Risveglio a Villa Adela. Anno 1945

A Villa Adela, la cucina, la grande cucina di un tempo, era il crogiuolo di una vita famigliare, fatta di nonni, zii, nipoti, cugini. Di mattina, l’incontro di corpi, di sentimenti. Ansie, preoccupazioni, dolori, piaceri esauditi, scrivevano, sui volti, grafiti decifrabili dalla sensibilità traboccante di noi bimbi. L’odore del latte bollito, grasso, untuoso, aveva salito, già da solo, la prima rampa di scale, trovandoci ancora al caldo delle coperte. L’aspro profumo dell’orzo ci attendeva al varcare della soglia della cucina. Chi entrava già lavato, sapeva di sapone di Marsiglia. Solo a festa si trovavano, sulla madia, i biscotti di nonna Amina. Il primo morso, rubato di fretta, fondeva, nell’abbondante saliva dell’appetito mattutino. Quando papà giungeva tra noi, da militare, la cucina era sede di uno spettacolo singolare, nuovo e atteso da noi bimbi. Papà scendeva a radersi sul grande tavolo di noce della cucina. Vestaglia di seta, necessaire di pelle, magica scatola, da cui uscivano oggetti meravigliosi, luccicanti. Primo fra tutti, un marchingegno di estrema modernità, per quei tempi, il rasoio da viaggio Gillette: tre pezzi da montare a vite che racchiudevano la preziosa lametta omonima. Gli anziani di casa, quelli del rasoio, per intenderci, stavano a dovuta distanza, sfoggiando un tenue sorriso. Poi papà estraeva altri pezzi, deponendoli sul legno rugoso. L’argento delle ricche decorazioni lasciava intravedere un pennello, una vaschetta di sapone solido, profumatissimo, un pettine e una spazzola. Noi bimbi si stava col mento appoggiato al bordo della tavola, occhi sgranati. Lui assorto e consapevole della sua funzione di attore iniziava l’insaponatura del volto. Un lento andare e ritornare del pennello , dai peli di tasso, sul volto aspro di papà. L’attento togliere della mano sinistra bave di spuma, andate fuori posto. Chi riusciva a rubare un po’ di quella panna dalla vaschetta, era destinato a un piacere voluttuoso, nel sentirne la scivolosa consistenza tra le dita. Poi, il passare della Gillette sul volto: un esercizio da funambolo. Lame affilatissime vagavano per i muscoli del volto, che a tratti, con guizzi inattesi, cambiava espressione, per assecondare il passaggio di queste. A volte, il sorgere di una goccia di sangue era un momento di alto patos. L’inconsistenza della percezione dell’errore ci sgomentava. Bastava un sorriso, il suo, per placarci. Il volto riappariva, a tratti sempre più ampi, dalla schiuma, sino a presentarsi quasi levigato, nuovo. Era il passaggio delle mani di papà, quasi una carezza a darcene conferma. Gli spruzzi di Lavanda Col di Nava, con la “pompetta di gomma”, chiudevano profumatamente lo spettacolo, coinvolgendoci in un’aura di primavera.