Quando una stella muore

Vito preferì restare nella sua stanza a consumare la cena curvo sulla scrivania, senza perdere il filo della concentrazione.
L’avvocato Alfio Ruletta, benché di norma contrario a elargire tali permessi ai suoi figli, quella sera non avanzò obiezioni, e occupò la sedia a capotavola, scandendo sottovoce in complimentosa marca palermitana;
“Bene, bene.”
La signora Ruletta divise le porzioni di girello e patate al forno, tra lei, suo marito, e la figlia minore, Carmela, che in casa ( e presumibilmente anche fuori) chiedeva di essere chiamata più rispettosamente, secondo lei, Carmen.
“Carmela, a tavola!” sussultò il padre dal suo posto di comando.
“Non la chiamare così Alfio, che poi si mette a discutere e non la finisce più.”
“Ma insomma è o non è il suo nome?  ‘Sta picciuttedda, proprio, si fissa nelle cose; e pure tu che le dai corda!”
Carmela, quattordici anni, un visino visibilmente roso dall’acne giovanile, entrò salutando con diffidenza i genitori e si mise a mangiare, premurandosi di tenere lo sguardo quanto più possibile basso sul cibo.
“Sai, Carmela, scusami, Carmen” cominciò a stuzzicarla il padre, col suo risolino da ipocrita navigato“ io e la mamma abbiamo pensato di cambiare i nostri nomi.
Io non mi chiamerò più Alfio,ma Antonio; tua madre non sarà più Francesca, ma Cleopatra. Antonio e Cleopatra: belli, no?
“Finiscila ora Alfio, e pensiamo alle cose importanti” tuonò la signora Ruletta, masticando frettolosamente un boccone.
“Ecco,bravi, finitela” soggiunse Carmela, in evidente stato d’indisponenza.
“Che ti ha detto Fogliardi?” domandò la signora Ruletta al marito.
“Mi ha detto che tutti concordano con lui, nel descriverlo come un giovanotto intelligente, serio, disciplinato, e che sicuramente farà tanta strada. A quanto pare è entrato nelle grazie del professor Rapisarda, quello di diritto romano. Lo sai che ha chiesto a nostro figlio di assisterlo personalmente nello sviluppo delle tesi dei suoi laureandi?”
“Si, vabbene; ma allora Fogliardi glielo da il trenta?”
“Mi ha lasciato intendere che farà il possibile.”
“Ah, lo vedi, non è più sicuro” sbottò la moglie, dando con le posate una sonora scossa al piatto di porcellana.
“Che cosa mi doveva dire per telefono, Franca? Manco tu mi sembri” andava scaldandosi Alfio, “sai bene quello che c’è  per ora in procura, e non è che uno può parlare di queste cose così, ai quattro venti. “
“Ho capito ma non è la fine del mondo, se fai una telefonata…”
“Zitti,zitti, un altro omicidio” li interruppe Carmela, alzatasi ad aumentare il volume della televisione.
“Non si ferma la spirale di sangue nel palermitano. Stamane,a Trappeto, comune distante quaranta chilometri dal capoluogo siciliano, sono stati rinvenuti i cadaveri di Giuseppe Micé e Rosario Cannata, affiliati alla cosca degli Inzerillo, e già da tempo nella lista dei condannati dei boss corleonesi. I corpi sono stati ritrovati sulla spiaggia del litorale da un pescatore del luogo, rimasto sottochoc dall’efferatezza dell’esecuzione. Micè e Cannata avevano il cranio spaccato in più parti, e fori di proiettile nella cavità faringea.
Gli inquirenti parlano a questo punto  di  caccia aperta, e fanno il nome di Giuseppe Insigniti, già prestanome della famiglia Inzerillo, come prossimo obiettivo dei clan corleonesi…”
“Carmela, abbassa quel coso” sbuffò esagitato l’avvocato Ruletta.
La moglie gli rincarò appresso: “Si, tesoro, stiamo cenando, spegni.”
“Carmen, papà; io sono Carmen, quante volte te lo devo ripetere!”
“Si, vabbè, la stupida che sei” così dicendo l’avvocato si levò da tavola, e con piglio deciso spense la TV.
C’era un attributo che Vito non tollerava gli venisse affibbiato: stupido. Potevano dargli dello stralunato, dell’asociale, del presuntuoso, sferrargli persino del delinquente.  Li faceva passare tutti questi “apprezzamenti”, spesso con una risata provocatoria all’indirizzo dell’accusatore.
Ma stupido, fosse venuto a dirglielo Gesù Cristo in croce, a quell’offesa non avrebbe porto l’altra guancia.
Avrebbe cominciato a irritarsi, uncinando prese di posizione sul fatto che i veri stupidi sono altri. E avrebbe detto e stradetto sul conto dei suoi concittadini.
Da quei clienti che “non si accorgono” che il salumiere ha appena agevolato un tipo sospetto, risparmiandogli la penosa ressa al bancone, sì da  introdurlo più comodamente sul retro, da cui il favorito ne esce colmo di primizie quanto un’oca farcita.
A quelli che, confinati come apostati  sul tavolinetto del bar, parlottano dell’ultimo omicidio di mafia, come se disquisissero di calcio o varietà;
“L’ammazzaru.”
“Ah, si?”
“E s’avia a maritari Duminica.”
“Mah…chi dici, t’ù pigghi un cafè?”
“Sì, offro io però.”
“Se io sono stupido”, rifletteva Vito “allora gli altri sguazzano in un mare d’imbecillità.”
Mentre lavorava sul motto finale del volantino, sentì qualcuno agganciare la maniglia esterna della porta.
“E’ permesso?” domandò la signora Ruletta, con voce ammansita di spia reietta.
Vito ebbe giusto il tempo di nascondere il volantino in mezzo a un bloc‐notes e di riprendere in mano il corposo armamentario giuridico.
“Per il principio di colpevolezza,un fatto può avere attribuzione penale solo se vi sono i presupposti per ritenerlo oggettivamente imputabile al suo agente…” intonò con registro artificioso.
Si ritrovò lo sguardo della madre addosso.
“Tutto bene?”
“Si, mamma. Volevi qualcosa?”
“Studia, bravo, ma non ti stressare” si complimentò Francesca con una pacca compiacente sulla sua spalla, “papà ti manda questi.”
Vito si pentì amaramente di non essersi chiuso a chiave.
Lo fece qualche attimo dopo, mescolando in sé una miscela di disgusto e irritazione.
Prese la banconota di cinquantamila lire e l’accese con un fiammifero; la poggiò sul posacenere e ne ammirò l’inevitabile consumarsi.
“LA GIUSTIZIA NON BRUCERA’ A FUOCO LENTO”, sentì d’un tratto ispirarsi.
Mise sul mangianastri una musicassetta dei Queen, e graduò  il volume cosicché i suoi di là non ascoltassero.
Poi, distesosi sul letto, telefonò a Corrado, il quale sembrò rispondergli con piglio suscettibile.
“Vito, dimmi.”
“Ohi Corrà, per i volantini tutto fatto. Tu hai riempito le taniche?
Corrado accennò un respiro sommesso.
“Ohi, allora?”
“Vito, io sto pensando a studiare. Ho sentito Furio e Anna Rita,  e pure loro erano con i libri in mano. Noi tre lasciamo stare sta stronzata; dovresti farlo anche tu.”
“Compà, ma che cazzo dici? Vi siete bevuti il cervello, tu e gli altri finocchi dell’ Armata?” inveì Vito con occhi furenti, afferrando da una tasca dei blue‐jeans  un foglietto giallastro e spiegazzato “ brutto stronzo, leggi il quarto punto del regolamento : ogni atto intimidatorio deve avvenire col favore del buio, e avvalersi della collaborazione di ciascun membro del gruppo! Ciascun membro, hai capito!”e quasi non svenne dalla troppa ira.
“Ma parli proprio tu?” tuonò altrettanto aspramente Corrado, “Già, lui, il figlio dell’avvocato Ruletta, il ricettatore che ruba ai ricchi per dare ai mafiosi.”
“Guarda Corrado, che se avessi anche solo una prova sul conto di mio padre”, aggiunse Vito sforzandosi di essere lucido “io…”
“Tu, che faresti tu?”
“Io… lo ucciderei.”
“Sì, vabbè. Intanto vai a farti raccomandare per l’esame. “
“Basta! Non puoi dire certe cose! Perché l’avrei fondata l’Armata della Giustizia, se no? Pronto?”
Corrado aveva riagganciato. Erano appena trascorse le nove.
Fin da bambina, la segreta passione di Carmela era stata l’astronomia.
Ancora oggi, quando di giorno capitava che una compagna di scuola la trattasse in malo modo e lei si rintanasse a piangere nei bagni, la faceva stare meglio pensare che un corpo lucente di lì a poco sarebbe sceso a infonderle più coraggio, a scapito della sua proverbiale paura.
Carmela rientrò in camera dopo aver cenato, e dall’angolo dietro la porta trasse la fodera argentea con il telescopio che, suo zio, astronomo tra i più rispettati d’Europa, gli aveva regalato il giorno del suo dodicesimo compleanno.
Aprì le imposte e si affacciò come ogni sera al terrazzino.
Soffermò per pochi istanti l’attenzione sul cielo diafano di quella sera.
Puntò poi il tubo ottico verso l’orsa maggiore e si pose a focalizzare l’immagine.
Poco dopo lanciò un enfatico grido:
“Una stella è esplosa nel cielo!”
Vito si guardò attorno con aria insensata e, ubbidendo a un moto di rivalsa, aprì l’uscio della camera e si slanciò di corsa verso l’ingresso.
“Vito, dove vai?”, chiese discretamente la madre  dal soggiorno.
“Le chiavi, le chiavi”, confabulò Vito, “le chiavi della vespa!”
“Le hai lasciate sul ripiano della cucina. Ma ti senti bene?”
“Si, certo… anzi no, non sto bene. Mi faccio schifo,mi fate schifo!”
Vito afferrò le chiavi dalla cucina e scomparve dietro la porta dell’ascensore.
Francesca Rutella, rimasta di schianto di fronte a un acredine cui mai il figlio l’aveva sottoposta, si mosse trafelata verso lo studio del marito, impegnato in una conversazione per cui aveva espressamente richiesto il massimo della privacy.
Attese dietro la porta che egli ultimasse la telefonata.
“Va bene, non appena avrò la conferma, vi manderò il segnale.”
“A dopo avvocato.”
“Sì, a dopo.”
Gli erano passati proprio di fronte. Avevano ancora i kalashnikov tra le mani.
Vito ebbe addirittura l’impressione che l’uomo sulla motocicletta volesse sparare pure a lui.
Ma quello forse, vedendolo che restava a quel modo pietrificato sulla sella della vespa, doveva aver stabilito che non occorreva.
Vito attraversò quel pezzo della via Isidoro Carini a passo di redenzione.
Da un indicibile senso di freddo alle ossa, comprese che dietro le maschere di sangue stavano il generale Dalla Chiesa e sua moglie.
Restò a fissare la scena per qualche secondo, con il volto trasfigurato.
Risalì velocemente a casa,  fece a pezzi una scatola di cartone, e su una facciata vi scrisse:
“QUI E’ MORTA LA SPERANZA DEI SICILIANI ONESTI.”
La fissò nel muro di fronte, dove ribollivano ancora i corpi degli assassinati.
Vito montò sul vespino e non diede più tracce di sé.
Nessuno  attraversava ancora la via, né c’era gente esposta ai balconi delle case.
Solo Carmela era affacciata al terrazzino e  col telescopio indagava vanamente il cielo.
Come se, in quel momento, tutte le stelle fossero morte.