Risveglio

Varzo 19‐3 a.C.

Dopo la grande frana la montagna restò a lungo desolata.
Il lago, i boschi, le rocce coperte d'erica erano divenuti un'immensa pietraia di mica e serizzo che, strappati all'improvviso dal cuore della roccia, mandavano bagliori argentei alla luce del sole: le acque trasparenti, impazzite, cercavano nuovi sbocchi verso valle, gettandosi rabbiosamente sulle rocce con un cupo grido, fino a scavarvi grandi solchi neri, traboccanti di schiuma, che ribolliva anche di notte, con un inconfondibile rumore di pianto. I topi ed i serpenti animavano gli anfratti delle pietre d'una vita silente e furtiva, alimentando i rapaci, tanto che le loro roche grida ed i voli erano l'unica voce che contrastasse il cupo mugghiare dei torrenti.
Ma nessuno, nemmeno la montagna, può restare in lutto per sempre.
Ad autunno inoltrato cadde la neve e stese un manto di bianco silenzio su tutto quel pianto. L'acqua rimasta in bilico sulla roccia fu trasformata in ghiaccio, mentre in fondo alle gole continuava a muoversi in sordina, stillando piano un'umidore dolce, sotto la gelida morsa dell'inverno.
A primavera la strada dei torrenti era già decisa e le nevi, sciogliendosi, vi s'incamminavano disciplinate e tranquille, evitando le rocce più grosse e rilucendo al sole. Fin dal primo disgelo furono visibili le macchie verdi, gialle e rosse dei licheni e qualche primavera più tardi l'azzurro intenso delle genziane fu come un segnale di ripresa tra il pallore degli anemoni e dei bucaneve. Poi l'erica ed i rododendri, fitti, fitti, colorarono di rosa le rocce, mentre grandi cardi aprirono le loro corolle tonde e rigide al sole, alimentando schiere di api e bombi eternamente indaffarati.
Subito dopo larici e betulle, per quanto molto piccoli e spesso isolati tra i sassi, si presero l'arduo compito di segnar di nuovo il passar del tempo, colorando di verde le estati e d'oro l'autunno, tra una parentesi di neve e l'altra. Avevano un buon carattere, le betulle. Crescevano esili, ma decise ed ogni primavera erano un po' più alte. Avevano tronchi bianchi e foglie piccole, che non schermavano mai del tutto la luce, neppure in piena estate.
Sotto era un brulicare di vita: ai piedi dei larici una piccola selva di mirtilli e rododendri offriva cibo e riparo a puzzole, tassi e ghiri, nonché a colonie d'enormi, infaticabili formiche, che costruivano solerti colline d'aghi caduti, poi sotto alle betulle, tra le felci, quasi all'improvviso, cominciarono a fiorire rose, lamponi e more: un tremolar di fiori bianchi e rosa in primavera e di bacche rosse e brune d'autunno, che insieme al sorbo facevano la gioia d'ogni tipo d'uccello. Ce n'erano tanti che facevano i nidi tra i rovi e cantavano forte al levar del sole. Contemporaneamente gli ontani ed i noccioli s'arrampicarono lesti e tenaci lungo i torrenti ed alla loro ombra umida e scura prosperavano gli scoiattoli bruni e grigi.
A valle, fuori dalla direttrice delle rocce franate, erano rimasti i vecchi faggi in silenziosa attesa. Man mano che la ferita nella roccia si rimarginò le piante novelle, che non sarebbero mai riuscite ad attecchire sotto l'ombra scura dei vecchi faggi, avanzavano timide verso le betulle, circondandole d'una specie d'abbraccio. I tronchi grigi e lisci s'affiancarono spontaneamente a quelli bianchi e l'ombra, senza propriamente infittirsi, si fece più verde e fresca.
Per ultimi e solo alle pendici del monte arrivarono abeti, querce e persino un piccolo noce, sulla radura assolata che s'affacciava alla Diveria. Allora, nutrita dalla pioggia di foglie d'oro bruno, che cadeva ogni autunno, cominciò a crescere l'erba: timida nel sottobosco, confinata in poche macchie di luce, più verde e fitta sulle radure, dura e folta nei pascoli alti, con spighe sottili che d'estate si scurivano al sole, ondeggiando al vento. Così tornarono cervi e caprioli e dietro a loro lupi e qualche orso.
Tutto era come prima.
Almeno da fuori.
Dentro la montagna soffriva ancora e non sperava più di migliorare il proprio stato parlandone o piangendo, ma alimentava un rancore sordo ed opaco contro quell'incessante e rumorosa lotta per la vita.
Il vento le portava notizie di nuovi uomini e nuove civiltà, di terre coltivate con cura e divenute feconde, di castellieri dai grandi saloni riscaldati dov'era possibile trascorrere in allegria anche le più rigide giornate d'inverno, di animali domestici che vivevano insieme all'uomo rinunciando ai propri istinti originari ... ma lei restava completamente esclusa da tutto questo.
A volte, durante l'estate, cacciatori biondissimi salivano fino alle valli più alte e si fermavano per la bella stagione, cacciando nei boschi, ma la Diveria, con le sue acque limacciose, li teneva ben lontani dalla montagna.
Era ciò che desiderava e non se ne rammaricava più: dalle sue figlie aveva avuto solo fastidi. Così quando cominciò a sentir formicolare nuovamente la vita nelle sue viscere, non riuscì a rallegrarsene. Passarono molti anni prima che si rendesse conto che si trattava di esseri minuscoli e fortissimi che vivevano tutta la loro vita nelle caverne: i nani.
D'altra parte costoro parevano non aver bisogno di nulla ... e men che meno d'affetto. Scavavano in continuazione per ampliare le caverne naturali, da cui ricavavano saloni, scale e gallerie, nonché per procurarsi argenti, marmi, pietre preziose e sale. Quest'ultimo era il loro unico alimento. I loro scavi seguivano la costituzione della roccia e non recavano alcun nocumento alla montagna, che non desiderò mai distruggerli ... ma da qui ad amarli c'era troppa strada e troppo cocenti erano ancora le delusioni.
Così quando dal basso della terra salirono i feroci orchetti, che rapirono le donne dei nani e rovinarono le loro belle gallerie, la montagna non si mosse in favore di nessuno e lasciò che le cose seguissero il loro corso.
Ma un giorno accadde qualche cosa che la coinvolse profondamente; i nani, scavando e riscavando, si imbatterono nella lacrima di cristallo che imprigionava la bimba: respirava tranquilla dentro la culla di roccia, come se si fosse appena addormentata ed appariva così piccola che la scambiarono subito per una nanetta.
La chiamarono Aurora, perché con lei ritrovarono la speranza.
Piansero per la commozione: il futuro della loro specie era salvo; non restava che trovare il modo per svegliarla e, naturalmente, farla crescere.
Era autunno. Fuori dalla caverna più bassa, sotto un cielo d'opale, gli alberi perdevano grandi foglie d'oro, che si accumulavano a terra in silenzio. Pareva che gli animali avessero iniziato il lungo sonno invernale, dopo l'ultimo raccolto di ghiande, i villaggi erano lontani e comunque pareva pressoché impossibile che le donne alte e robuste della valle accettassero di entrare in una caverna per occuparsi della figlia dei nani ... l'unica possibilità era rivolgersi a qualche saggio, di quelli che vivevano lontano dalla gente e conoscevano gli arcani della natura.
Nell'alta valle a nord ne viveva appunto uno, grigio di barba e di capelli, dai grandi occhi verdi che parevano catturare la luce: in primavera ed in autunno era facile incontrarlo nei boschi di querce che ombreggiavano la valle, in estate bisognava arrampicarsi fino alle foreste di conifere, mentre nessuno l'aveva mai visto durante i lunghi inverni e non mancava chi affermasse ch'egli potesse addirittura ritirarsi in un altro mondo.
‐ Che sciocchezza! ‐ diceva fra sé e sé Lunga‐barba, il nano incaricato di parlargli ‐ certamente avrà una sua comoda caverna, con marmi e fontane! –
I saggi avevano la fissazione dell'acqua, ed erano sempre intenti a lavarsi, dentro e fuori.
Anche nei mesi estivi, comunque, scendeva raramente in paese ... raccoglieva i giovani a nord, dove la Diveria aveva scavato una stretta gola tra la roccia viva. Il nano s'arrampicò faticosamente lungo il torrente, scivolando di tanto in tanto sui grossi massi bagnati e suscitando risa di scherno da parte dei rapaci che lo osservavano dall'alto, rabbrividiva ogni volta che l'acqua gli spruzzava il viso o la barba. Finalmente giunse in un punto dove la roccia si allargava appena, perché da sinistra giungeva alla Diveria un altro torrente, che percorreva a precipizio una piccola valle fittamente abitata da larici , tigli e betulle. Data la stagione, le foglie erano tutte d'oro, d’ogni tonalità, pallido e brunito. Dopo i terrori della gola grigia, quell'aprirsi aureo della valle sotto il cielo tersissimo d'autunno, allargò il cuore del nano fino alla commozione: gli parve una promessa riguardo Aurora. C'era un silenzio innaturale, persino l'acqua pareva scorrere lentamente ed i suoi passi, in quel silenzio, facevano scricchiolare paurosamente ogni foglia. Gli ci volle un po' per capire che piante ed animali s'erano raccolti in ascolto, perché poco lontano, sotto un tiglio secolare, il saggio parlava.
Si stupì di notare come non fosse né alto né imponente, con quella zazzera disordinata intorno al volto: ma c’era qualcosa nei suoi occhi che catturava suo malgrado l’attenzione.
Quale non fu la sua sorpresa, quando sentì che l'argomento della lezione lo riguardava. ‐ L'amore materno ‐ stava infatti dicendo il mago ‐ è una forza tipicamente femminile! ‐ curioso davvero! Come poteva quest'idea interessare dei guerrieri? Ma quelli ascoltavano immobili ed il saggio proseguì ‐ Certamente fra gli animali la differenza è manifesta anche agli occhi della carne, ma è impossibile comprendere la realtà se non ci si abitua a percepire la polarità maschile e femminile che governa il mondo ... femmina è l'acqua e l'ordine che governa i mestrui e le maree, la terra, madre di ogni vivente, ed ogni albero che dia frutto, per ognuna di queste forze noi dobbiamo avere lo stesso rispetto timoroso, la stessa soggezione che abbiamo per una madre ... ‐ seguiva una complessa serie di proibizioni, perché pareva veramente pericoloso contrastare una forza femminile in azione, a qualsiasi titolo ... ma il nano non seguiva più e silenziosamente aveva volto le spalle per andarsene: se la terra era madre, anche la montagna, certo, partecipava un poco a tale potere e così ogni pianta da frutto ... era vero: in primavera la natura in fiore non faceva forse pensare ad una fanciulla pronta per le nozze?
Non occorreva più esporre al saggio il proprio delicatissimo problema, col rischio grave che qualcuno potesse sentire e volesse rapire la fanciulla ... chissà se egli stesso non avrebbe insistito, per imporre loro di consegnarla ad una famiglia umana? Bastava circondare la bimba di forze femminili: c'era una caverna al centro della loro dimora, che prendeva luce da una grande apertura a forma di luna piena, il sole di mezzogiorno vi entrava caldo ed il vento non soffiava mai. L'avrebbe fatta rivestire di marmo chiaro e l'avrebbe riscaldata con grandi fuochi durante l'inverno, cosicché potesse crescervi un albero: i suoi frutti teneri e maturi avrebbero sostituito eccellentemente il latte materno, finché la bimba non fosse stata in grado d’alimentarsi normalmente. Aveva la certezza che la piccola, sistemata in quella stanzetta che già vedeva luminosa e tiepida, avrebbe aperto gli occhi il giorno stesso in cui ... un momento. Che albero avrebbero piantato? In realtà non aveva alcuna cognizione d’agricoltura, la nuova scienza che entusiasmava gli uomini giù a valle, né voleva chiedere altri consigli. ‐ Lunga‐barba, aspetta! ‐ in quel preciso istante una voce gentile, quasi femminea, venne ad interrompere le sue riflessioni; si volse stizzito e vide che uno dei discepoli del saggio lo aveva seguito: era un ragazzo diafano, con gli occhi cerulei ed i capelli d'un biondo pallido, che pareva quasi bianco; si sentì spiato e tradito e lo apostrofò duramente: ‐ Che vuoi? ‐
Il ragazzo sorrise franco: ‐ Il maestro mi manda per donarti questa. ‐ disse porgendogli una melagrana matura.
Per quanto non avesse esperienza alcuna di fiori e frutti fu colpito da quel globo dorato e la sua meraviglia crebbe quando il ragazzo recise la scorza con un coltello aguzzo e dei grani rossi come rubini si affacciarono curiosi alla luce. Intanto il discepolo proseguiva un discorsetto probabilmente imparato a memoria: ‐ Normalmente il melograno non riesce a vivere tra questi monti: è originario di una lontana terra di Levante dove in principio cresceva soltanto nei giardini degli dei: si dice che chi rimiri i suoi frutti rossi guarisca per sempre da ogni invidia e comprenda il segreto della felicità; il maestro mi prega di chiederti se puoi provare, coi tuoi compagni, a farlo germogliare in una caverna riscaldata e ben esposta. Quando la nuova pianta metterà i germogli il maestro sarà lieto di farvi visita. ‐ Curioso davvero! Non solo il saggio pareva aver compreso e addirittura condividere il suo pensiero, ma spingeva la propria delicatezza a fingere d'aver bisogno egli stesso di quell'esperimento. Prese il frutto con mano tremante: ‐ Pare che mi abbia letto nella mente! ‐ esclamò meravigliato ed un po' impaurito, il ragazzo partecipava forse dei poteri del maestro? Forse sì, perché sorrise, cortese ed enigmatico e rispose: ‐ Non temete, i vostri pensieri sono al sicuro dentro i suoi e se un mortale ha un desiderio, l'unica speranza di realizzarlo è nella possibilità di condividerla con un saggio! ‐ e prima che potesse replicare scomparve tra gli alberi spogli.
Gli altri furono entusiasti all'idea: il melograno fu seminato al centro della grotta, sotto l'apertura a forma di luna e la culla, dove la bimba continuava a dormire, fu sistemata lì vicino.
In una notte la pianta allungò lesta tanti rami sottili come capelli, si curvò spontaneamente verso la bimba e la circondò in un abbraccio di rami spogli, ma gonfi di gemme rosse, alle prime luci dell'alba si schiusero le foglioline ovali, fitte, fitte ed il saggio comparve direttamente nella grotta, senza che nessuno lo avesse guidato attraverso i complicati passaggi e gallerie, si chinò con sapiente dolcezza sulla culla e disse. ‐ Si tratta della figlia di Eliana! Un vero miracolo che si sia salvata da una così grande catastrofe ... ho sempre detto che la montagna non è crudele come dicono ... basta vedere l'amore con cui nutre i suoi incantevoli alberi e la generosa riserva di pietre preziose che vi concede ... vedrete come vi ricompenserà per le cure che prodigate alla sua nipotina! ‐
Incoraggiati dall'approvazione i nani si spinsero a raccontare il progetto di fare della bambina la loro principessa.
‐ Ma non può essere! ‐ osservò ‐ È una bambina umana! E poi le vostre donne sono ancora vive e se avrete cura della sua nipotina la montagna vi ricompenserà, facendole tornare! ‐
Se ne andò senza insistere ed i nani dimenticarono presto quell'osservazione: la bimba era bella ed la desideravano per il loro principe. Suo padre, il re, aveva già mandato preziosi regali per la fanciulla e la gratitudine della montagna inanimata non era nulla rispetto a tante ricchezze: sale finissimo, gioielli preziosi e lini morbidi dalle tinte più allegre che si fossero mai viste ... senza contare che la fanciulla era molto più attraente delle nanette che ricordavano: aveva capelli neri come la notte, labbra rosse come il sangue, pelle bianca come la neve e pareva così felice nel sonno!
A primavera l'albero si ricoprì di fiori profumati, però, stranamente, non erano rossi come si sarebbero aspettati, ma turchini. Fecero una riunione per discutere l'accaduto ed i più dissero che doveva essere un effetto della luce. Quella notte stessa maturarono i frutti e quando il più grande aprì la corteccia d'oro bruno videro che anche i semi non erano rossi, ma azzurri, chiari e luminosi come il cielo.
In quel preciso istante la bimba spalancò due occhi altrettanto azzurri e cominciò a vagire con voce argentina. Subito le spremettero succo di melograno sulle labbra e mandarono a dire al re che la sua sposa era nata.
Certo non aveva nulla in comune con le donne che erano state rapite, ma forse se fosse cresciuta al riparo dal sole e dall'aria, nutrendosi solo di frutti sarebbe rimasta piccola come una di loro ...
Aurora crebbe quieta e bella per quindici anni felici, densi di gioia per i nani e si fece quasi donna: una donna piena di grazia soave.
All'occhio attento d'una madre, veramente, la fanciulla non sarebbe apparsa tanto perfetta: era davvero troppo pallida e silenziosa. Certo il suo pallore aveva un che di luminoso, forse per la luce azzurra dei grandi occhi o per il superbo contrasto con i capelli neri come l'ala del corvo, le ciglia lunghissime, le sopracciglia perfettamente disegnate, ma una madre non si sarebbe lasciata ingannare dall'apparenza: avrebbe capito subito che le labbra color di rosa erano esangui ed avrebbe certo trovato il coraggio di avventurarsi qualche ora nei prati per una passeggiata ... cosa pericolosa ed inutile secondo i nani ... e poi quei lunghi silenzi di Aurora ... certo, non aveva coetanei e non era colpa di nessuno, ma avrebbe potuto imparare a cantare le antiche storie e certo sarebbe stata contenta di rendersi utile, affiancandosi ad un orafo, un incisore, un sarto ... ma i nani non permettevano alla loro principessa di lavorare e dato che loro, invece, faticavano parecchio, la fanciulla restava sempre sola.
Passava la sua giornata affacciata all'apertura della sua stanza, che era anche una porta sul mondo, ben difesa dalla cortina d'acqua della cascata e giocava coi fili d'argento e le pietre preziose che aveva a disposizione in grande quantità. A volte s'ingegnava a fabbricare cinture, piccole borse trapunte di gemme e lunghe collane, coi quali ingentiliva gli abiti di lino finissimo, ma di fattura un po' rozza, che cucivano per lei i nani, ma più spesso, abituata com'era a non far nulla, giocava semplicemente con le pietre imitando le costruzioni che aveva visto all'interno delle grotte: scale di rubini, volte d'alabastro, ponti di topazi... poi si annoiava e gettava tutto all'aria. Quando c'era il sole portava fuori tutte le sue pietre e le lavava con cura sotto l'acqua della cascata, poi le asciugava meticolosamente con un panno, finché non tornavano lucide e splendenti. ‐ Le pietre non si lavano con l'acqua! commentava inorridito l'orafo ‐ ma con il miele caldo! ‐ Sciocchezze! Aurora non voleva pulirle, voleva semplicemente giocare!
Stava proprio sistemando le sue belle pietre sotto l'acqua iridescente della cascata, il giorno che la vide per la prima volta...
Era alta come lei, ma paffuta e dorata, con pesanti trecce bionde che luccicavano al sole, due guance tonde come certe mele mature, che i nani le procuravano in autunno e le labbra rosso‐rubino, che facevano uno strano contrasto con gli occhi color dell'acqua e la buffa peluria bionda che la ragazzina aveva al posto delle sopracciglia... anche le ciglia erano chiare e corte.
Si stava avvicinando: tra loro c'era solo l'acqua. ‐ Ma guarda che meraviglia! ‐ esclamò, riferendosi probabilmente alle pietre. ‐ Posso entrare? ‐ e molto prima d'ottener risposta si riparò il capo con un mantelletto ed entrò. Era interamente vestita di pelle di daino, che s'era bagnata entrando, cosicché un odore acre riempì la stanza, mentre saltava come un passerotto infreddolito e toccava tutto, lanciando piccole esclamazioni di gioia selvaggia alla vista dei mobili intarsiati di pietre dure, del soffice tappeto e degli arazzi che coprivano le pareti.
Aurora ne ricavò un'espressione violenta. Per nulla infastidita dalle grida o dalla puzza restò a guardare la creatura solare che le stava di fronte con la bocca spalancata, finché quella non si seccò: ‐ Che ti prende? ‐ l'apostrofò duramente ‐ Non hai mai visto una donna? ‐
‐ No! ‐ rispose Aurora col suo miglior sorriso.
L'altra batté le mani incredula: ‐ Beata te! ‐ esclamò ‐ Mio padre ha tre mogli! E tutte ce l'hanno con me. L'ultima ha la mia stessa età e già pretende di farmi delle osservazioni... ‐ ad un tratto si fece seria ‐ Il fatto è che non so fare quasi nulla: cucinare, filare, cucire... ‐
Aurora la rincuorò, riferendole l'opinione dei nani in proposito: ‐ Oh, non importa, sai, nemmeno io ... le donne non sono fatte per lavorare, ma solo per essere sane e felici! ‐
L'altra dovette fraintendere qualche cosa perché scoppiò in una fragorosa risata ‐ Eh già, lo dice sempre anche mio padre! ‐ esclamò con gli occhi scintillanti d'una strana malizia ‐ Però non mi ha ancora data a nessuno! Io penso che sia geloso di me perché gli ricordo la mamma, che è morta proprio quando sono nata! ‐
‐ Anche la mia. ‐ affermò pronta Aurora, che sentiva prepotente il bisogno di assomigliarle.
Ottenne l'effetto voluto: l'altra le gettò le braccia al collo e la baciò. Era morbida e calda. ‐ Saremo amiche per sempre! ‐ giurò solennemente e poi continuò nel tono sommesso delle confidenze segrete: ‐ Sai che anche la mia mamma non sapeva fare proprio niente ... tanto che il papà ha dovuto prendersi subito un'altra moglie, ma finché lei è vissuta è sempre stata la prediletta. Era bellissima! ‐
‐ Anche tu sei molto bella. ‐ affermò pronta Aurora.
‐ Sì, sì, ‐ convenne l'altra, evidentemente abituata ai complimenti ‐ lo dice sempre anche il papà, ma vedi, la mamma era dolce e tranquilla, mentre io ... non so star ferma ... e poi parlo troppo! ‐ ed atteggiò un broncio infantile.
‐ Parli troppo? ‐ si stupì Aurora ‐ E che dici? ‐
L'altra scoppiò in una risata argentina: ‐ Perché che cosa dicono gli uccelli? E il vento? E la cascata che proprio ora sta cantando qui fuori? ‐ e inaspettatamente se ne uscì in un gorgheggio acutissimo che imitava certi trilli notturni dell'usignolo. La sua voce potenziata dal luogo chiuso, riempì la stanza, s'infilò nelle gallerie, fece tremare, nei grandi saloni interni, gli zampilli delle fontane. I nani si rallegrarono che Aurora cantasse, mentre stava semplicemente applaudendo con entusiasmo: ‐ Sei bravissima, è incantevole! ‐
‐ Davvero? ‐ fece l'altra stupita ‐ Non sembro una bestia che si lamenta? ‐
‐ Naturalmente no! ‐ affermò pronta, senza sapere bene di che cosa si parlasse e l'altra continuò ‐ Ecco, loro dicono sempre che la mia voce fa cagliare il latte ed impedisce alla birra di fermentare! ‐
‐ Sono sicura che sbagliano! ‐ affermò seria Aurora, che non voleva ammettere di non capire nulla. Ma l'altra, dopo il primo entusiasmo, riprese a muoversi per la stanza con fare inquieto, finché s'avvicinò con aria da cospiratrice e disse: ‐ Chi ti tiene prigioniera qui? ‐
I nani le avevano detto di non parlare mai con nessuno della loro esistenza e perciò Aurora, che non sapeva bene che cosa fosse un prigioniero, disse che viveva felice e contenta.
‐ Può darsi, ‐ ammise incredula la sua nuova amica ‐ ma io ho bisogno d'aria o impazzisco. ‐ Poi dovette pensare che qualcuno avesse raccomandato ad Aurora di non uscire, perché aggiunse: ‐ Si vede subito che sei delicata e non devi avventurarti da sola nel mondo pieno di pericoli ... ma con la tua migliore amica, che è la figlia di un grande guerriero, puoi farlo! ‐ e così dicendo la prese per mano per condurla fuori dalla caverna, sotto la cascata, nel prato, vantando ad alta voce le proprie capacità di fronte ad ogni possibile evenienza. ‐ Mi sono bagnata i capelli. ‐ piagnucolò Aurora senza ascoltarla, ma la ragazza rispose pronta ‐ Il sole li asciugherà! Tanto li hai già sciolti! ‐ e prese essa stessa a disfarsi le trecce, pettinandosi con un rozzo pettine d'osso che teneva appeso alla cintura. Ad Aurora parve una cosa bellissima potersi intrecciare i capelli e chiese umilmente d'imparare, ma l'altra rise rumorosamente. ‐ Non devi andare nei boschi! ‐ disse ‐ E sei tanto carina così. Piuttosto hai bisogno d'imparare a cantare ... come puoi vivere in silenzio?
Cantarono tutto il pomeriggio, finché il sole non si abbassò a toccare le cime delle montagne di fronte. Aurora, che non aveva mai visto nulla là fuori, era sfinita dall'emozione. Ad un tratto la sua compagna gridò: ‐ Ma è tardi! ‐ correndo verso il bosco.
‐ Non lasciarmi ‐ gridò Aurora ‐ non so tornare a casa! ‐. L'altra tornò paziente sui suoi passi e poiché ormai non c'era più il sole per asciugarsi stese il suo mantello sopra le loro teste, mentre rientravano sotto la cascata. ‐ Adesso però devo proprio andare, o mi picchieranno. ‐
‐ Aspetta ... ‐ Aurora non sapeva più come trattenere l'amica ... corse a prendere il suo pettine d'argento: ‐ Tieni almeno un ricordo ... ‐
La fanciulla rise irriverente: ‐ Ricordo di che? Non parto per la guerra! Domani, alle prime luci dell'alba sarò qui! ‐
‐ Non mi hai detto neppure come ti chiami ... ‐ continuò a lamentarsi Aurora; l'amica le sussurrò: ‐ "Lui" mi chiama Barbara..."Lui" è "Romano". ‐
Non era in grado di capire l'importanza e la delicatezza di quella confidenza... e rispose soltanto: ‐ Buona notte, Barbara e torna presto! ‐
Il sole era tramontato.