Le disavventure di du’ pori sciagurati

Che fatica! Ho finito ora di smontare, asciugare e sfangare il mi’ poro fucile, che meno male non ha dovuto sparare se no non sarei qui a raccontare questa tragedia. A parte il fatto che domenica devo accendere un cero da dieci chili a Santa Barbara. Ma cominciamo dall’inizio.

Alle undici mi chiama Gabriele e mi fa: “Oggi si va, vieni?”.
“O non verrò?”, e si resta d’accordo per le tre. Alle due e mezzo nubifragio biblico. Vai! Si sta a casa. Lo chiamo e gli fo: “Altro che a caccia, qui si va a pesca”.
“Ma no, è un acquazzone passeggero, risentiamoci più tardi!”.
Mah! Sarà che passi, io intanto decido di andare a letto. Alle tre e trentotto, nel pieno del sonno pomeridiano, squilla il cellulare. Indovinate chi poteva essere! Proprio, lui, che mi fa: “Io mi preparo e arrivo, fatti trovare pronto sotto casa!”.
“No, ma aspetta, ma dove si va? E’ tutto mollo, ci s’infradicia!”.
“No, no, si sta nei campi e basta, portati gli stivali”.
Penoso sospiro da parte mia, che tanto conosco i mi’ polli, e liberazione del braccio informicolito di mia moglie da sotto il mio collo. A qualcosa, almeno, la telefonata è servita!
S’arriva sul posto e ci s’instivala e ovviamente, camminando in discesa, dopo cento metri i calzini son già arrivati tutti in punta alle estremità. Almeno mi salvano dalle galle.
Si procede per campi fradici e puliti, in mezzo a un uliveto brillante, raccogliendo intorno alle suole quei cinque chili di fanghiglia che sopperiscono ampiamente ai pesi posti alle caviglie dalle ginnaste che vogliono riattivare la circolazione, e ci si lascia inebriare dall’aria, fumigante vapori acquei e profumi di finocchio selvatico secco e liquirizia. Si parlotta del più e del meno quando Gabriele lancia un’esclamazione colorita”
“Che è?”, fo io. Ah, per la cronaca io sarei Baffino.
“Una fagiana c’è volata davanti e s’è buttata a destra”.
“Ma dove? Io ‘unn’ ho visto niente!”.
“Sì, sì io l’ho vista bene”, e detto fatto si getta all’inseguimento e addio ai miei be’ campi olezzanti e all’uliveto brillante. Passato a volo una specie di vado, ovviamente cosparso dei soliti rovi, marruche, rampicanti puntuti, pruni, lappole, scardaccioni e, stranamente, non di filo spinato rugginoso nascosto sempre ad altezza di caviglie o genitali, ci si tuffa in una vigna abbandonata.
L’avete presente com’è una vigna abbandonata? Ecco ve lo dico io. Abbandonata dall’uomo ma infestata da ogni genere di erbaccia e arbusto, tutti all’altezza del petto, aggrovigliati coi tralci d’uva che nessuno si prende più la briga di tagliare.
La prassi di caccia delle vigne abbandonate? Fare tutto un filare in su e poi un altro filare in giù, fendendo col proprio corpo una vegetazione inestricabile che fa di tutto per mandare il passante a gambe all’aria. Perché col proprio corpo direte voi? Perché le braccia tengono in alto il fucile affinché non s’intasi e non si bagni. Il fucile.
Secondo voi, noi in che condizioni saremo usciti, dato che vi era piovuto da nemmeno mezzora? Andiamo avanti.
Di prede, inutile dirlo, nemmeno l’ombra, così, sempre per ribattere la fantomatica fagiana, ci immergiamo, letteralmente, nella macchia alta, grondante, gocciolante, rivolante, alla ricerca del solito sentiero inesistente che Gabriele è sempre convinto esistesse appena l’anno prima. E qui si ripete l’immancabile ed impari lotta con la Natura indomita che cerca di accecarci, strangolarci, strappaci il capello e le brache, riempirci le tasche e gli stivali di spini, farci scivolare, agganciarci, bucarci, lacerarci, devo seguitare o vi siete fatti un’idea? Ovviamente quando dico cerca, intendo dire che ci riesce benissimo. Direte voi: ma le mani non ce l’avete? Purtroppo sì prima di addentrarci, perché dopo sono diventate il terreno di coltura per ogni genere di spini, tagli, forature e future infezioni.
Comunque sia, non si passa e si torna indietro rifacendo grondare, gocciolare e rivolare tutti gli arbusti e gli alberi che non avevamo ancora asciugato al nostro primo passaggio… “No, no, si sta nei campi e basta”….
“Di qui non si sfonda. Si deve scendere al fosso”.
“Eh, andiamo che ho caldo e mi devo rinfrescare!”.
Intanto si sente un minaccioso bubbolio in lontananza e monumentali nuvoloni grigi si approssimano a sbarrarci il passo, quale borbottante monito di incombente pericolo. Ma a noi? Figuriamoci! E che ci fanno?
Tolto l’ultimo stivale dall’acqua del rivo che ne supera il bordo, i vestiti sono ormai imparentati col corpo. Una sgradevole doppia pelle umidiccia, appiccicaticcia e diaccia, ma perché preoccuparsene? Appena sbucati nel campo, infatti, la minaccia celeste si realizza e le cateratte iniziano la loro opera di svuotamento su di noi. Io guato con odio il mio compagno… “Ma no, è un acquazzone passeggero”….
In qualche modo recepisce e fa: “Forse bisognerebbe metterci sotto una pianta grossa…”.
“Sì, così, coi fucili in mano, si muore fulminati di sicuro”.
“Ma no, si sta lontani!”.
“No!”.
“Allora andiamo in quel poderino. C’è un poderino in cima al poggio, dietro la siepe. Ripariamoci lì”.
E vai sotto l’acqua a cordoni su pe’ ’n poggio scivolando nel fango e pensando che un fucile da collezione sta facendo la cura della ruggine. Lui. E io quella dell’artrosi, bronchite, artrite, pleurite, polmonite e forse anche malaria! Perché nonostante l’acqua, i tafani e le zanzare non ci danno pace.
Come Dio vuole e non direttamente, ma dopo un largo giro in un altro uliveto, perché già che ci siamo…, s’arriva al rustico. Portone sbarrato. Nessun’altra apertura in vista.
“No, ma vedi che esce il sole? Ora smette. Guarda c’è già l’arcobaleno!”, fa Gabriele con la solita faccia da schiaffi.
E giù per la ripa a ricacciare. E piove. E ripiove.
Mezzi, molli, fradici da farci schifo, che s’era inzuppata persino la rubrica del cellulare, attenti!, il cane sgagnola, un macchiarozzo si muove e la passione prende il sopravvento su tutto. Per pochi attimi è come se il sereno brillasse, irradiassi calore come una centrale atomica ed il mondo mi sorridesse col più caloroso affetto. Pochi attimi. A un metro mi schizza fuori una capriola che incanno d’istinto, trattenendolo immediatamente e vedendola zompare allegra e leggera sino al vicino bosco ove si gira e si ferma a guardarmi con gli orecchi dritti, come a dire: “Ma come? Non mi spari?”.
Sospiro, aspirando un paio di litri d’acqua, mi asciugo la faccia con una mano che è la cosa più asciutta che indosso e procediamo. Ci fermiamo, sotto un pero e sotto l’acqua. “Senti, ma si va alla macchina? Qui si rischia grosso con questi fulmini”, non faccio in tempo a dire, quando un tonfo spropositato, un boato inaudito, mi strappa i capelli di capo e dieci anni di vita. Una folgore è caduta a pochi passi, piegandomi in due e sollevandomi al contempo un paio di metri da terra. E quell’incosciente, notoriamente duretto d’udito, mi fa: “O che era? M’era parso il frullo del fagiano!”.
Certamente mi sarebbero state concesse non solo le attenuanti generiche, ma anche le specifiche. Tuttavia, poi, chi mi ci porterebbe a caccia? Quindi si riparte, sempre sotto una pioggia fitta e insistente, mentre il folle incosciente mastica una pera e se la ride come un gremlings annaffiato.
Si ripassa uno degli innumerevoli guadi e, scivolando lungo montagna di fango che devo discendere, mi si infila la canna del fucile nella mota, tappandomelo per tre buoni centimetri. Cerco un albero contro cui battere il capo e farla finita, ma, purtroppo son tutti foderati di spessa edera e muschio. Non mi resta che infilare un dito nella canna e provare a stappare. Provo col mignolo che è anche il meno utile e spero nella sicura del fucile. Parte un colpo micidiale. Per fortuna non dall’arma, ma dal cielo. Giove tonante ce l’ha con noi, e Santa Barbara deve fare i miracoli!
A questo punto mi avvedo di un grande vantaggio. I vestiti, che poi dovrò togliermi col coltello, son divenuti così aderenti da essersi scaldati per il sudore e lo sforzo, così che ora posso procedere avvolto in panni tiepidi come i salviettoni da sauna, e per di più, ho la comodità di poter bere senza sforzo, dato che la visiera del berretto mi si è afflosciata sull’occhio sinistro e mi basta sporgere la lingua per intercettarne la costante sgrondatura.
Finalmente l’incubo pare avere termine, e sotto un meraviglioso arcobaleno, appare la tanto agognata macchina. Raggiungiamo la strada, il ferraccio arrugginito, il tappo di fango, la riserva idrica annuale che mi porto addosso ed io, e Gabriele fa: “Ma si fa anche quell’altro poggio?”.
In un tutt’uno, i due cani, o ciò che ne resta, Pacone e Pachino versione anfibia, l’occhio otturato della mia canna ed io lo fissiamo inorriditi e increduli, ed uno spontaneo moto di disgusto, ma sopra tutto moto a luogo si parte corale e irrefrenabile al suo indirizzo.
Alfine, quando potremo sederci al riparo della vettura, ecco che il riparo non sarà più necessario, giacché chiuso lo sportello, per imitazione, la volta celeste chiude i rubinetti.
Naturalmente l’acqua è l’unica cosa che abbiamo preso, e quando allungo la mano per accendere lo scalda sedile, Gabriele mi blocca urlando: “Fermo! Potresti rimanere fulminato!”.