Ritratto

Nadia pensava sempre al sesso e sempre ne parlava, ridendo con le colleghe e scherzandoci sopra, tra una pratica e l’altra, guardando, sbirciando intorno coi piccoli occhi scuri sempre in moto, da sopra la sua minigonna, alla ricerca del nuovo cliente “carino” da accogliere e con cui trattare… Chiacchierava, rideva e scherzava.

Per nascondere la paura.

La paura di crescere e la voglia di giocare. A patto che il gioco non fosse troppo serio, non avesse troppe regole e non implicasse troppe responsabilità.

C'era un che di frastornante in questa sua attrazione‐repulsione, che disorientava tutti quelli che la incontravano.
Gli uomini finivano col pensare che lei li odiasse tutti, perché ricevevano le sue attenzioni solo fintanto che non cominciavano a rispondervi.
Le donne, che fosse perennemente affamata di uomini, al limite della decenza.
Forse avevano ragione entrambe le parti.
Entrambe la vedevano fare le fusa intorno all'ennesimo prescelto, e darsi alla fuga quando quest'ultimo cominciava a chiedere qualcosa di più concreto delle sue promesse più o meno velate.

Qualcuno dei suoi cavalieri occasionali, che aveva esagerato coi modi e con le richieste, interpretando i suoi no per altrettanti si, dopo averla messa con le spalle al muro se l'era vista scoppiare in lacrime e questo, per fortuna di lei, gli aveva tolto qualunque baldanza.

Nadia stessa non avrebbe saputo spiegare perché si comportasse così. Il fatto di dover rispondere alle richieste che lei stessa aveva provocato, di dover mantenere quelle promesse, la faceva scappare.
Il tutto, ogni volta, nell'arco di poche settimane, dopodiché questo suo circolo vizioso si spostava semplicemente su un nuovo "uomo perfetto".

Le amiche più intime le dicevano che lasciarsi un po’ andare, superare il limite che ella si poneva, sarebbe stato l'unico sistema possibile per cambiar vita o, come le diceva Paola, "per cominciare a vivere".
"Una volta tanto bisognerebbe che il tuo cavalier azzurro non si fermasse al primo no e ti forzasse un po' la mano" esclamava delicata e serafica Paola, durante i loro tè pomeridiani del sabato, "cioè le gambe!" concludeva schietta Rosa, con una gran risata.

Nadia la trovava sempre un po' troppo "sboccata" ‐ la parola esatta sarebbe stata forse un'altra, ma pensarla la infastidiva ‐ anche se non poteva evitare di percepire quanto il solo pensiero di ciò che le sue amiche le prospettavano, le rimescolasse la pancia.

Quegli incontri a tre erano per Nadia le uniche vere occasioni di sfogo e per quanto le altre due fossero più o meno sue coetanee, si rivolgeva loro come a due vecchie zie cui poter chiedere consiglio su tutto. Specie su tutte quelle esperienze che non aveva il coraggio di vivere.

Eppure, quando tra i vapori della vasca da bagno, piena fino all'orlo, riparata sotto un soffice strato di schiuma e rilassata da abbondanti sali, rivedeva le sue fantasie, dalla più romantica alla più sfrenata, le sentiva, in fondo, segretamente sue, per quanto rispecchiassero tutto quello che "le zie" le avevano sempre raccontato.

Anzi, in quei momenti di raro abbandono, le sue sensazioni erano talmente intense e spontanee, che era meraviglioso lasciare che le mani e la natura una volta ogni tanto facessero il loro corso. Ma allora perché non riusciva ad avere una vita sentimentale piena e soddisfacente? Su una scala da uno a dieci il suo livello di emozione quotidiana era, mediamente... zero!

 Insomma, aveva quasi trent'anni e si sentiva sana sotto tutti i punti di vista, il grande specchio del bagno, un po’ appannato dal vapore, le rimandava l'immagine di un corpo forse un po' troppo esile, ma tonico, un seno forse un po' piccolo ma ben fatto, una vita sottile su due gambe snelle e asciutte. "Un corpo da ballerina", diceva sua madre compiaciuta, ammirandola nel suo costume da bagno sgambato.

 Certo, c'era anche il collo un po' troppo lungo, le labbra un po' troppo carnose e pronunciate, quel modo di tenere i piedi un po' a mo' di papera, il mento un po' troppo a punta, le ossa delle spalle un po’ troppo sporgenti e spigolose... "Ma che cavolo..!" esclamava allora allo specchio, fermando i suoi pensieri quando la lista nera minacciava di diventare troppo lunga, "…in fondo nessuno è perfetto!".

"Acerba" sussurrava allora una vocina sottile e tagliente, nella sua testa, facendole lanciare ancora uno sguardo di sottecchi allo specchio, mentre finiva di asciugarsi i corti capelli, né lisci né crespi, "insulsi" sentenziava ancora la vocina, e un istante dopo l'asciugamano, avvolto a turbante, li aveva già coperti.

Quando, per qualche strana ragione, riusciva per un istante a bloccare le tumultuose sensazioni che l'eccessiva vicinanza di un uomo le dava, riusciva a identificare, nel crogiuolo ribollente delle proprie piccole paure, la terribile sensazione di non avere più via di scampo, l'inevitabilità di doversi scoprire, dichiarare, e l'impossibilità di non poter essere altro che se stessa.

Il solo pensiero di essere definitivamente scoperta, svelata da un uomo, peggio, ad un uomo, la sensazione orribile di esserne in qualche modo alla mercé, la metteva in un tale stato di agitazione che sentiva tutto il corpo trafitto ovunque, come da centinaia di sottili spilli.

Scappava allora da quei pensieri, rifugiandosi dentro il pigiamone rosa felpato con gli orsacchiotti, sul divano, sotto un caldo plaid, con pile di fumetti sul tavolino accanto e la radio accesa in sottofondo, fermamente sintonizzata sulla sua stazione preferita.

Per un po' riusciva a provare un certo sollievo, magari riusciva a leggerne anche un paio senza perdere il buonumore. Poi però, inevitabilmente, si faceva strada, tra le battute di Topolino e Pippo, la sensazione di star perdendo qualcosa d'importante...

La stessa sensazione, lo stesso nodo allo stomaco che avvertiva guardando certi film e che inevitabilmente la faceva commuovere fino al pianto dirotto, ogni volta che il dr. Jeckill si uccideva per uccidere Mr. Hyde, o King Kong, colpito da innumerevoli colpi, precipitava dal grattacielo...

E si che erano film che non le ispiravano altro che orrore e repulsione, e che il più delle volte aveva accettato di vedere solo perché qualcun altro lo voleva e a lei non andava in quel momento di restare sola.

Eppure...

Le scene con animali uccisi, poi, proprio non le sopportava, sia che fossero film o documentari. Certo lei in casa non avrebbe tenuto neanche un criceto, ma l'idea che si potesse far deliberatamente soffrire esseri innocenti per puro divertimento la mandava semplicemente in bestia, al punto da diventare noiosa ed intrattabile per chiunque le stesse intorno.

Ma sempre, sempre, aveva dentro quella sensazione di fondo di perdita… di mancanza… di vuoto senza soluzione, come se avesse perso, o stesse perdendo, non “qualcosa” ma “la possibilità di qualcosa”, una possibilità però talmente oscura e nebulosa da non riuscire a spiegarla neanche a se stessa.

Quella stessa sensazione che il lunedì mattina in ufficio, davanti alla solita pila di pratiche da archiviare, di scartoffie da smaltire, si trasformava, diventava dispetto, poi rabbia, infine malinconia, come se rimpiangesse qualcosa che però non ricordava di aver né fatto né vissuto.

"Cos'è che mi manca" si chiedeva in certi giorni, a volte quasi ossessivamente, "cos'è che ho dimenticato...". Niente. Non le veniva in mente niente. Un niente totale, da farle venire il mal di testa.

Come tutto fosse già ovvio, già evidente, già lì sotto i suoi occhi e non ci fosse nient’altro da chiedersi, nient’altro su cui interrogarsi. Alla fine era molto più semplice prepararsi alla serata con le amiche, alla ricerca di qualcuno a cui far girare la testa per un po', prima di lasciarlo… a bocca asciutta, naturalmente!