Parag. 33 (dal romanzo "La stazione di Avventura")

Una domenica mattina di fine agosto le campane ci avevano svegliate presto. Ormai in piedi e affamate, decidemmo di approvvigionarci di focaccia unta, mozzarelle umide, mortadella con pistacchio, latte fresco e altri beni non commestibili. Appena giunte in centro, con gli occhiali scuri come due mafiose, ci imbattemmo casualmente nella piccola comunità di fedeli appena usciti dalla funzione religiosa.
Sagrato gremito, gente malvestita ma stirata e truccata. Freschi di doccia, profumati di poco e da poco, quasi tutti ben nutriti. Sui capi d’abbigliamento brillavano tutti i colori dell’iride variamente assortiti, e i loro proprietari erano sorridenti, puliti, in pace col mondo perché ignari di quello che il mondo nascondeva, soprattutto a loro.
Noi, a dirla tutta, non eravamo nella nostra giornata migliore. Elle mi aveva rimproverato di non aver tenuto d’occhio il frigorifero, io avevo replicato che pane e sigarette non stanno al freddo, fine della discussione. Eravamo uscite frettolosamente senza più parlarci, come una coppia al primo screzio coniugale. Io ero in ipoglicemia, lei cercava prima di tutto nicotina, e si era diretta senza indugi verso il solito bar che vendeva sigarette.
Quando vide quegli individui dai vestiti arcobaleno cambiò direzione, puntando dritta verso quello svolazzare di foulards. Pensai avesse cambiato idea e individuato l’unico panettiere aperto la domenica, o il lattaio. Giunta in quei paraggi, si arrestò di colpo e si allacciò al mio braccio per parlarmi all’orecchio, indicando quel gregge:
“Guardali,” mi bisbigliò, “sono tutti uguali. Non sanno quello che fanno, eppure sono felici. Si sentono in pace come se fossero stati curati, in quell’edificio così freddo, da chissà quale malattia. Ora sono guariti, sani. Quale storia gli avranno raccontato oggi per renderli così giulivi? È la felicità, il vero mistero. Forse non hanno un solo vero motivo per essere felici. Tu ne hai qualcuno?”.
Anch’io al suo orecchio:
“No, però se non penso alle mie disgrazie sto meglio”.
“Ecco, è proprio così. Tu segui i principi della meditazione tibetana senza saperlo”.
“No, non la conosco la tibetana”.
“Non mi riferisco alla felicità di un attimo, ma a quella duratura, quella dei bonzi. Quelli che non hanno nulla e sono appagati in modo assoluto. Ogni volta che ci penso, mi dico: fai come loro, fatti scivolare addosso le frustrazioni, non pensare che sei provvisoria sopra questa crosta e che sarai definitiva sotto. Qualche volta mi riesce, la maggior parte delle volte no. La felicità presuppone che tu debba dimenticare, e io ho molto da scordare; potrei anche farcela, è tanto che ci provo”.
Non mi risultava che avesse così tanto da cancellare, ma sicuramente si era già scordata che non avevamo quasi niente da mangiare.

Lì per lì non prestai la dovuta attenzione al messaggio, ma le sue parole erano colorate di sfida. Non sospettavo minimamente del progetto perverso che aveva elaborato. Mi restituì il braccio e salì con un balzo sul muretto laterale della chiesa, aprì il bottone della maglietta per liberare il collo, si schiarì la gola e iniziò un monologo a voce alta, guardando il cielo, davanti a una piccola folla prima incuriosita, poi divertita e, infine, sbigottita:
“Angelo di Dio, Agnello di Dio, Figlio di Dio che sei uno e trino, incarnato e poi risorto: illuminami, guidami, consolami. Tu che sei verità infallibile, gioia eterna e bene immenso, fai che il mio seme germogli. La tua infinita bontà ci preservi dalle tentazioni e ci protegga dalla lussuria. Dona ai noi peccatori la salvezza e allontana da noi il tuo sdegno. Se verrà l’inverno della fede ci scalderai col calore della tua parola. Vieni in nostro soccorso col salvagente della tua gloria. Non vi sarà dolore camminando con le ginocchia sui grani della speranza! Non vi sarà fame mangiando il pane cotto al forno della tua grazia! Non vi sarà stordimento bevendo il vino della tua vigna! Altissimo e Onnipotente, sotto le tue ali non ci colpirà il castigo e la sventura delle tenebre. Dacci oggi l’indirizzo della tua dimora. Che io possa essere guidato ascoltando il tuo Verbo. Apriamo la nostra casa a Cristo che aprirà la sua a noi. In verità vi dico: sempre sia lodato e amen”.
Dopo un breve attimo di indecisione, Elle fece l’inequivocabile segno della benedizione guardando il sole in piena euforia mistica, e scattò un applauso, tiepido, ma spontaneo. Un lieve inchino e balzò giù da quella specie di palco con aria soddisfatta, e con quel sorriso che sfoderava quando sapeva di essere riuscita a prendere in giro qualcuno facendola franca. Le sue prime parole al mio orecchio dopo il comizio furono:
“Spero di non aver ripetuto una stessa parola due volte”.
“Mi sembra di no” le risposi senza alcuna certezza.

Si fece largo un sacerdote, alto e serio, che le si avvicinò da dietro e la invitò a farsi da parte, insieme a lui. Lo vidi parlarle a distanza ravvicinata, senza mai sorridere, mentre Elle non sembrava per nulla intimorita, nonostante un robusto dito indice le roteasse davanti alla faccia.
Tornò da me col solito sorrisetto beffardo.
“Ti ha sgridata? Cosa ti ha detto?”
“Niente, voleva sapere come stavo, è tanto che non mi vede in parrocchia”.
“Non è vero, te ne ha dette quattro. Comunque, tu sei da internare. La tua preghiera era tutta inventata”.
“No, solo alla fine mi è mancata un po’ la memoria e sono andata a braccio”.
“Il salvagente della tua gloria? Il forno della tua grazia? Ma cosa dici?”.
“Quelle sono licenze poetiche, ma i concetti fondamentali li ho rispettati”.
“Allora avresti dovuto dire: non vi sarà pericolo nuotando nell’oceano della tua misericordia, perché verrai in nostro soccorso col salvagente della tua gloria”.
“Potevo dire anche così. Comunque, per un’omelia è sufficiente mescolare le giuste parole‐chiave, sempre le stesse da secoli. Ma bisogna conoscerle”.
“Prova a dirmele, non si sa mai che mi innamori di un sacerdote...”.
“Si va dalla fisica quantistica, con spazio, terra, luce e eternità alle virtù dell’uomo come bontà, grazia, passione, misericordia fino agli elementi della natura come seme, frutto, albero, vigna”.
“Tutto qua?”.
“Tutto qua”.
Quando iniziava a scavare un confine netto tra sé e la gente comune, alla quale sentivo di appartenere, mi sentivo un po’ a disagio. Quello era il suo lato che apprezzavo di meno. Le rivolsi un chiaro invito:
“Guidami ora nella speranza di trovare il latte della tua gloria e il caffè della mia grazia”.
Si fece improvvisamente seria e prese a camminare veloce come per allontanarsi in fretta. Avevo solo scherzato, nulla in confronto a quello che aveva fatto lei poco prima.
Provai a recuperarla con una battuta modesta:
“Non è che per caso sei figlia di un prete e una suora? Per come ti esprimi…”.
Elle non mi rispose e non parlò più, per almeno due ore. Per lei quel gioco era concluso. Una chiesa, un matrimonio, un sacerdote: la chiave di quella improvvisa introversione stava all’interno di quel triangolo.
Comprammo, anzi comprò, latte, formaggio, focaccia, caffè e due stecche di sigarette che aprì strada facendo. Tornammo a casa, in rispettoso silenzio, a fare colazione. La locandina di un’edicola ci informò che il Papa era morto. A tavola disse solo:
“I matrimoni sono simili ai funerali: la chiesa, il sacerdote, i fiori, la gente che piange, un’auto grande e tutta lucida”.
Poi non ne parlammo più.