Racconto grottesco

Ore 12,00. Istituto di Medicina Legale di Bologna, Obitorio, Sala nr. 3.
Sono morto!
Il mio cadavere giace su un tavolo di acciaio dell’obitorio  coperto da un  lenzuolo bianco.
Eppure io lo vedo, anzi, mi vedo.
Non so come ci sono arrivato né perché ci sono ma il mio cadavere è lì ed io sono accanto a lui, in piedi, e mi chiedo come diamine sia possibile questa cosa.
Sotto il lenzuolo il mio corpo è senza vita ed io sono accanto a lui, questa la devo raccontare agli amici!
Ma quali amici?! Se son morto vuol dire che non ho più amici e che, soprattutto, non posso raccontare niente.
La situazione è grottesca. Forse è soltanto un sogno, un incubo dal quale mi risveglierò a momenti, sudato e sfinito ma sollevato.
No, non credo sia così, sembra spaventosamente troppo reale.
Cerco di ricordare almeno come ci sono finito su quel tavolo e brandelli di memoria si affollano caoticamente nella mia testa.
<<Non darti pena, pian piano ricorderai, anche se non ti servirà a niente.>>
La voce alle mie spalle giunge improvvisa e lugubre, sembra provenire da un altro mondo.
Mi volto e al mio fianco c’è un vecchietto con un bastone che mi sorride.
I capelli e la barba di un bianco candido fanno il paio con le folte sopracciglia sotto le quali affogano due occhi opachi che un tempo dovevano essere azzurri.
Indossa un abito  di un grigio spento che sembra avere la sua stessa età ed è scalzo.
Con le mani sovrapposte una sull’altra e poggiate sul bastone osserva il lenzuolo sotto cui c’è il mio cadavere.
<< Certo che ti hanno sforacchiato ben bene, eh?! >> aggiunge con un risolino che non tenta neppure di nascondere.
<< E tu cosa ne sai?>> gli rispondo senza pensarci sopra due volte, stizzito da quel risolino che sembra essergli rimasto tra i canini.
<<Oh, nulla, cosa vuoi che ne sappia, come te ne arrivano a decine qui>>.
<<Davvero?>> faccio io e mentre glielo chiedo quasi mi sorprendo per l’ingenuità della domanda. Dopotutto siamo in un obitorio e quindi è normale che vi arrivino le salme di persone morte per le cause più disparate.
<<Davvero>> mi risponde e se ha notato la mia faccia da ingenuo non lo dà a vedere.
<< Oggi sei il terzo e siamo soltanto a mezzogiorno>>  aggiunge << Prima di stasera ne arriveranno ancora altri, vedrai>>
La situazione è sempre più assurda: due uomini, due perfetti sconosciuti, in una sala di obitorio discorrono candidamente davanti al cadavere di uno dei due.
<<E tu cosa ci fai qui?>> chiedo al vecchio quasi a protrarre quella folle conversazione.
<< Oh, nulla, io sono sempre stato qui, sono il custode>> mi risponde il vecchio con un tono di accondiscendenza che mi irrita.
<< In realtà io ero il custode>> prosegue senza aspettare una mia replica.
<< Anni fa’, ero io che aprivo e chiudevo questo obitorio, che pulivo i cadaveri, le celle frigorifere, i pavimenti, insomma, ero il tuttofare>>
<< Anni fa’, quanti anni fa’?>> domando incuriosito.
<< Beh, fammi pensare, sono trascorsi molti anni da allora ed ero già vecchio quando sono morto; la mia mente era già all’epoca, come dire, un  po’ malandata, sai com’è l’alzheimer, gli acciacchi, la solitudine. Ad occhio e croce, saranno circa cento o centocinquanta anni fa.>>
<< Cosa?!>> faccio io spalancando un paio di occhi che se fossi vivo mi salterebbero i bulbi oculari dalle orbite.
<< Vuoi dire che tu, insomma, sei morto?>> riprendo quasi balbettando e la mia espressione da idiota si fa ancora più marcata.
<< Certo che sono morto>> risponde il vecchio << Morto e sepolto, anzi, se proprio vuoi saperlo sto  in quella cripta in fondo al viale, là tra quelle più vecchie e in rovina>>.
Sono senza parole, inebetito rimango a bocca aperta e sulle labbra del vecchio ricompare quel sorrisetto canzonatorio da iena.
<< Se non fossimo entrambi morti, credi che potremmo parlare così tra noi? Nessuno ci vede o ci sente ma tra noi è come se fossimo vivi o quasi>>
<< Allora, io sono morto!>>  bisso.
<< Certo che sei morto, non ti vedi?>> ed indica il cadavere coperto dal lenzuolo.
Sto ancora cercando di capire le parole insensate del vecchio che improvvisamente la porta si spalanca ed entra una donna in camice bianco.
In una mano ha una valigetta di plastica marrone e nell’altra una bacinella metallica: arrancando come se portasse un peso enorme,  si avvicina al tavolo di marmo e le posa con un fare impacciato, sbuffando come una vaporiera ingolfata.
Avrà circa quarant’anni ma ne dimostra almeno cinquanta con i suoi capelli rosso flambé, unti e lerci come il pelo di un topo appena uscito da un bidone dell’immondizia.
Si gira, inforca un paio di occhiali con lenti spesse come il fondo di una bottiglia, e dando una pacca sul petto del cadavere, dice: “Sta buono bello che tra un po’ ci rivediamo per l’autopsia” e se ne va uscendo ancora più goffamente di quando era entrata.
La stanza ritorna silenziosa ma la quiete dura poco.
<< Davvero non ricordi come sei morto?>>  mi fa il vecchio ma questa volta con un’aria bonaria, quasi compassionevole.
<<  No, l’ultima cosa che ricordo è che ero in compagnia di mia moglie e siamo usciti da un ristorante>> rispondo io.
<< Ti hanno ucciso e con parecchi colpi di pistola a quanto pare>> ribatte il vecchio, questa volta chiaramente dispiaciuto.
<< Quando sei uscito dal ristorante due malviventi hanno cercato di rapinarti, tu hai reagito e loro hanno sparato>> mi chiarisce vedendo che ancora cado dalle nuvole.
All’improvviso la mia mente si apre in un turbine di ricordi e la memoria sgorga, come da un rubinetto che si apre inaspettatamente frammenti di vita tornano a galla prepotenti, nel loro vivido colore , come fossero appena trascorsi, attimo dopo attimo, mi scorrono davanti in un flusso inarrestabile e doloroso.
Li rivedo tutti, deformati dagli occhi della mente ma pur sempre miei, i ricordi si susseguono senza sosta: la mia nascita, la dolce infanzia, l’adolescenza inquieta, i primi amori e le sofferenze, la morte dei miei genitori, Laura mia moglie e i miei figli, sino a quella tragica sera.
I due balordi che mi puntano la pistola, io che cerco di afferrarla e il piombo delle pallottole che mi lacera il petto e lo stomaco.
Sento il dolore nella carne, l’odore della polvere da sparo e le grida di mia moglie!
La sofferenza è giunta inaspettata e mi uccide per la seconda volta.
<< Dio, che mi hanno fatto!>> urlo nel silenzio della stanza ma non si ode nulla.
<< E che c’entra Dio? Sono stati quei due balordi, mica Dio>>  esclama il vecchio, quasi risentito.
Piango e non ho la forza di rispondergli.
Soltanto ora mi rendo conto che non è un sogno; che quello che sto vivendo è la realtà, una realtà eterna che non cambierà mai: sono morto e non c’è più scampo.
Non so se così era scritto nel mio destino oppure se la considerazione di essere morto mi abbia liberato dai legami terreni. So soltanto che non voglio più stare qui, vicino al mio cadavere, in attesa che la megera torni per sezionarmi come un animale.
Un ultimo sguardo al mio corpo disteso, poi mi volto e noto la luce che arriva da dove prima c’era la parete.
Mi avvio, lentamente, a capo chino, sorpassando le lacrime che cadono ininterrotte sul pavimento di ceramica bianca.
<< Arrivederci>> sento dietro di me il vecchio che mi saluta.
<< Tu non vieni?>> gli chiedo.
<< No, il mio posto è qui, dove ho passato la mia intera vita. Io sono il custode e  l’amico  dei morti, colui che consiglia e aspetta la fine dei tempi. Quando essa arriverà anche il mio tempo su questa terra sarà finito e verrò anch’io. Allora ci rivedremo e faremo ancora quattro chiacchiere fra amici.>>.
Ancora un sorriso sulle labbra del vecchio, questa volta dolce, paterno, mi accompagna oltre la luce. Lo porterò con me: dall’altra parte ne avrò bisogno mentre aspetterò che arriviate anche voi.