La poesia di una bolla di rugiada
Lorenzo, cinque anni, non aveva mai visto la rugiada. O meglio, non l'aveva vista così.
Quella mattina, il giardino di nonna era un tappeto scintillante di piccole cupole d’acqua. Mentre gli adulti parlavano di bollette e piogge notturne, Lorenzo si accovacciò, con il naso quasi a sfiorare l'erba.
Una goccia in particolare catturò il suo sguardo. Era una sfera perfetta, trasparente, appesa al filo di una ragnatela come un minuscolo lampadario di cristallo.
Nella sua curva convessa, Lorenzo vide il mondo intero: la nonna che leggeva, la sua mano allungata e goffa, e il sole, rimpicciolito, che esplodeva in un arcobaleno di luce. Per un istante senza tempo, non c'era nient'altro. Non c'era la fretta della colazione, né la severità dei "Non toccare". C'era solo lui, il custode di una magia liquida, effimera e perfetta.
Quando il sole si fece più caldo e la bolla svanì senza lasciare traccia, Lorenzo non si rattristò. Si alzò, gli occhi grandi e luminosi, e corse dalla nonna, tirandole il vestito.
"Nonna," sussurrò con un tono sacro, "lo sai che il sole è un seme e cresce sulle ragnatele?"
La nonna sorrise. Non capì la scienza, ma capì l'estasi. E per un istante, anche lei guardò l'erba come se fosse la prima volta, vedendo non rugiada, ma la poesia che solo lo stupore di un bambino può scrivere sul mondo.