L'ultimo sole

Conobbi il mondo in un modo diverso da come lo conosco ora. Ricordo ancora l’odore acre del luogo in cui mi svegliai la mia prima volta, il freddo pungente che mi penetrava nelle ossa quasi provocava piacere, tramutandosi in un leggero tremolio che lentamente si espandeva in tutto il mio corpo quasi a voler dire… sei ancora vivo! Si ancora vivo, ma in che modo? A quale prezzo? Non ricordo molto della mia vita precedente, forse perché, in confronto a questa, è volata via con un battito di ali quasi impercettibile. A volte però, braci vive di un ricordo fra le ceneri della memoria, riportano alla luce attimi di ciò che ero. Mi chiamo Phillip, avevo 29 anni quando vidi per l’ultima volta la luce del sole ed era il marzo del 1792. Mi ritrovai in una cavità oscura inghiottita dalla terra, l’odore era forte quasi a ferirmi le narici, tutto sembrava amplificato, odori, rumori, sensazioni, uno stato di intorpidimento faceva da padrone. Era come se mi fossi svegliato da un sonno durato anni. Una forte fame o sete ritorceva il mio stomaco quasi a togliermi il fiato, procedevo nell’oscurità solo grazie al mio istinto, avevo brama di qualcosa ma non avevo idea di cosa. D’improvviso una flebile luce illuminò il mio volto, la luna mi dissi, e capii che finalmente ero libero. Mi guardai intorno, gli occhi bruciavano e sembrava quasi roteassero nelle orbite, ma dov’ero? Da lontano dei passi, mi girai con una velocità non umana, ma intorno a me nessuno, eppure quelle voci sembravano cosi vicine. Improvvisamente nel mio corpo scattò qualche cosa, come una molla, e mi lanciai in direzione di ciò che udivo. Mi risvegliai la notte seguente sempre nella stessa putrida cavità, completamente sporco di un liquido scuro che ricopriva gran parte del mio corpo. Pensai che come i bambini appena nati solevo scambiare il giorno con la notte, certo è che fin quando non mi resi conto, ciò che vidi fu sempre l’oscurità. Mi osservai come per la prima volta, il mio corpo era diverso, una pelle liscia quasi marmorea, i miei occhi e le mie orecchie vedevano e sentivano oltre ciò che è consentito, ero in possesso di una forza smisurata, non concepibile per un essere umano. Con difficoltà riuscivo a ricordare quello che facevo quando ero sveglio, i ricordi erano offuscati dalla velocità con cui compivo le mie gesta. All’inizio il tempo trascorreva velocemente, ero proiettato in un vortice di avvenimenti che a malapena ricordavo, un turbinio di sensazioni che si concludevano con l’appagamento del mio bisogno primario: la fame. Vagabondavo solo nei boschi e mi risvegliavo ogni notte nel solito posto. Vissi cosi per molto, e mi resi conto che il sangue, ciò di cui mi nutrivo, mi concedeva un attraente e sofisticato simulacro d’esistenza. Ero capace di annusare la vita anche a chilometri di distanza e me ne cibavo sino all’esalazione dell’ultimo respiro. Avidamente brancolavo nel buio in cerca di uomini o donne su cui appoggiare le mie fredde e vitree labbra, sino a privarli di ciò a cui più tenevano. Ogni volto di ogni singola vittima rimaneva impresso nella mia mente come a costruire un puzzle di sguardi terrorizzati e imploranti che non sono mai riuscito a dimenticare. Non riuscivo a controllarmi, l’avidità con la quale suggevo il loro sangue mi inquietava, ma il fatto è che non potevo farne a meno. Nonostante ciò cercavo di rimanere saldamente aggrappato a quel poco di umano che a stento sopravviveva in me, cercando di limitare il più possibile, la mia deprecabile caccia. Una notte, dopo svariati anni di convivenza con il mio triste fardello, quando la luna era più alta nel cielo, incontrai un mio simile. La sua pelle era luminosa e candida, gli occhi un tempo neri apparivano senza vita. Lo distingueva un gran fascino e un portamento al quale difficilmente si poteva resistere. Scoprii che da più di mille anni era un succhiasangue, parole che apparivano oscenità alle mie orecchie, ma che rappresentavano ciò che era la realtà, ciò che senza possibilità di scelta, ero diventato. Mi raccontò delle epoche in cui visse, di come il mondo mutava e di quanto lui rimanesse sempre uguale negli anni e nell’aspetto. Apprese tutto ciò che era possibile conoscere, andò in tutti i luoghi che era possibile visitare, era saggio ed erudito. Per apprendere meglio le novità che le nuove epoche offrivano, era solito trovarsi una compagna che lui stesso trasformava in vampiro. Di solito sceglieva fra le più belle e colte del luogo, e se ne disfaceva uccidendole non appena queste diventavano inutili alla sua brama di sapere. Mi descrisse, per di più, come era possibile spezzare questo filo sottile che legava la vita alla morte. Trascorremmo insieme il tempo sufficiente affinché io potessi carpire ogni suo segreto, ogni sua conoscenza, ma più passavano gli anni, più non sopportavo la sua sregolatezza, la sua cattiveria, la sua insaziabile sete che non si placava neanche di fronte ad una giovane ed innocente creatura. Mi spiegò che in me c’era qualche cosa che non andasse, che nonostante fosse passato del tempo dalla mia trasformazione, io rimanevo aggrappato alla mia futile umanità. Cosi la definì. Ogni volta le sue parole apparivano come un pozzo di acqua fredda in cui tuffarsi senza riflettere sulle conseguenze, ma nonostante fossimo entrambi dei mostri lui sembrava esserlo più di me. Fu cosi che decisi di abbandonarlo e cercai un posto dove poter trascorrere l’eternità. Vagai per un tempo che neanche ricordo, con la speranza di trovare qualcuno o qualche cosa che potesse rendermi meno infelice. Cominciai cosi, a nutrirmi di esseri che non erano degni di vivere, gente ripugnante che non faceva altro che rubare, uccidere, violentare, e che facevano della malvagità il loro miglior passatempo. I loro volti non rimanevano impressi nella mia mente, non provavo alcuna pietà per la loro insulsa esistenza, comportandomi cosi non mi vergognavo affatto di ciò che ero, e mi convinsi che cibandomene non avrei fatto altro che bene. Un giorno appena dopo il crepuscolo decisi di andare a caccia in una città in cui ancora non ero mai stato, Roma. Passeggiando per le vie spiavo possibili prede che avrebbero potuto allietarmi la serata, e mi ritrovai di fronte ad una meravigliosa creatura che si staccava da quel sipario di ombre, quasi a brillare di luce propria. Vivace, con i capelli neri come la pece raccolti in una piccola coda e gli occhi verdi orlati da lunghe ciglia, aveva uno sguardo dolce e carezzevole. Mi trovavo in un secolo in cui le donne non erano come quelle che un tempo conobbi io, ora erano combattive ed indipendenti e forse anche per questo ero attratto da lei, oltre che all’odore del suo sangue, che per me era come miele per un orso. Lo sentivo fluire nelle sue vene con un vigore e una dolcezza che mi ossessionavano. Non riuscivo a trattenere l’impulso di scaraventarmi su di lei e morderla, rubandole sino all’ultima goccia della sua linfa vitale. Quella passione appena nata, si era radicata cosi saldamente che mai sarei riuscito a sradicarla. Cominciai a seguirla tutte le notti, in ogni suo piccolo movimento io ero lì lottando contro me stesso. Feci infinite congetture e ripensai al mio vecchio maestro, colui che tutto mi insegnò, e alle sue discutibili abitudini, al fatto che avrei potuto trasformarla e passare con lei l’eternità. Questa idea mi balenò nella mente come un fulmine al ciel sereno, ma non potevo recare a lei il dolore e l’orribile esistenza che qualcuno allora scelse per me. Feci uno sforzo sufficiente a sradicare una montagna per non cadere in  tentazione, e mi imposi di stare accanto a lei per tutto l’arco della sua breve vita, osservandola solamente, proteggendola se ce ne fosse stato bisogno, e amandola a modo mio nel silenzio dell’oscurità. Non riuscivo a credere di avere ancora dei sentimenti e dei tratti, se pur lievi, di umanità. Una notte mentre la seguivo nel suo rincasare, ebbi uno strano presentimento. Mi trovavo in una di quelle piccole vie fatte di san pietrini costeggiate da alti e vecchi palazzi. I solenni rintocchi dell’orologio della cattedrale avevano annunciato la mezzanotte, era quasi giunta a casa, una strana quiete simile alla morte pervadeva la città, quando d’improvviso una folata di vento gelida e repentina smosse i miei lunghi capelli, e una tetra figura balzò su di lei con agilità felina. Cominciò a succhiare il suo sangue con indicibile voluttà. Fu cosi veloce che io a malapena capii cosa stava accadendo, i suoi occhi brillavano di bieca acredine. Mai viso umano espresse un’angoscia cosi straziante le diventò bianco come il marmo, le morbide braccia le caddero lungo il corpo e il suo respiro diventò irregolare. Un rantolo di dolore riecheggiò per tutta la città, mi fiondai su di lui, tentai di morderlo ma era più forte di me, con un semplice gesto mi scaraventò contro un muro e lui scappò. Mi rialzai di scatto e mi adagiai accanto a lei. Era la prima volta che le stavo cosi vicino, nonostante ciò il suo odore, invece di essere più acuto, era quasi svanito. Tra le mie braccia esalò l’ultimo respiro, non avrei potuto fare più nulla per lei. Piansi lacrime di sangue e posando le mie indegne labbra sulle sue, giurai che l’avrei vendicata. Da allora ogni notte mi reco presso la sua tomba e le faccio compagnia pentendomi di non averla trasformata quando dovevo, di non averle mai rivolto la parola per paura di non riuscirmi a controllare, e di non averla difesa quando ne aveva bisogno. Darei la mia immortalità per riportarla in vita. Numerose volte ho pensato di rimanere lì sino ai primi raggi del sole, affinché questi mi polverizzassero, ma le ho giurato di vendicarla e ho dalla mia parte l’eternità per farlo. Quel momento un giorno arriverà e finalmente potrò riposare accanto a lei in pace. Sono Phillip, ho ventinove anni ormai da lungo tempo, sono un Vampiro. Vidi per l’ultima volta il mio Sole dieci anni fa.