Topsy Turvy

Si guarda allo specchio. Mi guardo allo specchio. Si lava il viso. Mi lavo il viso. Si accende la sigaretta. Mi accendo la sigaretta. Va in camera. Vado in camera. Si strofina gli occhi. Mi strofino gli occhi. Si guarda la pancia. Mi guardo la pancia. Sputa per terra. Sputo per terra. Ora ricorda.
Ora ricordo.
La mia festa, i miei diciotto anni, li ho festeggiati una sera, con gli amici più stretti e con persone che non ho mai più rivisto.
In quei giorni ero pervaso dalla lussuria ingorda del protagonismo. Vagavo tra supermercati facendo incetta di carichi pesanti targati alcol, in trepidazione e in attesa di godere della mia gloria. Nella mia testa tutto era già molto chiaro: sarei stato sommerso da regali, auguri invidiosi, occhiate libidinose da parte di tutte le puledre in calore. Nel delirio della fantasia vanitosa della mia mente, il vortice degli invitati gridava a gran voce: “Gloria a te grande Luca”.
Avevo programmato tutto: cosa indossare, cosa bere, come ubriacarmi, quando vomitare e perfino la ragazza che mi sarei portato a letto.
Naturalmente, come tutti i programmi che si rispettano, qualcosa andò storto e la mattina del mio “giorno” feci una scoperta terribile. Perso nei meandri del mio ego, non mi accorsi che la maglia, la mia fantastica maglia, la maglia che avrei dovuto indossare durante la serata, era irrimediabilmente macchiata ad una manica.
Macchia d’olio, era la diagnosi. La ricordo ancora, in tutta la sua forma.
Ero perduto, ma non c’era tempo da perdere.
Allarme rosso.
La cattiveria assopita in me si svegliò e cominciò a sogghignare, come una suocera che assiste alla separazione del figlio, con la nuora tanto odiata.
Godevo.
Povera macchia d’olio, aveva le ore contate.
Lavanderia!
La lavanderia si trovava lungo una via trafficata, dove uomini d’ufficio e gente di ogni tipo affollavano bar e ristoranti.
Ore 15,30. Chiusa. Aspettai l’apertura.
La proprietaria arrivò dopo qualche minuto.
Lei aprì e io entrai.
L’odore forte delle misture utilizzate per resuscitare i vestiti, mi travolse. Per un attimo la testa girò, ma solo per un attimo, poi mi guardai intorno.
Pareti azzurrine evocavano la sensazione del pulito. Il bancone occupava tre quarti della stanza. Il quarto rimanente, alla sinistra della porta d’entrata, faceva spazio alla “macchinarulloappendiabiti”, mentre una tendina di stoffa copriva il retro.
Chiesi subito se era possibile, entro qualche ora, lavare la mia importantissima maglia e con un viso da ebete, mi rivolsi alla donna.
“Festeggio i miei 18 anni e vorrei indossarla.”
La donna scrutò la macchia e disse:
“Non è possibile.”
“Cosa?” Risposi con voce quasi disperata, senza nascondere una sfumatura di rabbia.
La donna accennò un sorriso, abbassò lo sguardo e allungò le mani verso il bancone, avvicinandole al registratore di cassa che si trovava alla sua sinistra. Sembrava che cercasse qualcosa poi sussurrò tra sé e sé: “Trovate!”.
Da una piccola scatola rossa, tirò fuori un pacchetto di sigarette. 
In modo frettoloso e nervoso ne avvicinò una alla bocca. Seguì la ricerca di un accendino e dopo averlo trovato, accese la sigaretta.
Mi fissò e con un sorriso canzonatorio disse:
“Mi dispiace mio piccolo Lord, ma non posso, ho troppo lavoro per oggi, la prossima settimana.”
Tentai di convincerla ma la donna restò ferma sulla sua decisione.
Non potevo crederci. Io il grande Luca, atteso e conteso, il desiderato, il quasi maggiorenne, il ragazzo che non deve chiedere mai, se non ai genitori la paga settimanale, si trovava alle ore 15.45 di un venerdì pomeriggio dentro una lavanderia, sconvolto e attanagliato dal dubbio logorante: “E adesso…cosa indosserò?”
Mentre una grossa fetta del mio cervello brontolava per la risposta della donna, regalandole aggettivi terribili, sentii un impulso sconosciuto invadere i miei nervi.
Cominciai a sentirmi nauseato.
Le gambe tremavano e uno strano calore partiva dal centro dello stomaco. Il respiro diventò faticoso.
I miei occhi, come guidati da uno spirito maledetto, furono costretti a fissare la donna.
La analizzai.
Non era più una ragazzina: 40 anni circa.
Una vecchia, pensai.
Il viso era segnato, rughe intorno agli occhi, intorno alla bocca, sul collo.
Era alta, con qualche chilo di troppo. Il seno era prorompente e dai pantaloni larghi, non certo femminili, si intravedevano le cosce ben tornite.
I capelli corti, tinti di rosso, contrastavano con la sua carnagione olivastra e gli occhi neri e profondi, completavano una figura umana non certo entusiasmante.
Una visione scadente dell’essere donna.
Mi sentivo angosciato dalla presenza di lei.
Volevo lasciare quel posto.
Ripresi la maglia, e senza salutare mi diressi verso un’altra oasi del pulito.
Girai l’angolo, ma all’improvviso cominciai a sentirmi debole.
Mi accasciai e il mio stomaco tremò.
E vomitai, vomitai, vomitai.
Disorientato dall’inaspettato malore mi rialzai, mi feci forza e andai a casa di Mario, il mio migliore amico.
Gli chiesi una maglia in prestito.
Una volta a casa preparai a fatica tutto per i festeggiamenti.
Ogni cosa andò secondo i miei piani.
La domenica successiva, il vero giorno del mio compleanno, mi svegliai molto tardi, sudato ed eccitato.
Passai la giornata a gozzovigliare, subendo le coccole sfrenate di tutta la mia famiglia.
La sera, distrutto e annoiato, andai a dormire molto presto.
E quella notte il cugino malefico dei sogni rigurgitò su di me.
Quella notte feci un incubo.
Mi trovavo in una stanza illuminata da un filo di luce. Ero davanti ad uno specchio. Nudo. Non avvertivo né freddo e né caldo. L’ immagine riflessa esaltava la mia carnagione scura. I miei occhi verdi splendevano di una strana luce. I capelli non erano del mio colore castano scuro, ma biondi. Incominciai a vestirmi. Dapprima una camicia bianca con bottoni dorati e a seguire una giacca rossa a doppio petto, un pantalone dello stesso colore e un cappello a cilindro. Infine delle lunghe scarpe bianche che superavano di molto la misura del mio piede.
Da lontano strani rumori. All’improvviso mi ritrovai in un grande spazio aperto, circondato dal deserto.
Ero sopra ad un palco.
Afa.
Dietro di me un sipario chiuso. Meccanicamente mi voltai verso una folla smisurata e cominciai a gridare come solo sa fare il più grande banditore di tutti i tempi.
“Venite, venite signori e signore, questo è il giorno più fortunato della vostra vita. State per assistere ad un vero fenomeno della natura, qualcosa che la vostra memoria non può ricordare di aver visto perché non l’avrebbe mai più dimenticato. I più impressionabili si allontanino, non potranno reggere alla vista di tale mostruosità. Alcuni di voi sverranno, mentre altri scapperanno, chiedendosi come la natura possa creare specie di questo genere sulla terra. Altri ancora non riusciranno a chiedere aiuto, perché rimarranno impietriti e senza parole. Allora signori e gentili signore siete pronti?”
Un boato fragoroso si levò e tutti risposero: “Sì!”
La mia voce si gonfiò e come inebriato urlai a squarcia gola:“Ecco esaudito il vostro desiderio. Raccomando a tutti di non intenerirsi, un essere così non può avere un cuore e neanche sentimenti.”
Mi avvicinai al sipario con passo solenne. Mi sentivo un nobile all’incontro con un reale. Afferrai la corda che avrebbe aperto il sipario e la strinsi forte. Sudavo, il mio corpo si faceva sempre più caldo. Avevo paura e ritardavo l’apertura.
Ma la folla impaziente gridava.
Voci assordanti ordinavano di dare inizio allo spettacolo.
E io aprii e vidi la cosa.
Rimasi immobile, sorpreso, interdetto, confuso.
Davanti a me c’era il fenomeno, l’orrore, il fallimento della natura, lo sbaglio degli sbagli.
Strizzai gli occhi, li sfregai e vidi la donna della lavanderia!
A stento si spostò nel mezzo del palco.
Mi guardava.
Il suo corpo deformato dal tempo disgustava e allo stesso tempo nutriva la vista avida del pubblico, che esplose in risa impietose.
Lei si girò verso di me.
I suoi occhi neri erano sbarrati, si leggeva il terrore dentro.
Sembrava chiedermi: “Ora cosa mi accadrà? Non ho fatto nulla, perché ridono di me? Perché tu lasci che accada tutto questo? Aiutami, ti prego.”
Dentro di me si scatenò una tempesta di emozioni, una battaglia di nervi contro nervi che trovò sfogo in un’unica, sottile e salata lacrima bianca.
Un uomo gridò senza pietà: “Sei un mostro!”
Poi tirò una buccia di banana e tutti seguirono il suo gesto, lanciando ogni sorta di oggetto.
E io corsi.
Corsi verso la donna.
Corsi senza pensare, per diventare il suo scudo.
Ma sobbalzai all’urlo di terrore di lei.
Un uomo aveva un coltello in mano ed era pronto a scagliarlo.
Gridai.
Vomitai.
Svenni.
Poi mi svegliai.
Ero salvo.
Stanco, anzi distrutto, tenni gli occhi aperti per qualche minuto e mi riaddormentai.
Speravo di tornare nel mio incubo, l’idea di lasciarla sola mi tormentava.
Ma il mio desiderio non si avverò.
La mattina dopo mi preparai istintivamente, per andare a scuola.
Durante il tragitto pensai molto all’ultima notte.
I dubbi mi attanagliavano e mi rendevano molto nervoso. “Cosa mi succede? Perché ho sognato quella donna?” pensai.
Dovevo capire.
Cambiai strada e mi diressi verso la lavanderia.
Ore 8.30. Aspettai l’apertura, lei arrivò.
Aveva il viso molto stanco, non doveva aver passato un bel fine settimana.
Mi sedetti all’interno del bar, dall’altra parte della strada, e la osservai.
Rimasi lì per tutta la mattina.
Feci lo stesso la mattina dopo.
Il mercoledì fui persino in anticipo.
Così per tutta la settimana.
Qualche giorno più tardi cominciai a spiarla di pomeriggio, per non creare sospetti a scuola.
Per un mese, ogni giorno, andavo in quella via lunga e trafficata per spiare una donna.
Non conoscevo il nome, non sapevo nulla di lei.
Avevo solo bisogno di vederla.
Un giorno non andai, mi ammalai.
Quel giorno mi mancò.
La sigaretta si è spenta.
Non vuole più ricordare. Non voglio più ricordare.
Elsa, Elsa.
Mesi dopo mi trovavo dentro il solito bar.
Qualche ora prima avevo comprato due pacchetti di sigarette.
Li posizionai sul tavolo del bar.
L’avevo osservata.
Fumava molto.
Avevo letto in qualche libro che le donne sono sensibili ai regali.
“Lei fuma e io le regalo le sigarette” avevo pensato.
E aspettai il momento giusto per donargliele.
Ma il momento giusto sembrava non arrivare mai.
Ero consapevole, come poteva esserlo un ragazzo di 18 anni, che mi ero innamorato di una donna più vecchia di me.
Avevo scoperto che Elsa, così si chiamava, ne aveva 38.
Elsa era brutta. Eppure ogni notte, prima di addormentarmi, il mio ultimo pensiero era per lei.
Per una donna brutta e più vecchia di me.
Per una donna bella e matura.
Gli appostamenti seguirono giorno dopo giorno.
Intanto conservavo le sigarette in casa.
Ma un pomeriggio decisi e come un soldato mi preparai al grande evento. Era tempo di venire allo scoperto, di regalare la mia esistenza ad Elsa.
Mi lavai, mi feci la barba, mi vestii.
Presi lo zaino e vi buttai dentro i due pacchetti di sigarette.
Cercavo di immaginare il viso di lei quando, con quel regalo, le avrei dichiarato tutto il mio sentimento.
Avrebbe pianto, poi mi avrebbe abbracciato, ne ero sicuro.
Scesi da casa e con passo deciso andai verso il motorino per percorrere di gran fretta, la solita via lunga e trafficata.
Arrivai.
Parcheggiai e una volta sceso, presi le sigarette dallo zaino.
Un respiro profondo,un passo incerto, un altro respiro.
Pronti, puntare, fuoco!
Corsi, corsi e poi corsi ancora.
La porta principale della lavanderia si faceva vicina, sempre di più, vicinissima.
Ma.
Un grido stridulo: “Fermatiiii!”
Un gatto sbuca fuori con un grande salto dalla porta principale della lavanderia.
Uno scatto, pochi secondi, la strada.
Una macchina arriva veloce.
Il gatto guarda la macchina.
La macchina guarda il gatto.
Boom!
Il gatto muore.
La mia lei esce dalla porta del retro, va verso il felino, si inginocchia, si dispera, piange.
Io sono fermo, impietrito, con due pacchetti di sigarette in mano.
Le sigarette scivolano dalle mie mani, lei continua a piangere, un pianto inconsolabile.
Il mio cuore.
La mia mente.
Buio.
Cinque ore più tardi l’Italia avrebbe vinto i mondiali di Spagna, sei più tardi un anziano signore, non ben identificato, si sarebbe avvicinato ad una battigia di una spiaggia sconosciuta e avrebbe accompagnato con il suo violino l’umore del mare.
Sette dopo, mentre Elsa piangeva nel letto, perché rimasta sola senza il suo gatto, io avrei restituito, dopo mesi, la maglia a Mario.
Accende un’altra sigaretta. Accendo un’altra sigaretta.
Il tempo passa e un altro gatto è morto.