Strani propositi

Acireale, 2 marzo
Lunedì mattina

L’acqua nella brocca è come minimo dell’altro ieri, ma non me ne importa un accidente. La verso nel catino e mi lavo la faccia. Senza nemmeno asciugarmi, infilo alla meglio la camicia nei pantaloni, e intanto metto le scarpe. Rinuncio alla cravatta. Il panciotto e la marsina li indosso in fretta e furia. Troppi bottoni, che non ho proprio voglia di allacciare. Vestirmi, d’altronde, sta diventando un’operazione sempre più fastidiosa. Per tre anni ho indossato un semplice saio, calzato comodi sandali, e agghindarmi da barone oggi mi complica la giornata.
Lo zio Filippo è preoccupato per me. Dice che se la mia rinuncia all’ordine dei francescani di un anno fa mi aveva già scombussolato l’equilibrio mentale, da due mesi a questa parte, da quando ho perso l’uso della parola, addirittura do i numeri. La sua, del resto, è anche la preoccupazione di un medico.
Io so solo questo: da due mesi una rabbia silenziosa mi colma il cuore. Una rabbia che rivolgo a me stesso e al mondo intero in egual misura.
Scoprirmi invalido la mattina mi fa gelare il sangue nelle vene. È come svegliarsi sepolto vivo in un sotterraneo.
Se cerco di parlare la lingua fa cilecca, le corde vocali non emettono che suoni gutturali, raschi pietosi, slabbrature acustiche.
I miei genitori sostengono che mi si è inceppato il cervello, non la lingua. A sentirli, non si diventa muti da un giorno all’altro. E sono certo che per la mia improvvisa menomazione si sono dati la più facile delle risposte. Il giusto castigo di Dio, non riesco a pensarne una diversa. Fatto sta che, se prima non volevano che mi ordinassi frate, oggi si scandalizzano perché ho rinunciato alla vita ecclesiastica.
Credo di averlo capito, oramai: per i miei genitori sono e sarò sempre un problema. E con la scusa che lo zio è medico e dovrà occuparsi della mia salute, l’hanno in parte risolto, il loro problema. Scaricandomi al caro parente. E io mi sono sentito come un pallone che viene allontanato con un calcio.
Ma devo smetterla di stare a ragionare sempre su queste cose. Piuttosto, devo sbrigarmi.
Alzo la ribalta dello scrittoio, afferro la piuma d’oca e la intingo nella boccetta dell’inchiostro. Per un istante la punta della penna resta sospesa sopra il foglio: ho sempre odiato la menzogna. E scopro che non è nemmeno necessario parlare per servirsene.
Sollevo lo sguardo: la mia faccia riflessa nello specchio è scarlatta fino agli orecchi.
Esco a sbrigare delle commissioni, scrivo. Poi lascio il foglio in bella vista, in modo che gli zii possano notarlo.
È un’idea folle, lo so. Rimango persino stupito che i miei piedi mi portino verso l’armadio, dove ho nascosto il coltello che penso di usare per il mio scopo. Lo recupero dalla cassettiera in basso, con tutto il fodero fissato stabilmente alla cintura da un passante posteriore. Mi viene subito l’istinto di rimetterlo al suo posto. Lo sfilo invece dalla custodia e ne tasto la punta: un improvviso nodo di rabbia mi torce lo stomaco. Devo punire quel bastardo di Salvatore Berti. E per il tipo di servizio che ho in mente di regalargli, dovrà essere un religioso a punirlo. È giusto così. In fondo, un religioso è stato offeso.
Nel seminterrato dovrebbe esserci un mio vecchio abito da frate. Spero solo che zia Lella non gli abbia cambiato posto.
Rimetto il coltello nella custodia e mi allaccio la cintura alla vita. Poi mi abbottono il panciotto e la marsina. Quando ho finito accendo il lume e mi avvio giù per lo scalone.
Nel cortile m’investe il profumo di erba nuova e fiori. È una bella mattinata che promette di diventare calda. Alzo lo sguardo alla finestra della mia stanza: le mura sono ricoperte di licheni e rampicanti così fitti che un brivido mi sale lungo la schiena. Ho voglia di sentirmi addosso la luce del sole. Ed è con tale brama che osservo la costruzione quadrangolare che si erge oltre la siepe: le sue mura, quasi bianche, risplendono come diamanti al sole. La parte dell’edificio più in alto, fino allo spiovente a visiere aggrottate, dove esiste l’ultimo piano di finestrelle della servitù, è battuta violentemente dal sole che ne affila gli spigoli. Dio, bruciano come fuoco.
Mi avvio per il vialetto subito a sinistra, tra le aiuole. Giunto al fontanone devio a destra e prendo per il colonnato che porta all’ala est della proprietà, quella immersa nel sole e dove peraltro si trovano le scuderie e i vecchi depositi. Meno male che il portone d’ingresso è sempre aperto, così non ho difficoltà a entrare e a percorrere il vestibolo. Alla fine del lungo corridoio, dentro il palazzo, c’è il cortile; prima di attraversarlo voglio assicurarmi che nessuno mi veda. Alzo gli occhi: via libera.
Scendendo le scale del seminterrato, un topo si mette in fuga proprio sotto i miei piedi. Per poco non mi rompo l’osso del collo. Avanzo nell’insieme di stanze tenendo alto il lume. Coperti da spettrali teli bianchi, ingombrano dappertutto poltrone, sedie dall’alta spalliera, tavoli e ciò che a prima vista mi sembrano quadri enormi. Alcuni mobili pesanti sono posati contro la parete in fondo, sotto una fila di finestre strette e lunghe che toccano il soffitto. La cassapanca è al solito posto: nel cavo della parete, sotto una montagna di cianfrusaglie.
Sto facendo la cosa giusta, mi dico.
Per avermi umiliato davanti a tutti, Salvatore Berti deve pagarla cara. Ho ancora nelle orecchie l’insulto che mi ha vomitato al Circolo: – Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale – ha detto. Le vili parole e il tono usato mi hanno dato la sensazione di essere stato graffiato a sangue. Sono stato tentato di afferrarlo per il collo e di morsicargli la faccia, ma ho osservato i due brutti ceffi che quel porco si porta sempre dietro, rammentandomi il dettaglio che girano sempre armati. Il giorno seguente ho fatto recapitare un messaggio direttamente nelle sue mani: un invito al duello con uso del coltello e giacca, in spazio chiuso. Ma lui ha rifiutato, sostenendo nel messaggio di risposta che non avrebbe mai combattuto con un frate disertore, per giunta minorato e squilibrato mentale.
È impossibile descrivere l’emozione velenosa che mi ha invaso in un istante.
Determinato a fargliela pagare, non mi è rimasta che una scelta: andare a stanarlo a Monterosso, nella sua scuderia di cavalli.
Appendo il lume a un chiodo fissato alla parete e mi affretto a liberare la cassapanca dagli oggetti. Infine la apro con cautela. Mi auguro solo che non salti fuori qualche altro topo. Sposto coperte, tovaglie, diversi indumenti. Avvoltolato in un sacco, finalmente trovo l’abito da frate. Ci sono anche i sandali e la catenella con la croce di legno. Rimetto tutto nel sacco, spengo il lume e mi avvio alle scuderie.
È una pazzia, continuo a dirmi.
Del servo di Dio che sono stato, ammantato di fede, non è rimasto un solo briciolo. Al suo posto oggi c’è un essere vile, scontroso con tutti.
Sono entrato nel convento dei cappuccini di S. Maria degli Angeli animato dall’intenzione di farmi guidare dalla volontà di Dio. Purtroppo, nei tre anni in cui sono rimasto, non ho trovato la benché minima traccia di Lui. Non volendo seguire la volontà di qualcun altro, ho preferito riprendermi la vita che avevo lasciato. Quella del barone Alfio Coviello.
Ma da due mesi circa, privato dell’uso della parola, qualcosa è scattato in me. L’ira è il sentimento che più mi si è palesato. Dominato dall’irascibilità, ho scatenato risse furibonde, anche per futili motivi. Ho ceduto alla cieca violenza, percorrendo i sentieri della vendetta. Sentieri che, davanti ai vecchi residui disseccati e polverizzati di me stesso, mi lasciano oggi la sensazione tragica di ciò che sono diventato: un emarginato dalla fede.
Per la miseria! Ma che cos’è questo, un delirio? Continuo ad assillarmi con questi ragionamenti.
Entrando nelle scuderie sono investito dall’odore di biada e di letame. Tuttavia, il corridoio sul quale si affacciano i singoli ricoveri dei cavalli è pulito. Appena mi vede Caramella, il mio baio preferito, allunga la testa per salutarmi. Lo faccio uscire dalla cella e lo conduco nell’area spaziosa dell’ambiente. Mentre mi accingo ad attaccarlo al calesse, Caramella scarta da un lato e prende a raspare il terreno con gli zoccoli. È evidente che percepisce il mio nervosismo. Lo tranquillizzo accarezzandogli il collo.
Uscendo dalla rimessa Eugenio, il capo stalliere, mi viene incontro con aria incerta. Probabilmente si sta chiedendo se per la mia uscita piuttosto mattiniera non sia il caso di avvertire gli zii. Gli faccio cenno col capo di aprirmi il cancello del portico. Eugenio obbedisce, e va a piantarsi a un lato del passaggio.
Batto le redini e faccio compiere un largo cerchio al calesse puntando verso il portico. Eugenio mi saluta con la mano, sembra poco persuaso.
Il sentiero per arrivare alla scuderia dei Berti è quello per le colline Monterosso: un’ora e mezza di strada carreggiabile, quasi tutta in salita.
Lungo i bordi della strada operai dalle facce consumate si avviano pazienti sui luoghi di lavoro.
Più avanti, con i loro pesanti fagotti alle spalle le lavandaie si recano al lavatoio pubblico. Lo zio ha molta considerazione di loro. Dice che fanno un lavoro duro: sempre curve e con le mani nell’acqua fredda, hanno continuamente dei dolori alla schiena, al collo, alle braccia. C’è fra loro anche chi porta in mano il vaso da notte che dovrà svuotare nel grande pozzo di scarico fuori dal paese.
Tiro le redini e imbocco un sentiero sulla destra che conduce a una caverna adatta per il mio scopo. L’ho scoperta anni fa cercando resti antichi con alcuni amici.
Degli spaccapietre stanno imbrecciando la strada lungo un lato del percorso. Uno di loro interrompe il suo lavoro, per guardarmi. Lo riconosco, è Serafino Gangemi, in passato ha lavorato nella proprietà dello zio. Strano, avevo sentito dire che era morto qualche anno fa. Evidentemente non si trattava di lui.
Gli occhi di Serafino sembrano velati da un’invisibile nuvola di fumo. Mi saluta scoprendosi il capo. Un gesto gentile, umile, che mi cala in un fuggevole sentimento di religiosità. Un sentimento che riesce a turbarmi come un sentore familiare portato per caso dal vento.
Se le cose andranno come credo, quando ripasserò da qui Serafino avrà davanti agli occhi un assassino.
Rispondo al saluto con un cenno della testa. Sprono il cavallo, temendo quasi che Serafino possa udire il battito del mio cuore contro la cassa toracica, divulgatore di sentimenti che invece devo tenere nascosti.
Il sentiero è a tratti chiuso tra pareti alte e ripide, a tratti affiancato da alberi e da margini erbosi di là dai quali si aprono terreni incolti. Do uno sguardo dietro di me: gli zoccoli del baio alzano nugoli di polvere dalla pista sterrata.
Arrivo a destinazione. L’ingresso della caverna è seminascosto dalla vegetazione, situato in un punto dove la strada forma una larga rientranza.
Mi assicuro che non ci sia nessuno intorno. Libero il baio e spingo il calesse tra la vegetazione, fin dentro la caverna. Poi traggo fuori gli indumenti religiosi dal sacco. Mi tolgo gli abiti e li arrotolo, facendone un involto. Metto tutto dentro il sacco e lo nascondo sotto il sedile del calesse. Nella caverna c’è poca luce, mi porto nella rientranza. Mi allaccio l’arma attorno alla vita, mi faccio calare dalla testa il saio, lego e stringo la cordicella. Metto la catenella con la croce di legno al collo, infine indosso i sandali. Sono pronto.
Salvatore Berti non può permettersi il lusso di deridere la mia fede impunemente. La lama del mio coltello berrà il suo sangue.
Quando mi avvicino a Caramella, per montarlo, imbizzarrisce, si solleva sulle zampe anteriori. Poi sposta il peso da uno zoccolo all’altro, inclinando il capo per tenermi d’occhio: percepisce ancora la mia rabbia. Non ha mai fatto così. Mentre Caramella scarta di lato e appoggia gli zoccoli a terra, riesco per un pelo ad afferrare le redini. Lo accarezzo sul fianco, per rasserenarlo. Attendo che il suo respiro si calmi, e lo monto. Per un po’ si agita sotto di me, poi si tranquillizza.
Mi calo il cappuccio sulla testa e mi rimetto sul sentiero.
La gente per strada incontrerà un fraticello in sella a un cavallo, non più il giovane barone Alfio Coviello a bordo di un calesse da passeggio.

Un vecchio viandante mi ostruisce il sentiero. La barba canuta spicca contro la stoffa scura del suo abito.
– Fermatevi, vi prego! – dice agitando le mani. – La povera Marta ha bisogno di una preghiera. Sta morendo.
Il sole troppo intenso irrompe alle sue spalle, ammantandogli il viso d’ombra. Così non riesco a vedergli gli occhi.
Gli domando dove si trovi la donna, ma me ne pento subito. Non so cosa mi sia passato per la mente. Non sono più un frate, e considerati i miei propositi di vendetta sono il meno indicato a dare conforto spirituale.
Il vecchio allunga il braccio, accennando il percorso alle mie spalle. – Dietro la curva incontrerete una vecchia casa. Marta è lì dentro.
Mi volto. A un centinaio di metri la strada volta a sinistra.
– Non è necessario che bussiate, spingete il portone ed entrate – continua lui. – Ma pensateci bene, frate, perché se doveste decidere di assistere Marta nella sua agonia dovrete pregare in mia vece.
Come se quella appena conclusa fosse la più sensata delle conversazioni, nel più normale dei giorni!
È soltanto lo sragionare di un povero vecchio, mi dico. Non è da escludersi che, avendomi riconosciuto e sapendo della mia rinuncia alla vita religiosa, il viandante abbia voluto manifestarmi le difficoltà psicologiche cui andrei incontro nello spacciarmi in ciò che non sono più. Ma non sembra avere tanta logica neanche il mio ragionamento.
Rifletto sul da farsi.
In fondo, una verifica sul posto non mi costa nulla farla. Magari la donna non è così grave come sostiene il viandante. E chissà che un aiuto concreto alla fine non possa consistere nel far intervenire un medico. La mia coscienza, in ogni caso, si rifiuta di disinteressarsi di quella donna.
Spingo il baio a compiere dietro front, lo incito e mi avvio nella direzione indicata dal vecchio.
Voltata la curva, all’improvviso mi giunge alla vista una vecchia casa di pietra. È tra gli alberi, un po’all’interno rispetto al margine della strada ma visibile dal sentiero.
La casa respira come fosse una creatura viva. Forse è un pochino decadente, tuttavia i fiorellini gialli che crescono tra le pietre, la rendono graziosa.
Mentre lego le briglie a un palo nei pressi dell’entrata, si leva un forte vento. Una goccia di pioggia mi cade sulla mano. Lancio uno sguardo al cielo, alle nuvole che si ammassano rapidamente. Col vento, mi giunge alle orecchie un suono che è a metà tra un grido e un lamento.
Entrambi i battenti del portone sono chiusi. Mi vengono in mente le parole del vecchio. Non è necessario che bussiate, spingete il portone ed entrate.
Appoggio le mani a palmo aperto contro il legno e spingo. Il battente si apre, e sono dentro. La costruzione è malridotta, con molte mattonelle del pavimento traballanti, le persiane alle finestre curvate. La luce filtra dall’esterno attraverso le imposte ed è in parte assorbita da un vecchio mobilio in disuso, cupi arazzi e busti di personaggi classici disposti lungo le pareti. Davanti a quelle menti eccelse, il mio cervello svolazza come un uccello in gabbia.
Delle persone campeggiano al centro della stanza. Stanno tutte in piedi, le mani strette in preghiera. Saranno circa una decina.
Il rumore di qualcosa che dall’esterno sbatte contro la casa e i chiari lamenti di una persona, riempiono il silenzio dell’ambiente. I singhiozzi sembrano provenire dalla stanza laterale sul retro, all’estremità opposta dell’atrio.
Preferisco tenere il cappuccio calato sulla testa, anche se è poco probabile che qualcuno mi possa riconoscere. In realtà, però, nessuno s’interessa a me. Per attirare garbatamente la loro attenzione, simulo un colpo di tosse e dalla mia gola esce un suono pietoso.
Un uomo alto con una massa arruffata di capelli scuri si stacca dal gruppo e mi affronta immediatamente.
– Non c’è più nulla da fare –sentenzia.
Stagliandosi davanti alla finestra, l’uomo blocca la già debole luce proveniente dalle imposte, apparendo ai miei occhi come una sagoma incerta. E per quanto l’oscurità nella stanza non lo consenta, ho immaginato chiaramente l’espressione affranta con cui l’uomo si è rivolto a me nel pronunciare quelle parole.
Una donna robusta, con un fazzoletto in testa, si stacca anch’essa dal gruppo e si avvicina.
– Su, venite – dice afferrandomi una mano. – Dobbiamo pregare per Marta.
– Sì, buon fraticello – dice l’uomo affiancandomi dall’altro lato e calandomi un braccio sulle spalle – se deve morire, sia almeno in grazia di Dio.
Mi fermo. Li interrogo uno per volta con lo sguardo.
– Un maledetto cane rabbioso l’ha morsa a una mano – spiega la donna con voce lamentosa.
– Abbiamo mandato a chiamare un medico, ma è inutile, ormai – dice l’uomo con lo sguardo lontano.
Marta giace sotto le coltri, il viso pallido sopra una camicia da notte con il colletto a pizzo.
Una vecchietta vestita di nero è inginocchiata accanto al letto, raccolta in preghiera.
Mi avvicino.
La vecchietta si accorge di me. Si alza. Si mette di lato, per lasciarmi spazio. Quando le sono accanto la fisso, ma gli occhi in cui mi ritrovo a guardare sono sbarrati, come se contemplassero un punto indefinito oltre le mie spalle.
Marta è in preda agli spasmi muscolari. Muove continuamente la testa e gli occhi. È tutta sudata, disturbata nel respiro. La ferita è alla mano destra e arriva al metacarpo, dove nonostante il gonfiore e il tessuto slabbrato e illividito, sono ben visibili i punti in cui i denti della bestia sono penetrati nella carne.
Marta non ha scampo. Dallo zio so che più vicino al cervello si trova il morso di un cane rabbioso, più pericolo c’è di morire.
Le tasto la fronte. Scotta.
Marta reagisce al mio contatto arrestando i suoi occhi cerchiati sui miei. Sembra cosciente, ora.
– Dio vi ha mandato a me – dice con voce fievole.
Nascondo il volto nell’ombra del cappuccio, sprofondando nella vergogna. Poi mi giro, cercando di fuggire allo sguardo di Marta. I tre dietro di me si sono messi in ginocchio, mani strette in preghiera.
– Non dite un’orazione? – chiede la donna con il fazzoletto in testa.
– Sì, fate in modo che possiamo ripeterla insieme a voi – supplica la vecchietta.
– Coraggio – esorta l’uomo.
La corda che stringo alla vita e la croce di legno che porto al collo mi dicono che sono un frate. Deglutisco, per ricacciare indietro il nodo di tensione che mi affligge l’anima.
– Come puoi, o mio Dio… – la mia voce è un sussurro. –Come puoi mettermi in una simile situazione? Non ti bastava avermi reso un muto?
– Recitate più forte, per favore. Da qui non udiamo – dice l’uomo alle mie spalle.
– Sì, per favore – dicono a ruota le due donne. – affinché possiamo ripetere le orazioni insieme a voi.
Senza nemmeno rendermene conto, dopo due mesi di silenzio, ho parlato. E, nel farlo, ho levato la mia voce contro Dio. Che io sia maledetto.
Mi arrivano in soccorso le parole del vecchio viandante. Ma pensateci bene, frate, perché se doveste decidere di assistere Marta nella sua agonia, dovrete pregare in mia vece.
Crollo in ginocchio. Pregare in vece di un’altra persona in fondo mi dà coraggio, e recito il Padre Nostro in nome del vecchio viandante. La voce esce forte e chiara.
Dietro di me i tre ripetono. Qualche istante dopo, ripetono anche le persone nell’altra stanza.
Marta mi afferra un braccio.
– Dell’acqua, per favore. – Anche la sua voce è forte e chiara.
Piomba nella stanza un silenzio gravido di incredulità.
La donna con il fazzoletto in testa si precipita al capezzale con una brocca nelle mani, in un turbinio di gonna. Versa dell’acqua su un panno e lava il viso della malata. L’uomo alto con la massa arruffata di capelli si fa largo con un bicchiere, che viene subito riempito dalla donna con il fazzoletto in testa. La vecchietta toglie il bicchiere dalle mani dell’uomo e lo porta alle labbra di Marta, sorreggendola con una mano dietro la testa. Marta beve, dimostrando a tutti noi che si è riavuta.
La vecchietta le mette una mano sulla fronte.
– La febbre è scesa!
– Non è possibile – dice l’uomo dopo aver verificato lui stesso.
– Stava morendo, un minuto fa – afferma la donna con il fazzoletto in testa.
– Come vi sentite? – chiedo a Marta.
– Ho tanta fame – risponde lei. E mi abbozza un sorriso.
Le tocco la fronte. È vero, la febbre è calata. Quelli dell’altra stanza accorrono, gridano tutti eccitati la loro gioia. Tutti vogliono vedere Marta. Tutti la vogliono toccare. C’è concitazione.
Nessuno bada a me. Mi guardo intorno. L’occasione per sgattaiolare via senza che nessuno se ne accorga è troppa ghiotta, e non me la lascio scappare.

Serafino è seduto sul mucchio di pietre già smazzate. È avanzato parecchio con il lavoro. Mi ha riconosciuto, nonostante il saio che indosso, nonostante sia in sella al baio e non a bordo del calesse.
Ma l’occhiata che stavolta mi lancia potrebbe sbriciolare una pietra. Non so perché ce l’abbia con me.
Se potessi guardarmi allo specchio, probabilmente scoprirei che un rossore di vergogna mi copre il volto. Mi sforzo di capire dove si annida il velenoso fantasma che mi fa sentire così in colpa.
Colgo un guizzo nello sguardo di Serafino. I suoi occhi sembrano appuntati sulla cordicella che stringo alla vita.
Per un motivo a cui non riesco a dare un nome, mi trovo a portarmi io stesso una mano alla vita. E all’istante mi sento premere sul fianco l’oggetto freddo e duro che mi porto addosso.
Ripenso a Salvatore Berti, al suo sarcasmo, alla mia vendetta. Sento aleggiare lo spirito maligno intorno a me.
Introduco le mani sotto il saio e mi slaccio la cintura con l’arma. Faccio ruotare il braccio più volte e lancio tutto oltre il ciglio della strada.
Una luce diversa si stende ora sulla faccia di Serafino: lo sguardo pungente diventa finalmente benevolo.

Gli zoccoli del baio risuonano monotoni sul terreno. Sottili lame di pioggia iniziano a sferzarmi il viso. La previsione di una giornata calda era solo una mia segreta speranza.
Sotto la pioggia innocua e grigia che mi bagna scrosciante l’abito da frate, i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo.