Per Sempre

Gli ultimi due decenni le si erano adagiati sul viso e sul corpo impietosamente, come se per un malefico artifizio del tempo si fossero duplicati, radicati com'erano al rancore. Distillare goccia dopo goccia l'amore per trasformarlo in odio profondo, produceva singolari effetti.
Amelia non aveva mollato un solo giorno quella sensazione di vendetta che le aveva corroso il cervello. L'unica curva della sua vita era stato lui: l'eccelso prof. D'Andrea, ai tempi in cui loro due erano semplicemente due studenti di Medicina. Stessa facoltà, stesso anno di nascita, stesso desiderio fisico esploso simultaneamente. Non era particolarmente bella Amelia, neppure allora quando dalla sua aveva la baldanza della giovinezza e una discreta femminilità.
Si, perché non è detto siano solo le "bellone" a possederla.
Anche se non vantava nessun titolo nobiliare, portava in sé dei tratti aristocratici, una figura esile ed elegante e pure gli occhi avevano un loro fascino particolare: azzurri come il cielo dell'Antartide con qualche bagliore di ghiaccio che fuoriusciva quando si adombrava. Eppure Ezio D'Andrea era riuscito a sciogliere quell'algida ragazza che collezionava trenta e lode e parlava pochissimo.
Nella penombra del piccolo appartamento preso in affitto con altri studenti, erano diventati amanti: lunghi fine settimana in cui la casa restava solo per loro due.
‐ Per sempre ‐ è un classico del proggetto a due. ‐ Ti amerò tutta la vita ‐ un altro slogan coniato in tutte le lingue nella totale buona fede. Poi, si sa, possono accadere molte cose e molte altre possono cambiare le situazioni e i sentimenti delle persone stesse. Accadde anche a loro alla fine degli studi ed Ezio con la sua freschissima laurea se ne andò per la specializzazione negli Stati Uniti.
‐ Sei stata un amore speciale Amelia. Non ho nessuna intenzione di rinunciare a te, ma la professione ora viene prima di me stesso, di te, di noi. Tornerò e allora riuscirò a vedere il futuro concretamente.
Poi gli anni trascorsero e alla fine, si persero proprio nello scorrere del tempo. Ossia, lui perse la voglia di passare il resto della propria esistenza con lei. Amelia venne a sapere che agli inizi degli anni novanta era rientrato in Italia e attraverso accurate ricerche, l'aveva controllato giorno dopo giorno, mese dopo mese anno dopo anno attraverso i data base degli archivi ospedalieri e l'Ordine dei Medici Nazionale.
Lei, la giovane studentessa d'un tempo, della laurea ne aveva fatto poco o nulla di più. Attorcigliata in quella storia d'amore che andava via via perdendo di consistenza, fece fruttare il suo bel pezzo di carta per un concorso dell'amministrazione ospedaliera. E lì vi rimase nel ventennio seguente, adempiendo coscienziosamente all'incarico, rispettando gli orari. Mai un appunto da fare a quella dottoressa segaligna, se non l'antipatia che del resto non andava ad interferire con il suo rendimento.
E quando il "suo" Ezio, ormai odiato e detestato fino allo sfinimento, divenne Primario di Oncologia all'Ospedale di Brescia, si assestò sulla propria sedia e su tutte le informazioni possibili sulla vita private del prof. D'Andrea. Diede corpo alle proprie ombre malate e lasciò che quel sentimento ormai umputridito dal livore, divenisse la sua ossessione. (Sposato, guarda un pò quanto mi amava il bell'Ezio. Pure un figlio. C'è da farmi venire i capelli ricci se penso agli anni che ho buttato in discarica per lui.
E già, la signora D'Andrea è giovane. Già, la bella consorte del professore. Chissà quanto gli è cara la mogliettina e il pargolo)
Le si accavallavano così i pensieri: di giorno mentre lavorava, di sera prima di dormire, di mattina appena sveglia. Sola, senza un minimo di orizzonte da delinare oltre quella ragnatela di astio. Il deserto nel cuore e la rabbia nell'anima, varcò il crinale sottile della bastevolezza d'un sentimento abbietto quale l'odio. Superò la linea immaginaria che esiste tra la fantasia e la realtà.
Quel mattino di fine novembre del 2005 uscì di casa prestissimo con una decisione ben precisa in tasca. Tutto si poteva dire, ma non che l'Amelia non fosse una donna più che concreta. Pragmatica. Le piaceva essere definita così nel suo entòurage di lavoro.
Prese al volo il primo treno regionale per Brescia. Un'ora e ci sarebbe arrivata.
Si fece accompagnare da un taxi ai piedi della zona pedonale.
Arrivò con passo tranquillo al palazzetto liberty al n° 76 di via E. Filiberto.
Ora l'avrebbe incontrato quel figlio di puttana. (Aspetta sulla sponda del fiume il corpo del tuo nemico passare. Eccome se non l'ho aspettato) Ore 7.30 del 26 novembre del 2005
Passa la mano sulla targa d'ottone dorata. "Dott. Prof. E. D'Andrea" (Cazzo se ti ho amato Ezio. Ti sei preso la mia vita. Ti sei portato via tutto)
Preme senza esitazione il campanello e come per magia un secondo dopo si apre il portoncino d'ingresso per un banale equivoco di chi vi abita ed è convinto sia Elvia in anticipo, la donna di servizio che tutte le mattine arriva alle 8.
I sei gradini di marmo bianchi rivestiti con la corsia di velluto blu, Amelia li fa come stesse camminando sulla sabbia d'una spiaggia tropicale. Uguale sensazione di beatitudine che ti assale durante una passeggiata lungo la rena di una mare esotico, dopo che hai fantasticato quella vacanza per anni e anni.
La porta d’ingresso è socchiusa. La scosta di poco e guarda all’interno prima di oltrepassare la soglia e accostarla senza far rumore poggiandosi di spalle con il peso del corpo.
La moglie del porco insegna. Ha già calcolato tutto Amelia e secondo i suoi conti è già uscita per portare il figlio all'asilo.
‐ Elvia sono a casa. Giacomo ha la febbre ‐
La voce femminile la raggiunge assieme ai passi ovattati della giovane donna che le si para davanti all’improvviso quand’è ancora al centro dell’ingresso. Lo stupore è negli occhi di entrambe. Amelia mette in fila nervosamente il disappunto, la delusione di non trovarsi di fronte il “porco”, il fastidio che le procurano i lineamenti bellissimi di quella.
I secondi, una manciata di secondi, simili a quelli che scorrono nella mente dei passaggeri di un aereo che sta precipitando e la paura risucchia il cervello e si svuota e si riempie di domande nella testa che annegano nell’adrenalina.
Dalla tasca del cappotto Amelia estrae la mano e si sposta di un millimetro in avanti, verso la sconosciuta.
Frazione di istanti. Il tempo di soffocare un urlo.
‐ Cosa vuole… ‐ e l’urlo si smorza prima di aver compiuto la parabola completa dello strillo.
La mano di Amelia affonda il bisturi sullo stomaco: un colpo basso che inginocchia l’altra che porta d’istinto entrambe le mani sulla ferita. Guarda il sangue che esce copioso, le pupille sbarrate, tenta di trascinarsi verso la porta del salotto e Amelia le è nuovamente sopra e allora non c’è più niente da dire né da pensare. Colpisce ovunque Amelia, e a ogni colpo di quel micidiale fendente, si spegne il rantolo fermo tra la gola e la bocca della disgraziata.
Bello questo silenzio che le sopisce un po’ l'odio.
L’altra è a terra in una pozza di sangue. Le labbra dischiuse in una muta richiesta di pietà che nessuno ha udito. Percorre in tutta la sua lunghezza l’entrata. L’anticamera si apre sotto un arco murale e il silenzio è ancora più denso in quella parte della casa.
(Caspita che reggia s’è fatto lo stronzo) pensa Amelia e spalanca via via le porte che trova.
Sono passati sì e no sei minuti da quando è entrata.
(Giacomo ha la febbre, ha detto quella. Dov’è il pargolo?)
Eccolo. E’ nel lettone matrimoniale di velluto, pomposamente bordato da una cornice dorata.
‐ Ehi. Sei piccolo… ‐ Lo guarda e gli cerca una somiglianza a questo bambino che non raggiunge forse i tre anni. Ha le guance arrossate e si tiene le mani a pugnetto vicino alla bocca, la guarda e le sopraciglia si inarcano, le labbra si congiungono tra loro a cuore e tremano. Gli occhi del bambino si vanno riempiendo di lacrime e in un nano secondo esplodono in un pianto disperato. ‐ No. No. No. Tss. Tss‐ (ha la stessa conformazione cranica del padre. Stessa attaccatura dei capelli)
‐ Tsss. Tsss. Buono. Dormi bello ‐ Non può infierire su quell’essere così piccolo anche se somiglia in maniera esagerata al “porco”.
Dopotutto c’è una etica criminale. (Ecco, sei servito prof.D’Andrea) pensa uscendo in strada tirandosi il portone d’ingresso alle spalle.
(Abbiamo quasi aggiustato i conti). Due ore dopo, viene scoperto il cadavere della moglie del prof. D’Andrea e del figlio Giacomo di tre anni. Amelia viene arrestata prima che possa portare a termine il suo malato progetto. Ancora una volta il destino decide della vita di Ezio D'Andrea e sposta le loro strade per la tragica fatalità. Se solo la polizia avesse tardato ad avvertirlo anche di un solo quarto d'ora, se la sarebbe trovata accanto all'auto nel parcheggio sotterraneo dell'Ospedale. Ma in effetti non si può dire che questa sia da definirsi una fortuna. Chiunque si sarebbe augurato di morire all'istante nel vedere la propria moglie massacrata e il figlio in una simile condizione. Una sola ferita mortale inferta con precisione chirurgica sulla gola del bambino.