La topolino amaranto

No, la nostra era verde bottiglia. Se la ricordo! Un capitolo della mia infanzia. Precisiamo, Topolino, prima serie, mezze balestra, con capote… semiusata. Un impiegato di mio padre di nome Merlino, sì come il mago, tentò mio padre con questa proposta. Nel dopoguerra, un impiegato non si poteva permettere un’automobile, ma mio padre era un poeta e ogni tanto prendeva un frutto, appena più in alto, che non gli competeva. Fummo i primi in Via Acquarone, a Genova, ad avere la macchina, i primi a possedere la TV, i primi a viaggiare in Costa Azzurra. Ma sempre da famiglia di impiegato. Per cui ricordo gli affanni, le discussioni, i conti sul libro di casa, fatti da lui e mamma, a sera, sul tavolo di cucina. Per la Topolino consultammo anche nonna Amina, vedova, che aveva deposto i suoi risparmi in casa nostra, nel primo cassetto del comò. Ricordo il giorno dell’acquisto: tutti e quattro, papà, mamma, mia sorella Lilia e me, vestiti da domenica, entrare in questo garage della Genova di Ponente. La Topolino con a lato l’impiegato Merlino ci attendeva, lucida, supercromata, altro che semiusata! Terminato le pratiche di acquisto, prendemmo posto per la prima volta, noi ragazzi, in un’auto. Entrare in un razzo, avrebbe generato meno emozioni. Vedo ancora papà, mentre si mette lentamente i guanti di pelle di struzzo, ereditati da Zio Ninni. Ricordo ancora il suo gesto accurato, elegante, saggio nel dare l’ultimo risvolto al guanto per non turbare la candida camicia e lasciare scoperti i polsini d’oro. Un gesto da gran signore... Contatto! Rann, Raann, Raannn… il motorino dell’accensione girava a stento, subito tacque. Un meccanico spuntato dal buio ci tranquillizzò: ‐“Niente…è stata ferma... la batteria… metta la prima che spingiamo”‐ E partimmo, così a spinta, con mamma che ci lanciava sguardi dubbiosi. Non ci fu famigliare o amico, a cui facemmo vedere la nostra nuova auto, che non fu coinvolto nel darci una spinta al momento del commiato, anche alcuni vigili ai semafori, dopo che con un sussulto il motore s’ingolfava e si spegneva. Il lavaggio della Topolino era uno dei momenti più plateali del nostro nuovo acquisto, in Via Acquarone. Papà scendeva per strada, vicino alla fontanella, tirava fuori, seggiolini, tappetini, ingombrando il marciapiede. I vicini di casa muti, lo guardavano dai balconi, stupiti e sicuramente con una punta d’invidia. Io e i miei amici gli si faceva cerchio e a tratti, a suoi ordini precisi, gli si dava un aiuto. La Topolino ritornava ad essere nuova e non semiusata. Il tocco finale, l’apoteosi del tutto, era la verniciatura, in nero, delle gomme, che dovevano apparire, appena uscite di fabbrica. Poi papà, rimetteva via barattolini di varie vernici, creme lucidanti, argentina e cose varie. Risaliva in macchina e portava la macchina, al riparo, in garage. Tutto questo con estrema eleganza, come lui ben sapeva fare. Quante scampagnate in Liguria, quanti viaggetti nella ricca Costa Azzurra, dove a sera si andava a vedere i ricchi del Negresco di Nizza che cenavano all’aperto. Ricordo ancora quelle tavolate sontuose attorno a immensi flambé, che apparivano allo spegnersi della magica fiammata, immensamente gustosi ma inarrivabili. Non posso non ricordare la fallita gita a Portofino vetta. Il motore aveva i suoi anni e La Ruta, la salita che portava in cima, era temuta da noi tutti. Papà lanciava sul rettilineo di Recco la Topolino e affrontava i primi tornati. Noi si stava in silenzio. Ogni fremito del motore aveva una codificazione. La terza, come marcia era la prima a rinunciare. Con un colpo rapido per non perdere velocità il “Zag” della seconda. E questa era la più drammatica a tenersi, perché il tornante aveva una pendenza eccessiva e lo scendere alla sferragliante prima voleva dire surriscaldare il motore ed andare in ebollizione. E così avvenne quel giorno. “Guardate che posto incantevole, quanto verde e fiori. Per oggi ci fermiamo qua sul prato a fare colazione”‐ Mamma, oltremodo positiva ci aveva convinto. L’amenità del posto non chiedeva discussioni. Portammo sul prato coperte da stendere, la cesta del picnic, la ghiacciaia con le bevande. Mamma, giovanissima, allora, che chiamava mia sorella per cogliere fiori. Papà iniziava a sfogliare il giornale, godendosi il suono degli uccelli, numerosi fra gli abeti. Quando, improvvisamente scorgemmo un silenzioso corteo che stava dirigendosi, verso di noi. In testa quattro signori vestiti di nero reggevano una cassa da morto. Eravamo nel giardino antistante il cimitero di Recco!