Ombre sul Cermis (Stralcio)

Scivola lenta la nebbia formando speculanti ombre materiche, non riesco a scindere le immagini che mi si presentano all'orizzonte, è fitta e composta bruma che nei suoi giochi ottici plasma figure umane o sono realmente persone che a causa dell'alone della nebbia sembrano ombre?
Sono io stesso un'ombra che avanza in questo panorama notturno sbiancato dal velo impalpabile che mi avvolge e pure mi scompone in riflessi che io stesso vedo, guardando il mio profilo proiettato e stagliato nelle tenebre?
Fisso le mie orme nella neve e constato come stancamente pesante sia il mio passo se sotto di me scricchiola sbriciolando la sua coltre bianca che, più alta al prossimo passo, ricopre la scarpa. Mi fermo, il respiro diventa nuvoletta che al contatto dell'aria frizzante diventa solida panna, mi si para davanti agli occhi della mente un invitante dolce che attiva le papille gustative e deglutisco, mi rendo conto che ho fame, quella fame di cibo solido, salato, e acqua, acqua che irrora la mia gola secca, e un bicchiere di vino che mi scivoli dentro e rivitalizzi e scaldi tutto il corpo fiacco; e infine poi coronare il pasto con il sapore dolce di una fetta di saint honoré degnamente amalgamata di crema e panna. Il risveglio dei sapori nella mente fa brontolare il mio stomaco che adesso si lamenta tenacemente, lo vedo pari ad un sacchetto vuoto e floscio contorcersi su stesso, ho fame. E sono stanco, tanto stanco. Attonito mi guardo attorno nel tentativo di fotografare l'insieme della situazione del momento, cerco una particella di coerenza e lucidità, un neurone che si illumini e dia il via ad un pensiero costruttivo, e risposte alle domande caotiche che si pongono senza linea, alla rinfusa come fili di lana di una matassa inspessita da una lunga immersione in acqua salata, e trovare una soluzione al mio stato attuale. Devo elaborare. La notte è gelida qui in montagna più che altrove e non potrò camminare come un essere lobotomizzato all'infinito, senza capacità di intravvedere una ipotetica meta, una via d'uscita.
Cosa ci faccio quassù in una notte glaciale, in abiti da ufficio. Devo elaborare.
La camicia è un sottile vetro, le pieghe sono ricami di ghiaccio che sferzano la pelle ad ogni respiro, la giacca ondeggia sulle mie spalle appesantita dal paletot divenuto pesante per l'umido assorbito e le scarpe sono né più né meno che un velo confuso con le calze ormai zuppe. Ho freddo, ho tanto freddo, non sento più i piedi appartenere al corpo, li vedo appendici posticce alla base della mia altezza. Aver constato di indossare abiti non consoni all'ambiente, aumenta l'idea del disagio che appena appena percepivo fino a poco fa. Mi sono smarrito fra le nevi del Cermis, ecco la realtà, sono nebbia nella nebbia fitta dell'alpe bardata di neve, e forse, fra questa foschia ho intravisto ombre di altre persone. Non ho forza, eppure trascinare i passi non mi stanca, non mi accorgo nemmeno di camminare ora che ci penso, la consapevolezza di non avere energie è un input che mi arriva dal cervello. Tutto mi sta arrivando dal cervello, la constatazione della mia fame per la mancanza di cibo che ad occhio e croce, non ingerisco da almeno tre giorni, e che sono stanco lo comprendo dai miei abiti sdruciti, nei quali avrò dormito stropicciandoli e bagnandoli nel procedere in questo ambiente umido, da come sono conciati è certo che li porto addosso da più giorni, quindi sono in viaggio e senza nutrimento da un non definito periodo di tempo, tre giorni? Una settimana? O forse più, o forse solo ore.
Quanto tempo è trascorso su di me da quando vago su queste piste bianche, quante ore mi sono passate addosso, quanta neve mi ha toccato e si è sciolta sui miei vestiti e sulla pelle? Ne sento il freddo lineare, senza sbalzi fra le ossa, quanta ne è venuta giù dal cielo e quanto sole mi ha asciugato? Questa notte sembra aver fermato il buio avvolgendo ogni ricordo di luce precedente. Appaio come pilastro nero piantato in mezzo alla valle, apro le braccia e guardo la mia ombra proiettata sulla neve, la luna è piena e ne fa risplendere il contrasto creando precise figure con ogni ombra che possa crearsi anche dall'asimmetria del terreno, divarico le gambe e studio attentamente le mie forme riflesse, sembro un traliccio, mi mancano ancora dei fili a prolunga delle dita e un'altra ombra e poi ancora una, in fila l'una accanto all'altra, per essere una teleferica. Sono la teleferica del Cermis. Una folata di vento smuove la sagoma scura spruzzandola di pulviscolo bianco, mi distrae e riporta il pensiero all'istante, a quanto ora sia importante non fermarsi, è certamente un errore cedere alla fame alla stanchezza al sonno. Devo pensare, equilibrare il pensiero, portarlo al contingente, programmare almeno una parvenza di filo logico al fine di capire, pianificare, e ripartire.
Da quanto tempo vago sul dorso di questo monte? Sento il freddo sopra e dentro e sono stanco, la testa mi martella, devo scaldarmi, mangiare qualcosa, riposare. Devo riordinare i pensieri, mille immagini si sovrappongono e le voci si intersecano; devo riordinare, rimettere mente e corpo in equilibrio. Sono stanco, ho bisogno di riposare e poi potrò pensare, ora no, tutto è troppo eccitato dal biancore che mi assalta. Questo monte se pure mi ama, mi sta succhiando ogni energia, fisica e psichica.
Circondo con lo sguardo il panorama, lassù, fra i giochi di penombra e le luci della nebbia, di fronte a me, sopra di me, vedo delle sagome accennate che compaiono e scompaiono scomposte dai cirri, ora mi pare di scorgere proprio delle persone riunite, come in attesa di qualcuno, il vento gelido e compatto mi recapita lontane voci da tonalità ovattate, le voci maschili si confondono con l'aria stessa, quelle femminili invece la toccano, morbidamente come spatole di celluloide mentre rimestano una deliziosa crema chantilly… E la modulano quest'aria, sembra quasi meno fredda ora che tra un sospiro e l'altro si interpongono le note delle parole, che però non riesco ad afferrare per capire se sono rivolte a me o se sono sfuggite al circuito del loro campo sonoro. Guardo nella direzione del cuneo delle loro voci con più attenzione, nelle movenze si delineano figure umane avvolte dall'aura bianca che avviluppa ogni cosa in questo luogo; il loro parlare potrebbe essere diretto a me, non sembra concitato o di volume superiore alla discorsività o rivolto specificamente a qualcuno al di fuori della loro minuta cerchia, da far pensare che sia io il destinatario. Eppure so che quel capannello di persone confuso fra nebbia e neve, stia lì con la certezza che sia io il qualcuno che deve arrivare, che attendono per dirmi qualcosa, per farmi parte della loro conversazione, lo intuisco dai loro corpi che sembrano disposti a ventaglio sul costone e di fronte a me. Devo riprendere il cammino e segnare un sentiero nuovo in questo terreno morbido, devo dirigermi verso loro, e se pur non fossi davvero io la persona che attendono, aggregarmi e concludere questo mio andare solitario, metterà fine al mio disagio di uomo disperso in un freddo angolo di universo. Devo raggiungere quelle persone devo fendere l'ombra della notte sbiancata dal gelo. Trovare riparo e calore...