Gino, il pozzo e il gatto

Gino era un ragazzo di Vetulonia, che come gli altri dodicenni suoi coetanei, nei rari momenti di libertà che gli lasciava il lavoro nei campi, ricercava un po’ di svago nella natura. Un giorno di festa s’aggirava negli ubertosi pressi del paese frustando l’aria con un ramo di ginestra fiorita, quando intese miagolare un micio, ma quel verso, più che un semplice miagolio, suonò ai suoi orecchi come una disperata richiesta di soccorso. Il gemito pareva provenire dalle viscere stesse della terra ed egli comprese al volo che il gatto doveva essere precipitato dentro un pozzo. Nei dintorni, infatti, si trovava un antico pozzo, scavato dagli Etruschi e rimasto in uso per secoli fino al presente. Poiché, poco prima, il ragazzo aveva udito la Signora Maestra chiamare il proprio gatto, comprese che doveva trattarsi della stessa bestiola, corse subito ad avvertirla. L’insegnante si precipitò sul luogo e credendo di riconoscere negli strazianti richiami quelli dell’amato felino, supplicò il ragazzo di salvarlo. Gino non se la sentiva di rifiutare un aiuto proprio alla persona che tanto avrebbe desiderato conoscere e che, invece, mai aveva potuto frequentare a causa delle spietate necessità della vita d’allora. D’altra parte, tutti sapevano che il pozzo era profondo circa dodici metri, per cui Gino esitò a rispondere. Alla fine si diede coraggio ed accettò, ma a condizione che qualche  uomo di fatica lo calasse dopo averlo assicurato ad una fune e, soprattutto, fosse pronto ad issarlo a cose fatte.

Per colmo della sfortuna gli uomini validi erano quasi tutti scesi a valle per l’estatura, ma, come Dio volle, riuscirono a trovarne tre adatti allo scopo, muniti di una robusta corda.
Gino si accoccolò sul secchio, mentre la catena si dipanava facendolo lentamente sparire alla vista.
La luce diminuiva rapidamente durante la discesa e con essa anche lo spazio: Gino s’avvide, infatti, man mano che procedeva, che la calata non era affatto diritta, bensì tortuosa e ristretta dai detriti depositatisi sui fianchi col passare dei secoli. Presto rocce sporgenti e sassi puntuti presero a tormentargli le carni, fino a farlo sanguinare, ma il ragazzo, che non era nuovo al dolore ed alla fatica non cedette e continuò a discendere, preoccupato solo di poter arrivare in tempo.
Il cunicolo si faceva sempre più angusto ed in non poche occasioni il corpo del giovane rischiò di restare incastrato, ma seppe sempre districarsi e proseguire.
Ormai scendeva nella totale oscurità e le voci degli uomini che l’avevano fino ad allora accompagnato ed incoraggiato non filtravano più. Solo la catena che seguitava a cigolare l’univa al mondo dei vivi.
D’improvviso Gino, dopo essere a lungo scivolato aiutandosi cautamente con mani e piedi, si sentì sospeso nel vuoto e con un tonfo sordo precipitò inaspettatamente nell’acqua marmata che lo gelò. Dopo tanto strazio aveva raggiunto il fondo solo per affogare, credé in preda al panico. La cisterna doveva essere fonda circa tre metri e se il braccio del ragazzo non avesse afferrato d’istinto la catena del secchio, brancolando alla cieca, il gatto non sarebbe morto da solo.
Gli uomini all’imboccatura continuavano a calare, ignari del pericolo mortale che Gino stava correndo, ma per fortuna sapeva nuotare, e sebbene gli arti gli s’intorpidissero in fretta, radunò il fiato necessario per un buttar fuori un bercio sostenuto dalla forza della disperazione, che solo la maestra avvertì. Il cavo divenne d’un tratto rigido ed immobile, mentre una torcia veniva calata lentamente.
Gino si riebbe quando scorse il timido bagliore che, dopo millenni, osava violare il buio anfratto per rivelarne i segreti allo sguardo sbalordito del giovane, disceso per certo dai pristini artefici.
S’issò lungo la catena ed afferrò la fiaccola prima che toccasse l’acqua. Capì, allora, di non essere stato il primo occupante di quel luogo remoto: le pareti dell’ambiente che raccoglieva la falda erano, infatti, state scalpellate tutte a mano e la luce ballava su di esse, rimbalzando d’intorno e rifrangendosi su ciascuna cunetta. Sebbene l’imboccatura del pozzo dovesse risultare all’origine più ampia ed agevole e sicuramente meglio tenuta, Gino si chiese se non fosse stato proprio un ragazzo come lui a compiere un simile lavoro. Forse, un suo antenato. Magari era proprio così, giacché molte sono le coincidenze inspiegabili tanto nell’arco della vita d’un uomo, quanto nello srotolarsi dei secoli.
Un suono appena percettibile lo riportò al tempo che correva e cercando di dirigere il riverbero verso la direzione da cui era giunto, poté intravvedere una matassa di pelo gocciolante, abbarbicata su una lieve rientranza della parete: ringraziando il Cielo il gatto era ancora vivo.
Il salvatore si dette l’abbrivio e prese a pendolare nel tentativo di afferrarlo. Inutile! Era troppo distante, per cui rimaneva un’unica scelta: non appena la catena fu tornata immobile, fissò in uno degli anelli il manico della torcia ed afferrò la canna che gli galleggiava accanto, su cui il lume era stato in un primo momento assicurato. Di seguito riprese a dondolarsi e non appena l’ebbe a tiro, vibrò un deciso colpo all’animale che, persa la presa sul precario appiglio, precipitò in acqua, punto contento del trattamento ricevuto e delle ripetute, indesiderate abluzioni. Gino abbandonò a sua volta la propria sicurezza e si tuffò verso la bestiola che, avvertito un corpo solido in mezzo a tanto liquido, lo artigliò  con tutte e quattro le zampe. Si trattava, naturalmente, del torace del ragazzetto che pur patendo per tali effusioni, ne fu quasi sollevato, potendo in tal modo mantenere libere le braccia per nuotare sul dorso fino alla catena.
A quel punto Gino prese ad urlare con quanto fiato aveva in corpo, agevolato in ciò dall’atteggiamento poco amichevole del micio, ed alla fine l’eco delle sue grida colpì, forse, prima il cuore dei sensi della maestra, che ordinò di issare alla svelta.
Certo era convinta di agevolare l’ascesa dopo un’attesa tanto incalcolabile quanto angosciosamente interminabile e gli uomini, avvezzi a ben maggiori pesi, non si risparmiarono di certo, e così facendo rischiarono di soffocare Gino. Se le strettoie e le curve gli erano apparse aspre alla discesa, si rivelarono atroci alla salita, e mentre sassi e motriglia gli franavano sul capo, il sangue sprizzava rorido a dissetar la terra, dalle spalle e dalle braccia. Eppure, Gino non si curava delle ferite, tanto grande la gioia di poter tornare a rimirar la luce del sole, fiero per di più, di aver compiuto la missione affidatagli con tanto fremito dalla signora maestra!
Pochi attimi e sbucò all’aria col prezioso carico più morto che vivo, ma salvo. La maestra l’abbracciò e lo baciò forte, poi gli tolse il micino e corse via ad asciugarlo.
Gino rimase a guardarla allontanarsi, raggiante, anche se lo straccio che gli faceva da camicia pel caldo e da cappotto pel freddo era lacero e logoro e difficilmente avrebbe potuto sostituirla, ma al momento non se ne dette cura. Era vivo e, grazie a Dio, era estate.