Ranu e Fae

“Sei la mia grande disgrazia”, diceva sempre mia madre con quella rabbia paurosa che le faceva dilatare gli occhi a dismisura.
Avevo vissuto da troppo poco tempo per leggere quelle parole come odio viscerale.
Subito dopo, lei  si pentiva del tono, abbassava la voce, scrutava il mio tormento e rideva.
Ricordo ancora quella risata a cui mi aggrappavo per non morire di terrore.
Lei mi prendeva in braccio e mi cullava tenendomi sulle ginocchia.
“ Tu sei la mia brutta bambina ,tu sei la mia sporca bambina”;cantilenava piano come se non volesse ascoltare le sue stesse parole.
Ed io, l'abbracciavo in silenzio. Troppo piccola per piangere.
I miei capelli in quel periodo erano lunghi e neri; i boccoli scendevano morbidi sulle spalle;il mio viso era sempre impaurito; le mie mani non potevano fare altro che tremare.
Non c'era nessuna somiglianza tra il mio viso e quello di mia madre.
Non c'era nessuna somiglianza tra il mio viso e quello di mio padre.
Una volta camminai sulla strada bianca, ma non era una strada di campagna;sentivo il fango sulle scarpe e sentivo la polvere che si alzava da lontano e aspettavo la notte della luna grande, quella che vedevo apparire dietro il campanile della chiesa di Santa Vittoria: un disco enorme che copriva il silenzio del paese e che si abbatteva sulle case dalle facciate arancioni, azzurrine e anche color salmone. Tutte uguali.
Case basse costruite su una strada in salita; case alte a due pieni costruite sulla strada in discesa.
Quando avevo sei anni sapevo contare e leggere i numeri e non andavo ancora a scuola.
“ Perché le case non hanno numeri nonna? “ chiesi un giorno alla nonna.
“ Perché qui in paese a noi non servono i numeri; qui ci conosciamo tutti.
“ Vieni, adesso pettinami i capelli” , diceva prendendomi per mano.
La nonna aveva due trecce lunghe e sottili che avvolgeva sul capo creando un intreccio sulla fronte.
Toglieva le lunghe forcine che appuntavano e modellavano le ciocche intrecciate alla nuca;ogni giorno creava la stessa acconciatura e la testa prendeva l'aspetto di una scultura,
come quella che c'era nell'ambulatorio e che tutti chiamavano “la greca”.
“ Sei tanto piccola e già tanto brava, dolce” diceva porgendomi il pettine d'osso.
“ Raccontami una storia nonna” , chiedevo mentre il pettine incideva le ciocche dorate che cedevanodolcemente alla forza delle mie piccole dita.
“ Ti ho già raccontato la storia di Ranu e fae?”
“ Si nonna, ma raccontala ancora” rispondevo contenta.
“ C'era una volta una ragazzina che aveva circa la tua età e viveva in posto molto lontano da qui.
La sua famiglia era molto povera e alla sera tutti si riunivano intorno a un grande tavolo, le ciotole non erano mai piene e il pane veniva tagliato in dodici pezzi. “
“ Come gli apostoli nonna? “
“ si Dolce, come gli apostoli. Dodici pezzi, troppe divisioni e neppure una moltiplicazione.
Quella casa era stata abbandonata dal cielo e Cristo abitava molto lontano da quel posto isolato e deserto.
Loro sapevano fare solo le divisioni, figlia mia, ma a forza di dividere a un certo punto non restò più nulla, sai? “
“Si nonna, continua”
“Però fammi continuare” , dicemmo contemporaneamente.

“ Una sera, erano tutti intorno al tavolo spoglio, dodici bocche da sfamare che guardavano l'unico grano di fava
che apparecchiava la mensa. La ragazzina era molto magra e i suoi fratelli avevano spalle ossute di stenti.
I genitori avevano dimenticato il suono della loro voce. In silenzio la bambina si allungò sul grano di fava
– ti ho detto che aveva circa la tua età? Si si, all'incirca gli anni tuoi Dolce!”
“Si nonna, e dopo? Continua”, chiedo impaziente.
“In questo grano di fava” continuò la nonna” c'è la nostra ricchezza mamma. Io vado a cercare fortuna oltre il bosco e tornerò solo quando avrò ricavato oro da una fava.”
La nonna sapeva raccontare bene ed io mi lasciavo trascinare dalle storie.
Avevo sette anni quando abbandonai la casa di mia madre.
In casa nostra il cibo non mancava mai e il bosco era molto lontano ma la mattina della mia decisione passai a casa della nonna. Volevo salutarla e sapevo che mi sarebbe mancata moltissimo.
Aveva ancora i capelli raccolti sulla nuca e l'odore del caffè buono invadeva la casa.
“Posso darti un bacio nonna?” domandai salendo sulla sedia di paglia.
“ Vado a cercare il tesoro del grano di fava! ”
Nonna rise e mi abbracciò.
“Vai, vai a giocare Dolce e non stare via troppo a lungo.” Così presi un pezzo di pane vecchio dal tavolo, un biscotto e cinque chicchi di grano.
“ Se con un grano di fava una bambina ha trovato fortuna per tutti, a me andrà sicuramente meglio con cinque chicchi di grano” pensai, allontanandomi saltellando.