dipanava in modo fluido, senza interruzioni, con dovizia di particolari e senza mai crogiolarsi nel compiacimento.
Gli domandai perché mai raccontasse queste cose a me e perché si fidasse di me.
Sorrise con quei suoi denti disordinati ma bianchissimi e si avvicino così vicino al mio viso che potei sentire il suo alito che sapeva di vino e mi disse : “Non lo so. Certe cose si fanno e basta.”
Poi si rimise rilassato sulla sedia e aggiunse che forse aveva scelto me perché ero straniero o forse perché i poeti hanno sublimato la morte nelle poesia e lì trovano le loro risposte alla vita. Un carnefice invece è condannato a cercare le sue risposte dentro agli altri.
Aveva una teoria secondo la quale un boia cerca nella vittima predestinata il senso della vita e che solo guardando in faccia la disperazione di chi muore si riesca a capire quale sia l’essenza di un uomo. Rimasi immobile ad ascoltare quello che mi sembrava un delirio di onnipotenza. Poi dalla tasca tirò fuori un malloppo di carte tenute insieme da un grosso elastico e me lo consegno in mano.
Mi disse che era il suo testamento e che avrei potuto leggerlo appena si fosse alzato da quella sedia.
Impercettibilmente il suo viso si fece più rilassato, quasi sereno. Mando giù l’ultimo sorso del suo cabernet, lasciò una banconota sotto il bicchiere, mi fece un sorriso e senza dire nulla se ne andò. Mi alzai anche io, con quel malloppo di carte in mano e con un senso di dolore e nausea profondi. Presi la sua stessa direzione, mescolato tra la folla del mezzogiorno nell’Avenida Central, e non potei fare a meno di seguirlo per un po’ di tempo ancora. Non ricordo per quanto tempo, ma ad un certo punto, prima di infilarsi in un vicolo laterale, si fermò e voltandosi, da lontano mi sorrise:. Poi sparì dietro l’angolo.
Il suo “testamento” non lasciava nulla a nessuno, non confessava nessun delitto, non raccontava nessuna storia, non chiedeva nessun perdono. Era solo la raccolta manoscritta di centinaia di poesie; poesie di straordinaria bellezza, scritte da un’anima eletta e pura. Poesie d’amore e di vita.
Passai ore a leggerle dimenticando quale mano avesse mai scritto quei pezzi di carta, e quale anima li avesse concepiti.
Nell’ultima pagina di quel “testamento” trovai scritta la frase: “La ricerca è finita. La morte ha liberato il poeta. Ora il poeta libererà la morte”.
Pensai alle due anime che avevano vissuto in quell’uomo specularmente, in un inspiegabile simbiosi, in un tragico e armonico conflitto interiore.
L’orrore scese dentro al mio cuore.
Il fuoco fece giustizia di tanta inutile bellezza, di tanta terribile purezza.
Tutte quelle straordinarie poesie portavano la data a piè di pagina e tutte erano state scritte negli ultimi due anni prima della sua morte in quel vicolo, con un colpo di pistola alla nuca.