La gloria dell'indigente

L’umidità aveva corroso le pareti. La carta da parati veniva giù impregnata e puzzolente d’umido. Da qualche mese abitava in quell’appartamento stile vittoriano. Le lancette dell’orologio,  segnavano le diciotto e trentanove di una domenica d’inizio febbraio. In altre case la gente rimaneva ipnotizzata davanti le tv.
Non trovava più ispirazione e misericordia nei confronti di ogni forma di vita. Provava un senso di estraneità verso le persone,  e proprio questo suo distacco rendeva ogni cosa più solitaria e meno confortabile. Non sapeva cosa gli stesse succedendo,  ma rimaneva cosciente di ogni sbaglio commesso,  era consapevole di essere visto dagli altri con uno sguardo di superficialità e di non comprensione. Guardava il suo volto riflesso allo specchio,  ma quando distoglieva lo sguardo da quel vetro,  per quanti sforzi facesse non riusciva a ricordare la sua immagine,  aveva un ricordo vago e non definito dei suoi lineamenti. La stessa sensazione veniva provata quando ripensava al suo passato e alla propria vita,  cercava a tutti i costi di sforzare la memoria ma in mente possedeva solo dei ricordi confusi e sfuocati.
Briciole,  fazzoletti sporchi,  lattine,  bottiglie,  restavano sparse sul pavimento del soggiorno.
Dalla finestra filtrava un po’ di luce proveniente dal lampione della strada. La camera rimaneva semibuia. La sua mente appariva estraniata da tutto ciò che lo circondava: il mondo,  la vita.
Dentro di se si propagava uno squallido e perverso bruciore. Percepiva uno stato mentale al quanto deprimente. Una grossa macchia d’umidità si espandeva per tutto il soffitto. Steso sul pavimento guardava il soffitto rotare,  sbalzare,  opprime il suo corpo.
Dentro la tazza del cesso restavano pezzi di fogli strappati: su quei fogli,  per tre anni aveva scritto ogni nomade pensiero.
Lo scrivere rappresentava l’unico mezzo di libertà e di sfogo.
Rimaneva steso a terra,  a dorso nudo,  avvertendo l’umidità trafiggere il suo corpo. Nella mano destra teneva stretta una bottiglia di vino rosso bevuta a metà. Vicino al suo piede sinistro stava capovolta una vecchia foto,  risalente ad un carnevale di molti e molti anni prima: aveva circa sei anni ed era vestito da pirata. Guardando la foto ed in particolare i suoi occhi,  si poteva percepire l’incredulità che possiede ogni bambino di quell’età.
Sulla scrivania,  vicino la finestra,  restava un foglio stropicciato e scritto a macchina,  era l’unico superstite non strappato e non gettato nel cesso:
“Voglia di dire e sfogare,  voglia di essere riconosciuti.
Scarafaggi perplessi e confusi risiedono nella mia patetica e pessimistica volontà di vita.
Ho perso ogni cognizione del mio stato attuale,  ho perso le coordinate per dirigere la mia esistenza.
E’ meravigliosa la mia esistenza! Tutti sono invidiosi dei miei errori. Ma cosa vorrei? Vorrei avere voglia di commuovermi pensando ai sogni,  credendo in essi. Vorrei dormire steso sul prato della mia consapevolezza. Vorrei guardare avanti,  senza rileggere ogni rigo scritto,  vorrei comprensione per tutti i diversi,  gli anomali,  per la bruttezza,  vorrei la mia beatitudine,  vorrei suonare note di redenzione per tutti coloro che sono ingordi di redenzione,  per tutti coloro che hanno abdicato ogni moralità. Per favore: sono solo nella mia mente,  mi trovo immerso in pensieri inutili e superficiali,  mi trovo coinvolto in un complotto di sbagli e desideri,  mi trovo in bilico pensando alla mia prossima ora,  mi trovo in angoscia sapendo di dover affrontare qualcosa…cosa?
In fondo Dio mi conosce,  sa che non c’è cattiveria nella mia crudeltà,  sa che non c’è odio nel mio “odiare“,  sa che non esiste perversità in ogni mia perversione.
Mi hanno svegliato i violini l’altra notte,  mi ha svegliato il suono di un pianoforte,  nella tarda ora dei dispersi,  degli emarginati,  la sveglia ci chiamò,  chiamò tutti coloro che per un motivo o per un altro vennero scacciati,  nessuno si era degnato di offrirci un biglietto d’entrata. Ed ora,  seduto su questa poltrona di morbidi vimini: avverto il tanfo della mia pelle,  delle mie sudice mutande,  del mio sudicio passato,  del mio sudicio avvenire,  del mio sudato mal d’Africa.
Il timore regnava tra queste stanze,  contando i minuti. Il mio coraggio restava disperato,  sommerso,  imbrattato da desideri scaduti.
E’ tempo di battesimo,  è tempo per tutti noi,  è tempo per tutte le nostre illuse chimere,  è tempo per noi illusi,  è tempo per deprimerci,  è tempo dello sconforto,  è tempo di ritardo,  è tempo di saziarci,  è tempo di banalità,  è tempo di gettare i nostri luridi vestiti,  è tempo di gettare le nostre riciclate moralità,  è tempo di entrare tutti in una grande lavatrice,  pronti a lavare e centrifugare ogni nostro peccato,  è tempo di prender tempo,  è tempo del flusso di coscienza,  è tempo di rimanere immobili,  è tempo di eiaculare ogni nostra esitazione,  è tempo per il male di vivere,  è tempo per i persi,  è tempo per i saggi,  è tempo per estendere i nostri malumori,  è tempo di nostalgia,  Che Dio ci accolga,  che faccia suonare i sax ai suoi angeli,  che cantino la gloria degli indigenti,  che cantino la gloria dei blasfemi. Canteremo con le nostre voci rauche le nostre glorie,  suoneremo e riscatteremo le nostre vite,  correremo in direzione del nostro istinto!”
Pochi giorni dopo,  i vicini avvertirono la polizia: dall’appartamento di fronte proveniva una disgustosa puzza!