Panino scongelato al microonde

Un panino scongelato al microonde.
È questo il risultato del mio percorso di affermazione sociale.
Umido, bollente, un po’ gommoso.
Maledettamente diverso dal pane di semola per cui è famosa ..la Puglia.., con la crosta bruciacchiata e croccante e la mollica densa, morbida ma non vaporosa.
A trent’anni, in terribile ritardo sulla media nord‐europea ma in perfetta linea – se non persino un po’ in anticipo – con quella italiana ho deciso di lasciare casa dei miei genitori ed andare a vivere da solo.
Avvertivo un pressante bisogno d’indipendenza.
C’erano i miei orari incompatibili con quelli dei familiari: fino alle due di notte davanti al PC, a ritagliarmi spazi di socialità virtuale, chattando con amiche dalla fisionomia non ben identificata – affidata ad una foto che non puoi mai sapere quanto sia sincera – oppure curiosando morbosamente fra i profili dei più di trecento contatti di Facebook, alla ricerca di un link da condividere o di un motivo per sorridere.
Poi, sveglia alle sette, doccia, e subito in macchina verso l’ufficio.
C’era l’esigenza di uno spazio autonomo, in cui guardare i film che desideravo senza che nessuno sbuffasse perché preferiva non perdere l’ennesima puntata di Capri.
C’era la voglia di poter ascoltare i Metallica ad alto volume senza necessariamente dover spiegare al mondo esterno ed attempato che non si trattava di rumore, bensì di strumentisti tecnicamente piuttosto dotati.
C’era questo desiderio di un letto ad una piazza e mezza, dove poter ospitare le mie conquiste di una notte o quelle con data di scadenza più a lungo termine.
Erano bisogni condivisibili, credo.
Era un prospettiva, un punto di vista da cui la mia vita futura sembrava poter prendere una piega interessante.
Poi ci sono dei lati negativi, inutile negarlo. Ad esempio, poiché mi secca andare al panificio per acquistare un solo panino, il sabato ne compro sei, ne mangio uno e gli altri cinque li congelo per i giorni feriali a venire, domenica con pranzo dalla mamma esclusa. Risultato: durante la settimana devo accontentarmi del fatidico panino scongelato al microonde. Ha la crosta dura e l’interno umidiccio e gommoso. Se per disgrazia, poi, non dovessi finirlo entro mezz’ora dallo scongelamento, diventa un unico blocco di granito, assolutamente inutilizzabile.
Ahimè, l’alimentazione poco salutare – troppo spesso a base di pasti preconfezionati o di toast e simili – ha portato con sé un altro lato negativo: ho messo su circa cinque chili. Questo particolare, se unito all’inarrestabile ed impietosa perdita di capelli che mi sta tormentando da circa un anno, ha reso il mio aspetto fisico decisamente meno attraente rispetto a quello che avevo nell’età d’oro fra i venti e i trenta. Di conseguenza – beh – il letto Ikea ad una piazza e mezza, per il momento, l’ho usato sempre da solo.
Ma la foto che m’identifica su Facebook non l’ho ancora aggiornata: è rimasta quella di tre estati fa. Nessuno potrà accusarmi di aver barato, di essermi costruito un’identità virtuale non veritiera. In fondo, quel tizio che campeggia al di sotto del mio nome e cognome nella pagina del mio profilo ero proprio io, pur se qualche anno, qualche chilo e qualche stempiatura addietro.
Devo fare qualcosa, tuttavia. Devo iscrivermi in palestra, ad esempio.
Formulo questo pensiero con lucidità, consapevole come sono di dover dare una direzione più definita la mio futuro prossimo.
Lo formulo insieme a tanti altri – certamente più pressanti – sulla via del ritorno dall’ufficio, nel giorno in cui è scaduto il mio contratto a termine che non è stato rinnovato.
Di conseguenza, prima di iscrivermi in palestra, dovrò trovare di che pagarmi l’affitto, le bollette ed i panini da congelare e scongelare.
Ecco il risultato della precarizzazione spinta del lavoro, dei rapporti, degli umori e delle esigenze: oggi, per la prima volta, avverto con chiarezza cristallina che la vita tanto a lungo bistrattata dei miei genitori – impiego stabile e ripetitivo, famiglia solida, nessun tradimento, nessun colpo di testa – l’oggetto incontrastato del mio impeto di ribellione adolescenziale, alla fine, si è rivelata meno peggio del piccolo universo d’indipendenza malfermo che mi sono ritagliato.
Eppure, mi ripeto, ci dev’essere una terza via, una che non sia semplicemente meno peggiore.
In quale bivio ho imboccato la strada sbagliata?