La fuga

“È tutta colpa della Francese.”
“Smettila di dare la colpa agli altri, prenditi le tue responsabilità. “ Diceva l’immagine riflessa nello specchio,il mio alterego, il mio più agguerrito compagno, un tempo il mio unico amico, l’eroe dentro di me. “È solo colpa tua se sei in questo pasticcio, la francese non centra niente, anzi è lei la vittima, la nostra vittima.”
“Lei di certo non è scevra da colpa.”
”Certo che no, non ci sono innocenti in questo mondo sporco, ma la sua unica colpa è stata quella di amarti più della sua stessa vita.”
“Allora vedi che è colpa sua.”
“Sei testardo ma questo tuo modo non ci salverà dalla galera.”
“Galera? Ma ha fatto tutto da sola, noi non abbiamo fatto niente.”
“È proprio questo il punto mio caro, non abbiamo anzi non hai – visto che io non c’ero – fatto niente per fermarla e a dir il vero con la decisione di abbandonarla l’hai spinta a farlo.”
“Non è colpa mia se era fragile, se non capiva che era finita.”
“Bé ma questo lo sappiamo solo noi, per quanto ne sanno i vicini lei era una persona felice e solare, piena di vita e di allegria una normalissima ragazza di città. Non crederanno di certo alla verità, fa troppa paura e sarà più facile fare finta che sei tu il solo e unico colpevole, che sei il lupo cattivo da incolpare. Nessuno dei suoi vicini ti conosce, nessuno dei suoi amici nemmeno la sua famiglia che non hai mai voluto conoscere, anche se loro sanno che esisti.”
“E come potevo, sai almeno quanto me che sono sposato.”
“Questo è vero ma hai comunque fatto il vigliacco.”
“Basterà andarcene prima che la polizia arrivi e non succederà niente.”
“È troppo tardi tutte le prove porteranno a noi: le sue chiamate, le sue email, i tuoi regali, quelle foto. Non abbiamo più tempo, il cappio si sta stringendo, le senti le grida? Le senti le sirene? Stanno arrivando. Che cosa farai? Ti comporterai ancora una volta da vigliacco?”
Ho la testa che mi scoppia, non riesco più a pensare, sto per piangere.
“Ma tu hai mai amato una donna? Intendo dire con il cuore. Quando è che ti sei trasformato in un guscio vuoto? Ti rendi conto di aver ucciso una vita? Una che veramente ti amava. Sei uno stupido, se potessi ti prenderei a pugni, ma il tempo è scaduto. Fatti da parte.
Uno, due, tre tonfi profondi che fanno solo rumore. È blindata ci metteranno un pò ad aprirla, mi accendo una sigaretta, mentre guardo quello stupido di Paul piangere come un bambino, ora basta. Un pugno e lo specchio è in mille pezzi, quello stupido ha fatto un bel casino questa volta.
“Polizia di New York aprite la porta.”
“È davvero un peccato che tu ti sia suicidata Amelie, eri un raro fiore capace di amare anche un pazzo come me. Ti porterò per sempre nella mia metà di cuore. Tuo per sempre Jack.” 
Vado in cucina, con un calcio forte e preciso stacco il tubo del gas, mi avvicino furtivamente alla porta trascinandomi una sedia che appoggio davanti alla maniglia, sopra ci colloco il mio posacenere preferito quello che raffigura Venere sdraiata su un fianco e lascio cadere accanto alla mia dea la mia trekappa, rigorosamente rossa come il sangue che sto per regalare alla notte.
Di fronte a me, in fondo al corridoio, c’e una finestra, è già stata aperta e usata per fare un salto nel vuoto. Tra me e lei ci sono tredici forse quattordici passi, ma il palazzo di fronte è troppo lontano, so che da solo non c’e la farò, l’unica possibilità è aspettare l’ultimo minuto e lasciarsi scaraventare dal fuoco.
Ecco ci siamo, è arrivata la loro cavalleria. Sento oltre la porta tanti piccoli passi avvicinarsi, stanno per sfondare, è ora di correre, è ora di volare, un ultimo profondo respiro.
Quando sono sulla soglia degli infissi la trekappa è a mezz’aria, è un attimo e tutto diventa assordante, sento un feroce ruggito impossessarsi del mio equilibrio, vengo maledettamente sputato in un’altra stanza nell’edificio di fronte, c’e vetro ovunque, faccio fatica a capire dove è il sotto e dove inizia il sopra. Mi metto in piedi barcollando e sanguinando, mi avvicino all’armadio lasciando cadere il soprabito leggermente abbrustolito che ho addosso, ne prendo uno nuovo, nero che va di moda, e che tra altro si abbina in modo perfetto alla mia serata. Sulla sinistra rivedo Paul che piange ancora.
“Ecco vedi se fossi stato tu a saltare a quest’ora qui dentro ci sarebbe l’intera squadra della SWAT, invece non c’e nessuno quindi smettila di piangere e passami un asciugamano per togliermi questo sangue.” Dico cercando di tranquillizzarlo.
In meno di due minuti sono fuori dalla stanza, sento che Paul si sta calmando la sua metà di cuore sta rallentando. Devo prendere l’ascensore fino al primo piano, da lì prendere le scale fino al piano terra e poi prendere l’uscita di sicurezza. Credo che la fuga sarà facile.
Dentro l’ascensore ritrovo Paul.
“Eccoti, cos’è quello sguardo? Non ti preoccupare ricordo ancora molto bene l’addestramento della CIA.”
“Anch’io me lo ricordo, ma forse ricordiamo due cose diverse.”
“Certo, tu eri tutto scrivania e scartoffie.”
“E tu uno tutto nove millimetri e C4.”
“Mi piaceva quella vita. Perché te l’ho data vinta e siamo finiti a fare politica?”
“Non me lo ricordo, forse per i soldi.”
“comunque siamo ancora in forma.” Cerco di tirare un po’ su Paul.
“Io penso che…” Pin. Le porte dell’ascensore si aprono. “
“Me lo dirai dopo Paul.”
Noto che la polizia non ha ancora iniziato a evacuare l’edificio, questo mi dà un discreto margine di tempo. Prendo le scale e arrivo al pian terreno, nella Hall stanno entrando i primi distintivi, in fondo alla sala sulla sinistra c’e l’uscita di servizio, su un tavolino alla mia destra c’e il New York Times il mio quotidiano preferito, lo prendo e cerco di fare l’incuriosito, ma in realtà cerco solo di nascondere le mani. Inizio a camminare.
Sono oltre l’uscita che cammino senza voltarmi. Mi ritrovo sulla trentatreesima strada e cammino fino all’incrocio con l’ottava Avenue, di fronte a me compare il Madison Square Garden, giro a sinistra e lo lascio alle mie spalle. Ho bisogno di un bagno, di caffè e tanta nicotina. Finalmente trovo un anonimo bar, non troppo affollato.
La porta fa uno strano rumore quando entro, ma nessuno si gira. Il tipo dietro al bancone è pelato con una pancia che non ha niente da invidiare a un canguro australiano in procinto di partorire la sua prole. Mi guarda appena il tempo necessario per capire se sono uomo o donna. In fondo al bancone, assorbiti dalla iattura di turno denunciata in tivu, ci sono due distintivi da strada. La solita fortuna di Paul.
Devo sistemarmi per bene e chiamare un taxi.
“Un caffè doppio per favore.” Punto con lo sguardo il panzone pelato. “Da che parte è il bagno?”
“Da quella parte.” Dice usando velocemente l’indice.
“È il telefono?”
“Dietro di lei.”
Chiamo prima il taxi, se c’e qualcosa che funziona a Manhattan ventiquattro ore su ventiquattro oltre ai sexy shop sono proprio loro, i taxi. La voce nell’apparecchio dice che il canarino sarà qui tra dieci minuti.
Nell’attesa è meglio se mi levo i frammenti di vetro che ho ancora sulle braccia e sulle mani. Rimetto i polsi nelle tasche facendo una leggera smorfia di dolore, passo dietro ai distintivi che sono ormai totalmente presi dalle disgrazie altrui.
“Ce l’abbiamo fatta, tra poco sarà finita.” Dice Paul con aria connivente, mentre sono davanti al lavabo cercando di fare una vivisezione agli arti superiori il più possibile indolore.
“Non è finita per niente, abbiamo solo guadagnato tempo, lo sai bene: tempo due ore e un paio di firme e saranno da noi o hai forse scordato le sue chiamate, le sue email, le sue foto. Siamo in trappola, ci ha incastrato per bene. Abbiamo divorato la sua vita e lei ha abortito il nostro futuro. Non abbiamo scelta, è ora di andare.”
“Ma dove andremo e che ne sarà di Claire e dei bambini?”
“Per ora dobbiamo pensare solo a scappare il resto poi si vedrà.”
Il canarino è già fuori che aspetta, ma prima di uscire prendo il doppio e lo mando giù d’un fiato, in questa notte di farsa ho bisogno di restare sveglio, Paul sotto stress sa dare il peggio di sé. Salgo sul taxi. La fuga è quasi finita, devo fare un paio di telefonate e arrivare in Messico il resto sarà in discesa.