Risvegli

Come faceva ogni mattina, Stefano allargò le braccia per stirarsele. Da qualche tempo gli capitava di svegliarsi nelle posizioni più insolite: talora in posizione obliqua rispetto all’asse del letto, tal altra a sinistra della testata, mentre era quasi certo d’essersi addormentato a destra. Quel letto era, infatti, troppo grande per una sola persona: gli sembrava di poterci navigare.
Allargò le braccia come sempre. E le ritrasse immediatamente: il suo braccio sinistro era andato a cozzare contro qualcosa di morbido, e vagamente roseo. Anche se la cosa poteva sembrare assurda, si sarebbe detto un seno di donna.
Che fare?
Si girò sul lato destro e si disse che talora i sogni sono così generosi da lasciarci addosso le loro sensazioni, anche dopo essere evaporati.
La tentazione d’allungare di nuovo il braccio si fece fortissima.
Pian piano, tremando un poco per la sua stupidissima paura, senza girarsi, allungò lentamente il braccio alla sua sinistra, come una biscia in esplorazione. Dovette fermarsi dopo appena trenta centimetri, perché, di nuovo, la mano andò a collidere contro qualcosa di caldo, soffice e cedevole. Eppure questa volta era certo d’essere perfettamente sveglio.
Sì, avvertiva un leggero cerchio alla testa, ma niente di speciale.
Stefano era razionale: sapeva che in queste circostanze l’unica cosa da fare era girarsi a controllare di persona, perché non c’è dubbio che quello che stava toccando ora era un sedere, un sedere di donna. Nel suo letto.
Ed era anche riflessivo: si ripeté che da anni una donna non metteva piede nel suo letto.
Da quando la moglie l’aveva lasciato mandandolo poco gentilmente al diavolo per le sue elucubrazioni. Aveva detto proprio così. Boh. E certamente cinquant’anni non erano un’età in cui si possa supporre un attacco improvviso, fulminante di... di... come diavolo si chiama quella malattia che ti fa dimenticare progressivamente tutto? Perfino come ti chiami, e che finisci col non riconoscere neanche le persone che hanno resistito trent’anni al tuo fianco. Alzhaimer? Forse.
Escludendo dunque l’ipotesi d’Alzhaimer fulminante, restavano alcune teorie secondarie (ma perché non si decideva a girarsi, così la faceva finita?)
Ipotesi numero uno: non era altro che un cuscino. Lui notoriamente, soprattutto quando aveva mal di pancia, si girava e rigirava nel letto. Così, poteva essere accaduto che uno dei due cuscini con cui continuava a dormire (uno dei due ormai inutile cuscino) s’era messo di traverso, e veniva adesso scambiato per un corpo di donna, complice forse l’alcool della sera prima: un bicchierino di nocino regalatogli dalla sorella.
Ma insomma? Diamo i  numeri? Giriamoci e facciamola finita.
Era castana di capelli. Molto lunghi e sottilissimi: un castano granturco con strisce chiare al centro. Il volto non lo si vedeva perché era girata, ma il resto!
La sottoveste d’acrilico, sottilissima, rosa e trasparente, era l’unica cosa che la coprisse, dato che le lenzuola erano state scostate e l’unica cosa che avesse addosso era quella sottilissima, benedetta, sottoveste. Non aveva mai visto niente di simile: fianchi larghi, un… come chiamarlo… fondo schiena, ampio, rotondo, roseo e morbidissimo che non vedeva da tempo, neanche nei sogni più generosi.
Fosse stato minimamente saggio avrebbe fatto salti di gioia per la novità che quel giorno, benedetto, gli portava.
Altrimenti, pensa che noia. Da quanto tempo vestiva solo di grigio, compreso il cappello? Pure i sogni gli erano divenuti grigi, per non parlare dei ricordi. Ad esempio l’ultimo… fondo schiena che ricordava era quello sgraziato e piatto della ex. Non aveva mai avuto il coraggio di dirle la semplice verità: che, forse, avrebbe fatto meglio a coltivare meno rotocalchi e ciance, e più i glutei.

Ma adesso cosa doveva fare. Svegliarla. Dirle, mi scusi signorina, che ci fa nel mio letto?
Un po’ surreale. Meglio far finta di niente. Tanto, per essere viva era viva. Il calore che s’era trasferito alle sue mani in quel fuggevolissimo contatto, non lasciava dubbi. Sarebbe stato il caso di ricontrollare, naturalmente.
Ma non ce ne fu bisogno: si gira, apre gli occhi ‐ bellissima ‐ e fa, ridendo:
Buon giorno, amore.
Socchiude gli occhi e gli s’avvicina aspettandosi, evidentemente, un bacio. Cosa, sennò?

Aveva labbra molto grandi che al contatto con le sue cedevano, rivelando una morbidezza inattesa: stava baciando una sconosciuta. Lui che, bene che fosse andata, per arrivare al bacio non aveva impiegato mai meno di due mesi. Con le ragazze più pazienti: le altre lo mollavano molto prima.

Ipotesi numero due. Evidentemente s’era sbagliata: aveva aperto per sbaglio una porta che non era la sua e s’era infilata nel suo letto. Inoltre doveva avere una miopia avanzata, se al mattino, svegliandosi, l’aveva scambiato per il marito.
Stefano era un genio: centoquindici di QI (adesso, perché da giovane aveva sfiorato i centotrenta).  Sì, la soluzione era semplice e chiara.
Sei sicuro di sentirti bene, Stefano? Stamattina mi sembri un po’ strano. Cosa ti senti?
Aveva detto Stefano. Era quasi certo d’avere sentito quel nome. Quasi, perché lui, per principio, non era mai sicuro di niente: era la sua filosofia di vita.
Anche quando la moglie l’aveva mandato al diavolo non era sicuro che  dicesse sul serio.
Dovette aspettare sei mesi per convincersene.
Possibile che anche il marito si chiamasse Stefano?
Possibile, in fondo era un nome comune.
Meglio far finta di niente:
Bene, cara. Ho solo un cerchio alla testa.
Devi riguardarti, caro. T’ho già detto che da un po’ di tempo lavori troppo.
Finora bene, ma quando si fosse trattato di chiamarla, come diavolo l’avrebbe chiamata?
Deciso: Angela. L’avrebbe chiamata Angela.
Era un bel nome, anche se forse non era quello della ragazza che gli stava a fianco e che lo trattava come lo conoscesse da sempre.
E se non si fosse chiamata Angela?
Si sarebbe messo a ridere facendo finta d’avere scherzato, d’avere usato quel nome solo perché era bello.
Che sapeva benissimo che lei si chiamava… Come si chiamava?

Aveva un po’ di confusione in testa. 
Tornò a pensare d’avere bevuto, la sera prima, troppo nocino, e giurò a sé stesso che non l’avrebbe più toccato.
Sebbene, in fondo…