Mi dispiace, scusami

Il sole era alto in cielo. Era mezzogiorno. C'era vento e non faceva caldo. La mia testa girava ancora e sentivo i brividi attraversarmi tutta. Avevo passato la notte in bianco, l'ennesima.
Perché glielo lasciavo fare? Perché non mi ribellavo?
Era passato più di un anno ormai ed era troppo tardi. Mi ero innamorata.
Avevo giurato a me stessa che non mi sarebbe più successo. Nessuno mi avrebbe fatto ancora del male. L'avevo sentito dire alla televisione una volta: le donne cercano sempre lo stesso uomo. Se quello prima le aveva ferite, ne cercavano uno uguale. Mi aveva fatto ridere, io non ero così stupida. Non mi sarebbe sicuramente successo di nuovo. Nessun uomo mi avrebbe fatto soffrire ancora ed eccomi seduta sull'orlo del fiume a guardare la mia immagine riflessa in una piccola insenatura di acqua stagnante. Il viso pallido e stanco. Gli occhi gonfi e rossi.
In tanti dicevano che ero una bella ragazza, ma dove mi ero persa?
Mi ero persa ancora una volta.
Nella mia testa rimbombavano i commenti dei miei amici, quello che mi dicevano in faccia. Non volevo nemmeno immaginare cosa si raccontavano mentre non c'ero. L'altra sera al pub era stato un susseguirsi di "Ma non vedi che non gliene frega nulla di te?" oppure "Se gliene importasse qualcosa ti cercherebbe…" e ancora "Si sta divertendo senza di te, non ti sei mai chiesta a che cosa gli servi?". Infine quello più pesante, che aveva fatto male da morire: Anna, la mia migliore amica "Pensavo di poter essere finalmente felice per te. Invece è l'ennesimo stronzo che ti fa soffrire.".
Seduta vicino all'acqua con quel suo mormorio rilassante, cercavo di scacciare i cattivi pensieri. Mi dicevo che tutte quelle cose non erano vere. Lui aveva detto di amarmi. Mi aveva cercato per tutta la vita e mi aveva trovato. Voleva stare con me per sempre e farmi felice. Ero la donna perfetta. Ma non ero io. Era una sua fantasia e come tutti gli altri, quando si era accorto che la sua non era una donna perfetta, si era creato un mondo per allontanarsi. Ero diventata scomoda. Ero diventata "come tutte le altre".
Le parole dolci e le promesse erano svanite nel nulla e al loro posto erano rimaste le battutine sarcastiche e ironiche, che pugnalavano come un coltello affilato. Non avevo più la forza di combattere e abbattere quel muro freddo, ma lo amavo. Lo amavo così tanto che spesso mi mancava l'aria.
Mi sentivo morire in quei momenti. Un dolore come se due mani enormi s'infilassero nel mio petto e, afferrandomi il cuore, dapprima lo stringessero e poi lo lacerassero a metà. Non era una metafora, provavo una vera e propria sofferenza fisica e anche il groppo in gola, i brividi attraverso il corpo.
Erano appena passate due ore. Gli avevo solo detto che mi faceva del male comportandosi così. Non aveva risposto ed io me n'ero andata.
Lo faceva per punirmi? Si sentiva felice ferendomi così? Provava qualche soddisfazione nascosta che io non capivo?
Ero stanca e stufa. Mi conoscevo e sapevo che così non sarebbe andata avanti a lungo. Io non avevo la pazienza delle altre sue donne e l'amore non sarebbe bastato. Gli avrei ancora dato un po' di tempo. Un anno ancora forse e poi gli avrei detto, guardandolo negli occhi, che non aveva più senso. Stavo male con lui anche se lo amavo intensamente. Non mi avrebbe mai potuto dare quello di cui avevo bisogno: la sensazione di essere amata.
Io non avevo paura di restare da sola. Sola ero rimasta a lungo. Meglio sola tutta la vita che la percezione di essere inutile e superflua.
Mi guardavo e mi osservavo. Le lacrime fluivano dai miei occhi, automaticamente ormai. Nemmeno mi accorgevo di piangere e mi capitava spesso ultimamente. Non era debolezza anche se lui lo pensava. Era dolore.
Per lui ero diventata trasparente. Un bisogno. Un soprammobile. Pronta ad essere presa ed usata nel momento del bisogno.
Cosa dovevo fare?
Io l'amavo ed ero sicura che anche lui mi amava. Il suo, era però un amore "part time"! Sorrisi a quel pensiero.
Mi specchiai ancora. Ero lì da sola. Inutile aspettare. Lui ed il suo orgoglio non sarebbero venuti a cercarmi.
Mi alzai faticosamente. Indolenzita, con le mani scrollai dai jeans i residui di terra e sassi che mi si erano appiccicati addosso.
Lentamente discesi il piccolo sentiero che conduceva alla casetta. La primavera stava arrivando e si sentiva nell'aria. Per qualche giorno aveva piovuto e l'odore umido faceva bene ai miei polmoni. Tutto intorno era un esplodere e mescolarsi di colori vecchi e nuovi, che salutavano l'inverno.
La casa era lì, dove l'avevo lasciata. Sarebbe stato quasi meglio, come in una favola, non averla trovata più. Un sogno/incubo da dimenticare.
Mi fermai per qualche istante davanti alla porta d'entrata. Girandomi vidi le auto. La mia, parcheggiata al sole, sembrava chiedermi di salire e scappare via.
Entrai. Lui era in soggiorno con gli occhi fissi sulla tele. Era domenica e c'era il Gran Premio di Formula Uno. Il rombo monotono dei motori che scivolavano sul circuito mi fece venire in mente quanto monotona fosse diventata la mia vita. Mi avvicinai alla poltrona. Lui, come se nulla fosse, forse in preda ad uno strano istinto di affetto, mi prese la mano e l'accarezzò. Magari voleva venire a cercarmi, ma l'interesse per la meccanica e le corse l'aveva trattenuto.
"Non ha più senso. Me ne vado." quelle parole scivolarono dalla mia bocca come se a pronunciarle fosse stata un'altra donna.
La mano di lui si irrigidì sulla mia. Continuava a fissare la televisione. Forse non era più concentrato come prima, ma era l'ultimo giro! Io e la mia isteria avremmo indubbiamente potuto aspettare ancora un po'…
Mentre mi allontanavo verso la nostra camera per mettere insieme le mie poche cose, lo sentivo alzarsi dalla poltrona. Distinguevo esattamente la sua incertezza. Era l'ennesimo mio capriccio? Li chiamava capricci. Diceva che noi donne eravamo state viziate con le attenzioni e ne volevamo sempre.
Mi ero sempre chiesta che fatica poteva provare un uomo a mostrare attenzioni. Una parola dolce, un sorriso, un messaggio attaccato alla porta del frigorifero, una telefonata solo per sentire la nostra voce. Perché a noi tutto ciò non costava nulla? Meno di un minuto del nostro preziosissimo tempo.
Domande che mi frullavano nella mente mentre tremavo e piegavo i miei vestiti davanti alla valigia aperta.
Sentivo che lui stava in piedi dietro di me. Avvertivo la sua presenza, ma non volevo guardarlo. Avevo paura del suo viso e della sua espressione.
Tempo fa gli avevo detto per l'ennesima volta che mi sentivo trascurata e lui si era arrabbiato. Mi aveva urlato e detto cose che non volevo ricordare. Da quel giorno non le volevo più risentire; le volevo cancellare dai miei ricordi.
Mi ero tenuta tutto dentro.
Chiusi la valigia. Mi dovevo girare per uscire dalla camera. Trattenendo il respiro mi voltai verso di lui. Mi guardava impassibile senza dire nulla. Stava preparando un discorso nella sua testa, ma non era sicuro delle parole da usare? Aveva il viso stanco e per un momento esitai. Soffriva anche lui?
Sentivo le lacrime che spingevano per venire fuori, ma non volevo piangere davanti a lui. L'avrei fatto in macchina, come sempre. Lui aveva letto da qualche parte, forse in internet o su qualche rivista mensile per soli uomini, che il pianto delle donne era una specie di ricatto. Un modo per cercare attenzioni. Ma se era così, perché il mio cuore si spezzava sempre di più e il dolore cresceva ogni volta che una sola lacrima scendeva dai miei occhi? Avrei voluto chiederlo a quel giornalista, che sembrava conoscere ogni nostro più piccolo sentimento nascosto. Mi avrebbe risposto razionalmente.
Razionalmente. Anche lui vedeva tutto così. Persino il nostro amore. L'aveva definito una reazione chimica, come se fossimo un esperimento. Due particelle che si attraggono.
Io non ci riuscivo. Non vedevo nulla di razionale nell'amore e nemmeno nel dolore. Non cercavo attenzioni piangendo. Le volevo quando ero felice. Pretendevo di essere felice!
Feci qualche passo verso la porta. "Mi dispiace, scusami." la sua voce alle mie spalle aveva spezzato quel silenzio imbarazzante. Contai mentalmente tutte le volte che avevo sentito o letto quelle stesse sue parole.
Razionalmente potevo pensare che ogniqualvolta un uomo le pronunciasse, cercava di mettere tutto a posto alla svelta evitando di perdere tempo in inutili discussioni. Io invece, fino a quel giorno, ci avevo creduto veramente che gli dispiacesse e che qualcosa sarebbe cambiato. Con la valigia in mano e la sensazione d'amaro in bocca, le scuse non mi bastavano più. Sembravano l'ennesima presa in giro.
Mi avvicinavo alla macchina e sapevo che non mi avrebbe seguito. Certo, mi avrebbe telefonato fra qualche giorno e avrebbe fatto finta di nulla, nella speranza che la mia isteria fosse passata.
Mi avrebbe cercato per amore o per paura di restare da solo? Non sarei tornata da lui con questo dubbio.
Guidavo verso casa e mi accorsi che non piangevo. Il senso di oppressione nel petto non c'era più. Il dolore resisteva.
Mi sarebbe passato. Come sempre dopo un po'…