L'ultima cacciata di Paco

Baffino, il mento appoggiato sul palmo della mano richiusa a pugno, ammirava, fuor di finestra, uno di quegli spettacoli ineffabili che il buon Dio gli donava per ricreargli lo spirito e nutrirgli l’anima. Una luna piena, circonfusa da un’unica nuvola grigia che si spandeva intorno ad essa facendone risaltare il biancore e la lucentezza come ostrica tra perlacee valve, colmava di sé il cielo ed il cuore del prevosto. La sua bellezza era così pura ed il suo incanto così potente che una soave luminosità se ne spandeva, discendendo a terra per sollevarne in alto la stanca ed assetata polvere settembrina che ammantava l’orizzonte e, con essa, la fatica degli uomini ed il travaglio delle loro vite.

Sospirò forte, accompagnando quel moto del corpo con un lungo gemito, una “eh”, protratta e sibilante. “Prima o poi… prima o poi…tocca a tutti”, mormorava. Poiché non poteva obliare i fatti del giorno.
Quel pomeriggio, infatti, si era recato a caccia con Gabriele, di cui era diventato, col tempo da semplice estimatore dell’uomo e cacciatore, e sincero ed affezionato amico, eppure, stavolta, si erano divertiti poco. Non perché fossero tornati a caccia col carniere vuoto, cosa che non contava nulla, ma perché quella era stata l’ultima cacciata di Paco. Che Baffino aveva sempre chiamato Pedro, confondendo persino i nomi dei cani, oltre quelli dei Cristiani.
Povero Paco Pedro, un setter di gran razza, capace di avventare un cinghiale in un canneto a venti metri e rimanere fermo lanciando due abbai per avvertire il padrone senza spaventare la preda. “Eh, sì”. Considerò tra sé e sé. “Se Dio non volesse la caccia non avrebbe creato il cane! Senza il cane non esiste caccia”. Ed ora Paco non avrebbe cacciato mai più, mai più in vita sua. Forse appena le farfalle settembrine, ormai impedite nel volo dai primi freschi d’autunno.  Si grattò la pera, stirando le labbra e schioccando la lingua. Proprio non gli andava, povera bestia. Troppe volte aveva cacciato con lui, troppe soddisfazioni ed emozioni gli aveva donato ed ora vederlo ridotto così, trascinare il treno posteriore senza nemmeno la forza di saltare un filo d’erba, lui che saltava le reti da pecora. Quelle famose reti che in altra occasione tanto filo da torcere avevano dato a Baffino!
L’ultima volta. Come c’è una prima, così c’è un’ultima volta per tutto nella vita. Bello sarebbe rendersene conto. Sia di simile pensiero che del fatto materiale, allorquando si presenta. Per apprezzare ciò che si è avuto e godere ciò che si è imparato. Invece molti sono solo capaci di recriminare e rimpiangere il passato, perché non hanno imparato proprio un accidente!
Tali erano le sue riflessioni, più amare del solito, mentre gli risuonava in mente quell’abbaio disperato di Paco, legato a una pianta mentre il suo padrone si allontanava. Sarebbe tornato poco dopo, ma è come se il cane avesse compreso che, in realtà si allontanava per sempre, come se gli fosse chiaro che la loro complicità venatoria, la storia dell’intera sua esistenza, si concludeva in quell’assolato e torrido pomeriggio di metà settembre.
I fatti si erano svolti così: Diana, la grandissima e temibile cacciatrice, quella favolosa Setter che, quando puntava, si sdraiava nell’erba come una tigre, se l’era portata via la le smaniosi, lasciando in eredità un cucciolone di sei mesi che non l’aveva mai vista cacciare e che non aveva nemmeno idea di quale fossero i doveri, i metodi ed i trucchi di un bravo cane da penna! Così, Gabriele si era deciso di portare con sé, in cerca di qualche fagiano, padre e figlio, Paco e Pachino, affinché il giovane imparasse dal vecchio ed il vecchio non si sentisse trascurato ed abbandonato in favore del giovane, ma, come insegnano i latini, la vecchiaia è di per sé stessa un morbo che non conosce cura.
Scesi di macchina, padre e figlio, ognuno secondo la forza della propria zampa si erano dati da fare in giro, Pachino sparendo subito ed uggiolando come una disperato dietro un imprendibile capriolo, e Paco, annusando qua e là tra i filari di una vigna abbandonata. Baffino e Gabriele si erano messi a far il pendolo su e giù tra i filari del vigneto negletto, sperando che si alzasse un fagiano o schizzasse una lepre scovati da Paco, ma l’unica cosa che fecero alzare fu la polvere della terra spaccata, dei finocchi secchi e degli scardaccioni crudeli, le cui punte sottili ed affilate passano ogni vestito fino a  piantarsi nella carne dove si spezzano e restano infitti a irritare e prudere. Ma quando si va a caccia non si sente niente, tanta è l’emozione e l’attesa ed anche dopo non ci si fa caso. Invece quella sera, le gambe gli prudevano parecchio al nostro baffo melanconico, che cercava inutilmente di liberarsi la pelle delle mani da quegli sgradevoli ospiti.
Avevano marciato su e giù, giù e su, mentre sentivano Pachino sgagnolare nel colle davanti al loro, beffato dal delicato ma rapidissimo cervide. Il sole picchiava ancora forte a quell’ora del primo pomeriggio e l’arsura si faceva già sentire, accentuata dall’abbondante traspirazione e dall’impossibilità di poterla placare. Gabriele si era portato una fiaschetta d’acqua, ma era riservata a Paco. Gli uomini si sarebbero dovuti arrangiare con qualche grappolo passito o con qualche mora scampata alla canicola agostana.
Salivano e scendevano il dolce poggio, attraversando la sua verde capigliatura un tempo curata ed ora fattasi intricata e selvatica, tanto che a stento vedevano dove poggiavano i piedi, spesso intralciati dai tralci fattisi legnosi per la vecchiezza e striscianti al suolo, tesi tra un filare e l’altro, coperti da erbaccioni cespugliosi e ininterrotti, indisturbati dalla scomparsa, ormai datata, dei vecchi custodi di quella terra. Eppure avanzavano spediti, senza sentire la fatica e fendendo, gagliardi, gli ostacoli naturali, ma qualcosa non andava. Qualcosa mancava e qualcos’altro era di troppo. Paco arrancava ed il suo respiro s’era fatto pesante, ansante, simile al greve rantolo di un morente, incapace di altro che di sopravvivere. Impensabile che potesse cacciare o anche solo, sapersi districare in quell’ostile percorso. Giunto, come poté e seppe, all’angolo della vigna, crollò a terra all’ombra, in uno stato che ammutolì i due cacciatori. Restarono a considerare la sua pena, incerti se commentarla o fingere di ignorarla, per non accrescere la loro, fin quando Gabriele sfogò tutto il proprio rincrescimento, picchiandosi un pugno sulla coscia e gridando: “Accidenti a me e a quando ho deciso di portarlo!”.
“Gabriele, l’hai fatto perché non ti reggeva il cuore a lasciarlo a patire a casa, vedendo il cucciolo partirsene con noi”.
L’altro fissò la terra e il cielo e poi di nuovo il cane, stabilendo con una voce rassegnata che tentava di mitigare un profondo rincrescimento: “Questa è l’ultima volta, sai Paco? E’ l’ultima volta…”. Poi, facendo qualche passo in direzione di Pachino che continuava a uggiolare disperso per le ripe, aggiunse in tono incoraggiante: “Su, Paco, dai, vieni, alzati, vieni, andiamo, dai”. Ma Paco non si mosse.
“Aspettiamo qualche minuto”, propose Baffino, senza riuscire ad incontrare lo sguardo dell’amico fedele. Gabriele tergiversò, dando modo all’altrettanto fidato suo seguace di riprendersi il minimo indispensabile per rimettersi in piedi e poi ripartì, seguito trambelloni da Paco, che lo fissava un po’istupidito dalla fatica, ma attento al padrone che gli stava dicendo: “Vieni lassù, c’è una fonte dopo la siepe. Andiamo là”.
Vi giungemmo insieme a Pachino che aveva ritrovato la strada di casa, o meglio, il nostro odore e ci dirigemmo sotto al secolare frassino dalle grinfie rivolte al cielo, solo per constatare tristemente che la fonte si era seccata. “Accidenti”, considerò Gabriele, “ora dobbiamo scendere al fosso. L’acqua si può trovare solo lì”. Quella della sua fiaschetta, infatti, non si era rivelata sufficiente a rianimare il provato Paco.
Andando in discesa lungo uno stradone e poi nella macchia alta ma libera e pulita al suo interno, il vecchio compagno di avventure riuscì abbastanza agevolmente a seguirci, sinché non fu necessario discendere per un modestissimo rilievo, ove il cane si fermò ed iniziò a gemere. Era rimasto impigliato in una radice secca che si frapponeva alla discesa imbrigliandolo sul petto. Un impedimento che, fino all’anno prima avrebbe volato! Gabriele risalì e lo liberò, mormorando: “Neppure una radice riesci più a superare?”. Baffino restò zitto, perché sapeva cosa provasse davvero l’amico, al di là di quella che poteva sembrare una critica e che invece era l’amara considerazione della fine del suo cane adorato.
L’acqua fu un toccasana per Paco che vi si lasciò cadere immergendovisi interamente e lappandone a più non posso la rivitalizzante frescura. Gabriele si sedette su di un masso e Baffino scoprì casualmente, su una lingua sabbiosa, una spontanea coltivazione di pomodori! Ce n’erano di due o tre tipi, freschi, succosi e squisiti. Evidentemente il risultato predatorio delle razzie di animali in qualche orto, i quali, di poi, s’erano recato ad abbeverarsi in quel rigo. E non solo abbeverarsi…. Comunque sia se ne pascette con immenso gusto, offrendone un paio all’amico che ne accettò uno solo.
I due Setter si sollazzavano tra le fresche acque, dissetandosi abbondantemente e riprendendo forze e vigore, ma, quando fu il momento di ripartire, Paco si rifiutò del tutto. Gabriele l’osservò muto, quindi lo sollevò dall’acqua e, infradiciandosi completamente, lo portò in collo lungo il greto del rivo, attento a non scivolare sui cogoli, mentre Baffino gli portava il fucile. Alla fine risalirono la riva e si misero a costeggiare un campo lavorato.
“Mettilo giù, vedrai che qui ce la fa da solo”, suggerì dolcemente all’amico, e così fu, almeno finché non giunsero ad uno scalandrino, che Gabriele dovette scavalcare col cane in braccio.
Ormai mancava poco alla strada, ma le condizioni di Paco non miglioravano e così, il padrone, tagliò le fronde di una ginestra e vi foggiò un collare per il suo amico. Poi, con una lungo ramo della stessa pianta, ottenne un guinzaglio con cui lo legò, pregando il compagno di caccia di voler attendere lì, con Paco, il suo ritorno, mentre sarebbe andato a recuperare il proprio mezzo per raggiungerli.
Fu l’attesa, il momento più straziante per tutti e quattro. Pachino strisciò il muso su quello del padre e si allontanò dietro ad un padrone che a grandi passi e a testa bassa cercava di distaccarsi da proprio dolore, mentre Baffino si sedette per terra, accanto a Paco, cercando di consolarlo e di farlo tacere, mentre il suo abbaio così acuto e così disperato gli penetrava la mente e gli scoppiava nel petto.
Paco non cessò di latrare e di richiamare il padrone che vedeva sparire per tutto il tempo, sino al suo ritorno, ma Baffino, pur fissando in silenzio la luna alta, adesso, tra le stelle, nel silenzio di casa sua, continuava a sentire quell’uggiolato desolato e desolante e lo sentì risuonare ed echeggiare nei recessi della propria fragilità umana per molto e molto tempo ancora.