Stories from Palestine - Quando sono arrivato a Gaza...e altro.

Quelle che seguono sono, in successione, la testimonianza diretta di Luigi Montagnini, anestesista di Medici Senza Frontiere, e il testo quasi integrale di una intervista telefonica a Cécile Barbou, coordinatrice della stessa organizzazione nella Striscia di Gaza. Sono (quasi) contemporanee perché risalgono entrambe a oltre tredici anni orsono (si era agli inizi del 2009, ovvero quando scoppiò, poi manifestandosi in maniera oltremodo drammatica, cruenta ed infausta, la cosiddetta "crisi" a Gaza e dintorni) ma non hanno perso valore, a mio modesto avviso, nel corso del tempo: per il fatto semplice ed ultra chiaro che lungo la "striscia di Gaza" (o Gaza Strip, come viene di solito identificata dalla moderna toponomàstica di matrice anglofona o da coloro i quali, me compreso, vogliono a volte darsi un tono di internazionalità, quella piccola zona costiera, una sorta di lingua o striscia, appunto, lunga poco meno di trecentosessantacinque chilometri e posta in mezzo ai territori di Israele ‐ a nord ‐ ed Egitto ‐ a sud ‐ e che si affaccia a sua volta sul Mediterraneo) e in tutta Palestina occupata  il passato sia sempre presente, o meglio ancora, non passi mai di mod...d'attualità!
Il sette gennaio, appena dopo la Befana, ho ricevuto una telefonata da Roma (np., mi pongo un paio di domande, unisone al mio stesso scrivere, o meglio ancora, prima di andare avanti nel racconto: chissà se anche in quei luoghi "arrivi di notte e con le scarpe tutte rotte"? E chissà mai se "porti carbone ai più cattivi"? Molto spesso ho la cattiva abitudine di darmi la zappa sopra i pied...rispondere da me stesso alle domande appena poste, e questa volta le risposte che riesco a darmi sono le seguenti: innanzi tutto è da dire che di notte in Palestina possano sovente capitare ben altre cose tra cui che polizia od esercito ‐ o entrambi ‐ entrino nelle case dei palestinesi ed in maniera del tutto arbitraria le mettano a soqquadro, terrorizzino gli occupanti, strattonando e picchiando senza far complimenti chiunque trovino innanzi, comprese donne, vecchi e bambini; la "vecchia", invece, mi sa che qualora essa arrivi lo faccia proprio con scarpe rotte e di certo non firmate visto che molti non se la passino bene ed anche lei non possa permettersele; in ultimo, per quanto concerne il carbone debbo dire...beh, in Cisgiordania occupata, tutta quanta e non solo a Gaza, l'enclave sotto egida Hamas, sono abituati a riceverne tanto visto che in molti identifichino ancora i Palestinesi con l'aggettivo cattiv..."terrorista", qualunque cosa essi facciano ed in ogni modo agiscano nei confronti dell'occupante israeliano!): "Ciao, sono Ettore di MSF. Stiamo formando una equipe chirurgica da inviare a Gaza. Il prima possibile. Che ne dici?". Avrei anche potuto dire di no, ma erano i giorni più critici di questa guerra e, dopo aver visto le immagini in TV e avuto l'opportunità di fare qualcosa per le vittime civili, soprattutto i bambini, mi sarebbe costato molto di più rifiutare che accettare. Dopo tre giorni ero in volo per Tel Aviv. Una settimana di attesa a Gerusalemme per avere i permessi e la prima parte dell'Emergency Team è riuscita ad entrare a Gaza da Erez (al confine nord con Israele); il giorno dopo da Rafah (al confine sud con l'Egitto) ci ha raggiunto la seconda parte del Team: in tutto tre chirurghi, due anestesisti, un infermiere di sala operatoria, un infermiere di terapia intensiva, un logista e un coordinatore.
"We are happy to have you here!", è stato il commosso benvenuto dei nostri operatori palestinesi, che collaborano da anni con MSF nella striscia di Gaza per gestire due ambulatori di fisioterapia, un servizio di pediatria e uno di salute mentale. Dopo due giorni sono arrivati i due autotreni con le ventuno tonnellate di materiale per il nostro ospedale da campo: quattro tende con due sale operatorie, dodici letti di terapia intensiva, una farmacia e una centrale di sterilizzazione. Mentre, in tempi record, i logisti approntavano il nostro ospedale, abbiamo dato una mano ai colleghi dell'ospedale di Shifa, il più importante della città: le notizie in Italia riportavano che le prime vittime di questa guerra fossero donne e bambini. Sarà stato un caso ma i miei primi due pazienti sono stati una ragazzina, con le gambe esplose, che è morta in sala operatoria e la sua mamma a cui abbiamo dovuto amputare una gamba e che è morta per un trauma toracico il giorno dopo. Sono passate oramai tre settimane dal mio arrivo a Gaza. Sono in attesa del nuovo anestesista che verrà a darmi il cambio. Molte cose sono cambiate: il cessate il fuoco sembra reggere, le esplosioni sono sempre più rare e tutta la città sembra rinascere. Sembra lontano il giorno in cui sono entrato nella Striscia: il cielo era lo stesso che in Israele, il colore della terra anche, il resto no. L'impatto è stato desolante, un paesaggio martoriato e grigio. Qualche colpo in lontananza, un aereo da ricognizione che ronzava costantemente sopra le nostre teste, nel cielo due elicotteri e la scia infuocata di tre colpi di mortaio. E tutto attorno il muro di dieci metri che sigilla la Striscia; le tracce sulla terra battuta segnavano il recente passaggio dei carri armati. Ogni casa lungo il percorso portava i segni dei combattimenti e molte erano completamente distrutte. Intanto anche il nostro ospedale è in piena attività: non si tratta più di effettuare interventi in emergenza, ma di sottoporre a nuovi interventi persone con ferite non chiuse o infettate, ustioni estese, amputazioni eseguite in fretta nei giorni della guerra che richiedono revisioni. A giorni apriremo anche il programma di chirurgia plastica per effettuare innesti di cute, soprattutto ai bambini. Intanto H., quattro anni, la nostra prima paziente, con una brutta ustione al braccio, ha terminato il ciclo di medicazioni in anestesia generale. Dovrà essere seguita ancora ma basterà farlo ambulatorialmente. Mi vengono in mente le parole del direttore dell'ospedale di Shifa: "I morti, purtroppo, sono morti. Ci dobbiamo concentrare sulle persone che ora hanno bisogno di cure e ogni risultato, anche piccolo, è un grande risultato". I morti sono morti, certo; ma hanno la cattiva abitudine di parlare, pur essendo morti, o meglio, dopo aver acquisito sul campo quello status: essi contano quanto i vivi nella memoria collettiva di un popolo ("morire è invano se nessuno ricorda che hai vissuto", scrissi io stesso alcuni anni orsono), dimenticarli sarebbe oltraggioso verso di essi oltre che nei confronti di chi sopravvive. Per fortuna, a mio parere, sembra che la gente abbia del tutto estirpato dal linguaggio comune, oltre che dal proprio sentire, ovviamente, la parola "oblio" in Palestina, laddove, infatti, il martirio faccia parte dell'immaginario di ognuno e a qualsiasi età anagrafica (spesso, anzi, è una delle poche usanze o pratiche che da quelle parti possieda intrinseco potere riconciliatorio, o riconciliante che si voglia dire, e indistintamente tutti riconduca poi, magari solamente per poco, agli ideali comuni). Basta leggere le cronache dei funerali delle vittime (dei bombardamenti, dell'esercito, dei coloni o di altre cause violente) oppure vedere i video di tali avvenimenti, sparsi ormai ovunque sul web, per rendersene conto, scoprire che un villaggio intero vi prenda parte, se e quando ciò sia possibile farlo, evidentemente. Accade infatti molto spesso, in Palestina, che anche al semplice e normale svolgersi ‐ lo si va definendo altrove consueto, o meglio ancora, consuetudinario ‐ della manifestazione umana più diffusa nel mondo (quale quello di un funerale, appunto) vi siano degli "impedimenti", i quali non sono del tutto secondari visto che gli israeliani possiedono la cattiva quanto macabra abitudine (sancità anche da alcune leggi e dalle stesse autorità, non di rado) di trattenere la salma del deceduto e lo fanno per motivi precipui e no insignificanti (ai più) o che possano apparire senza senso alcuno per la maggioranza delle persone: vogliono dare esempio e impartire una lezione morale ma non solo perché le salme sono considerate merce di scambio, al pari di un misero gruzzolo di shekel (valuta ufficiale israeliana, usata correntemente anche in Palestina). Tutto questo è accaduto in passato, ancora oggi accade ed ancora accadrà, purtroppo. Nell'ottobre del 2011 il soldato israeliano Gilad Shalit, nelle mani di Hamas da oltre cinque anni, venne scambiato con quattrocento detenuti palestinesi: Amnesty International denunciò all'epoca le dure pratiche di detenzione attuate da entrambe le parti. E' da dire, però, che in quel caso (ma accade quasi sempre, a quanto pare) gli israeliani, in seguito, incarcerarono nuovamente numerosi prigionieri facenti parte dell'accordo di scambio. Gli scambi, invero, ricordano quelli che un tempo avvenivano nelle fiere e nei mercati del bestiame, colla differenza ‐ tuttavia ‐ che si tratti di carne uman...esseri umani ad essere in ballo, in questi casi, e no maiali o vitelli. Nella primavera del 2020 il quotidiano saudita Elaph News Agency riferì come avvengono gli scambi, o meglio, le loro fasi principali: "Solitamente, se si tratta di prigionieri di credo musulmano, avvengono al termine della festa di al‐Fitr (np., nella cultura e nella religione islamica essa rappresenta la seconda festa più importante ‐ "festa della interruzione del digiuno", è chiamata ‐ ed avviene tra la prima domenica di maggio ed il lunedì seguente, al termine del Ramadan), la prima fase dell'accordo è quella generalmente più semplice; la seconda, invece, è meno facile visto che prevede la richiesta di rilascio dei detenuti palestinesi che scontano l'ergastolo, compresi quelli che sono stati arrestati di nuovo dopo il rilascio come parte dello Shalit (contratto di scambio dei prigionieri, viene detto in ebraico) e la loro condanna all'ergastolo è stata ripristinata. La mediazione avviene di solito da parte di mediatori neutrali (egiziani, spesso, ma anche europei come svizzeri, tedeschi, russi)". In quel caso si trattò di scambio tra corpi vivi, per così dire (o "esistenti in vita", parafrasando per assonanza quel documento che in Italia certifica che la persona a cui è intestato è viva e vegeta nel momento in cui il documento stesso venga rilasciato da una autorità o amministrazione pubblica per qualsivoglia motivo e determinati usi). Emblematico è, tuttavia, nonché alquanto paradossale (a proposito di anime buone, corpi senza vita o cadaveri che dir si voglia) quanto accadde la scorsa primavera per Zakaria Hamayel, ucciso da un proiettile sparato dai soldati israeliani durante una protesta contro l'espansione dell'insediamento coloniale "Eviatar/Aviatar", nel villaggio di Beita, a sud di Nablus nel nord West Bank: i funerali del giovane, infatti ‐ come reca scritto la notizia stessa del fatto ‐  vennero svolti in tutta fretta perché i suoi familiari temevano che il corpo fosse preso dalla polizia e fatto sparire. Mi sembra non sia del tutto inappropriato scrivere quanto segue: "Ai Palestinesi (oltre che vivere) non è permesso neanche morire in pace, o meglio intraprendere il viaggio verso la dimora eterna per essere seppelliti!". Cécile Barbou rilasciò una intervista telefonica ‐ di cui detto sopra ‐ al giornalista Ugo Tramballi, inviato a Gerusalemme de IlSole24Ore: l'articolo che la contiene apparve il 10 gennaio 2009 sul quotidiano, cioè qualche giorno dopo la testimonianza da Gaza dello stesso Montagnini ma poco prima ‐ evidentemente ‐ della sua partenza dall'Italia. Tramballi è autore, tra l'altro, del libro "L'ulivo e le pietre, Palestina e Israele: le ragioni di chi? Racconto di una terra divisa", apparso nel duemiladue ad opera dell'editore Marco Tropea, Milano. Così scrisse per introdurre l'intervista: "Non sono quì per definire cosa sia una emergenza umanitaria. Ma con tremila feriti negli ospedali, e non sappiamo quanti ce ne siano nelle case, la situazione è molto dura e complicata. Vista da dentro Gaza, come la vede Cécile Barbou, la polemica se nella Striscia ci sia una emergenza umanitaria o meno ‐ Israele dice no ‐ è irrilevante. Cécile, la coordinatrice dei sei dottori e dei due infermieri della missione di Medici Senza Frontiere nella Striscia, può essere raggiunta solo per telefono perché Israele continua a negare ai giornalisti l'ingresso a Gaza. E non ha molto tempo per stare all'apparecchio".
‐ Quanti feriti state curando?
‐ Fra i centocinquanta e duecento. Il problema è che la gente ha troppa paura per uscire di casa e venire da noi. Siamo noi che andiamo da loro. Anche sotto le bombe. La situazione è molto, molto dura. I bombardamenti sono incessanti, anche se da qualche giorno sembrano un po' meno pesanti. Da quando gli Israelian hanno iniziato l'offensiva terrestre i morti e i feriti sono molti di più. Soprattutto i civili. E raggiungerli è difficile: bombardano le ambulanze, tirano sugli infermieri. La situazione non è più accettabile.
‐ L'ONU ha cessato le sue attività a Gaza, e voi?
‐ Teniamo aperto il nostro ambulatorio ma pochi riescono a raggiungerlo. Nella nostra tenda accanto all'ospedale di Shifa, il più grande di Gaza, stiamo aspettando una équipe chirurgica che non riesce a passare la frontiera a nord (np. quella di cui parla Montagnini nella sua testimonianza). Qui i medici sono troppo stanchi: in sala operano due pazienti alla volta. E le persone da curare aumentano senza sosta.
‐ Tre ore di tregua umanitaria sono sufficienti?
‐ Non è vero, non c'è tregua. Bombardano anche durante quelle tre ore. E quando ci sono feriti nelle strade, il soccorso dovrebbe essere garantito ventiquattro ore su ventiquattro. Se hai tre ore, e non abbiamo nemmeno quelle, le persone che andiamo a raccogliere il giorno dopo non sono dei feriti ma dei morti E' la legge internazionale che impone di garantire accesso umanitario ai feriti. Ma non c'è accesso: molti soccorritori spesso finiscono nella lista dei morti.
‐ Qual'è lo stato d'animo della gente?
‐ Da una settimana non c'è elettricità e questo significa niente luce, ma anche niente acqua, E'difficile trovare da mangiare. La gente ha così paura che non esce di casa. E' disperata. Ho incontrato madri che si augurano di morire presto insieme ai loro figli per smettere di soffrire. Quando una madre spera questo a quale futuro possiamo pensare? Spero che voi giornalisti riusciate a entrare a Gaza presto. Abbiamo bisogno di voi, che vediate e raccontiate al mondo intero quello che sta succedendo quì.