La bocca piena di niente

Ero rientrato da qualche ora dopo un lungo viaggio in macchina, feci una doccia veloce, riposai qualche minuto ed appena la luce cominciò ad ingrigire dalle fessure della veneziana decisi che era il momento di andare. Misi il mio precision del '72 nella custodia rigida e la chiusi solo dopo essermi assicurato che non mancasse nulla: accordatore, cavo, tracolla, muta di emergenza rotosound, plettri dunlop tortex 0.73 con la tartaruga. Caricai tutto e mi avviai in macchina verso la sala del concerto, il soundset music room. Una sala ricavata sotto un negozio di dischi a pochi passi dal centro, non lontano dai binari della ferrovia e dai capannoni delle poste centrali. Il colore dominante era il nero, lo erano le pareti, il pavimento, il palco. Quando arrivai il fonico aveva già finito di montare tutto, luci comprese, quattro teste mobili tipo wash con pannello 18 led. Dalla backline mancava solo il mio ampli. Mi aiutarono due metallari beccati sulle scale a scendere cassa e testata. Soundcheck fatto in men che non si dica. D'altronde eravamo sei band, dieci minuti a gruppo per fare suoni e volumi, così come i cambi palchi durante la serata.
Non mi sentivo molto carico ma il preserata passò liscio e veloce tra sei o sette rum e la dubstep del dj grassoccio e occhialuto. Non male il tizio!
Comincia la prima band hardcore, il cantante supertatuato si dimena, la gente balla, poga e fa a spallate. Cambio palco e via la seconda band hardcore, il cantante supertatuato si dimena, la gente balla, poga e fa a spallate. Insomma mi accorgo che le band cambiano sul palco solo grazie ai loghi video proiettati alle loro spalle, ma tutto sommato non mi dispiace questo indistinto ruminare fatto di doppia cassa, bassi che sembrano chitarre e cantanti che urlano come maiali sgozzati. Nessun messaggio, nessuna distrazione, avanti un altro. Poco male, di ruminare in ruminare arriva il nostro turno. Mi trascino malconcio e brillo verso il palco, mi ci arrampico a fatica, imbraccio il mio _P, l'ampli è già caldo, infilo il jack, attivo il muff e farfuglio due parole sul quanto fossi felice di stare li, che odiavo i giornalisti venduti e la lega... le persone giù urlano, applaudono, non avevano capito nulla ma erano d'accordo. Cominciammo a suonare, le note e le parole uscivano da sole, impetuose come un mare in tempesta. Sudo. Devo spogliarmi. Due secondi per riprendere fiato ed asciugarmi con la maglietta già fradicia, un sorso di rum e via a raffica altri due pezzi. Ancora due parole sulla guerra e i violenti attentati che in quel periodo insanguinavano le strade di mezzo mondo e giù l'ultimo pezzo. L'adrenalina e l'alcol avevano totalmente invaso in mio corpo, mi sentivo annebbiato e confuso, ma maledettamente carico. Lascio il _P macchiato dal sudore al mio chitarrista che lo ripone delicatamente nella sua custodia, scendo dal palco senza usare la scaletta, un'ultima occhiata al basso quando qualcuno mi sussurra qualcosa all'orecchio “quante possibilità ho di infilarti la lingua in bocca stasera?”. La sua voce fu il primo suono a vibrare nell'amorfo silenzio di quella sorda oscurità, la prima scintilla di coscienza in quell'universo addormentato (cit). Mi giro, era lei, Lilith, bella e pericolosa come la guerra, irraggiungibile come un miraggio in pieno deserto. I lineamenti ribelli del suo viso erano eccentrici e sinuosi allo stesso tempo, incorniciati da un caschetto nero, unica nota il suo naso, grosso e storto, ma portato con una tale fierezza da sembrare scolpito dal miglior Sammartino in piena estasi da Cristo velato. Sempre mi ero sentito in difficoltà di fronte a lei, la sensazione che provavo era di disagio, sembrava scrutasse ogni mio pensiero come fossi sotto esame. Lei possedeva la qualità più sexy di tutte, la formula alchemica più arrapante che avessi mai sperimentato, l'intelligenza, lo era, e lo era sopra ogni media. Io lo percepivo a pelle. Balbettai qualcosa del tipo “non so, decidi tu”. Mi prese una mano e mi trascinò nei camerini dietro al palco, non ci vide nessuno, entrammo in uno dei cessi, mi baciò con foga, provai a sfiorare le sue minuscole tette, ma non ci riuscii, ero impacciato come mai prima, indossava un body infilato in jeans strettissimo e stivali tacco dodici forse. La mia cintura non oppose alcuna resistenza, si inginocchiò, mi tirò fuori il cazzo e lo agguantò tra le labbra. Non so esattamente quanto durò il tutto ma ebbi la sensazione che il tempo passasse velocissimo. Non capivo, lo desideravo ma non lo volevo. Era bellissimo ma lo detestavo.
Finii per odiare definitivamente quell'incontro, così fugace, fatto di una effimera complicità e di un precario e finto interesse. L'unico lucido ricordo che ho di quel momento sono le parole con cui mi salutò “spero di non averti spompinato troppo bene, l'ultima volta il tizio a cui lo avevo fatto mi ha cercata per anni”.
La chiamai nei giorni seguenti, volevo parlarle, non di quell'incontro, non di quel pompino, non mi interessava, volevo solo parlare con lei, ascoltarla, sentirne la voce, memorizzarla, amarla. Volevo perdermi sulle linee del suo volto, nella sua schiena e nelle sue parole. Si negò e da quel momento ogni volta che mi parlava la sua bocca si riempiva di niente.