Una Giornata Di Lavoro parte III

L’uomo azionò la leva del montacarichi su cui aveva sistemato la sedia del Pietrucci e sollevò il suo corpo, fino a portarlo all’altezza di un gancio di ferro appeso al soffitto e collegato ad una carrucola, come nella migliore tradizione della macellazione dei manzi e dei vitelli, più che di quella meccanica. I loro corpi senza vita che adesso servivano ad uno scopo diverso, spezzettandosi per divenire energia chimica spendibile da altri organismi, organismi a loro superiori nella scala evolutiva, organismi che grazie a quell’energia potevano portare avanti la conquista del mondo, la sua trasformazione, l’uccisione di altri manzi e vitelli, e così via, nel cerchio senza inizio né fine. Una macchina a ciclo continuo, in grado di produrre energia trasformandola, senza attingere a carburanti provenienti da combustibili fossili, senza bisogno di elettricità, ma solo di una forma organica di energia rinnovabile, a cui avrebbe attinto prelevando le sue pedine direttamente dal loro flipper.
Il corpo inerme, ma ancora in vita di Cesare Pietrucci venne sistemato, grazie all’azione della carrucola, alla fonte del sistema. L’uomo in tuta da lavoro provvide personalmente ad incastrare manualmente le singole parti del corpo nei punti‐chiave che avrebbero permesso al meccanismo di azionarsi e produrre un risultato. Le nozioni di anatomia che aveva assorbito, prendendo parte alle lezioni del corso universitario alla facoltà di medicina di Firenze si stavano rivelando molto utili, come previsto. Nessuno lo aveva notato, camuffato da studente trasandato, uno dei tanti che ancora non avevano afferrato il concetto di professionalità, silenzioso quanto bastava per non attirare l’attenzione, ma non oscuro al punto da insospettire o inquietare le masse, sotto la sua felpa nera con cappuccio perennemente alzato, il suo viso pallido semioscurato dall’indumento e provvisto solo di una penna e un blocco per gli appunti, su cui annotava qualsiasi concetto, imparando a schematizzare e a fare schizzi e modelli estemporanei. Per la prima volta nella sua vita avvertiva che la cultura aveva un senso per lui, che tutto il sapere sparso nel mondo non veniva disperso senza collegamento, ma si indirizzava in un unico punto, denso di informazioni, per poi diramarsi, in un canale di energia pulsante, verso il suo scopo.
La macchina era quasi ultimata, il lavoro di molti anni. Quando gli altri ragazzini pensavano a truccare il motorino o a rimediare una pomiciata il sabato sera, lui se ne stava rintanato nel garage, provando combinazioni, scoprendo nuovi e potenziati utilizzi per i materiali conosciuti, il metallo, il vetro, i microchip e le schede hardware del suo primo PC. Poi c’era stato il periodo di apprendistato presso un meccanico di provincia, e l’investimento in quel capannone. Era stata una mossa azzardata prelevare ogni giorno piccole percentuali dell’incasso per dare quel rinforzino al suo magro stipendio, necessario per ottenere il finanziamento dalla banca. Era talmente orgoglioso della sua creazione, che avrebbe voluto uscire in strada e gridarlo al mondo, partecipare ai concorsi scientifici, pubblicare le sue scoperte. Come i suoi studi sulla conduzione dell’elettricità attraverso un corpo organico ancora in vita, effettuati sui topi e sul suo gatto, che un giorno sparì senza fare più ritorno a casa, con grande dolore di sua madre, ormai rassegnata ad un mondo affettivo auto costruito e retorico.
L’ingrediente segreto della sua macchina era sistemato. Il Pietrucci non era più una persona, non esisteva più l’uomo, non esisteva più la vita pensante. Il suo corpo ora si integrava perfettamente con le parti meccaniche del sistema creato dall’uomo in tuta da lavoro, ma era ancora vitale, come un albero non ancora abbattuto, che percepisce l’ambiente intorno a sè e i cambiamenti dentro di sé ma non ne è cosciente. Le sue radici erano cavi elettrici, solo che queste radici si inserivano nel suo corpo e non servivano a procurargli linfa vitale. Nelle sue vene e arterie i componenti del suo sangue si mescolavano tramite con altre sostanze organiche esogene, che servivano agli scopi più diversi, a mantenere il suo tono muscolare, a idratarlo e nutrirlo, oltre ad una flebo speciale che iniettava costantemente piccole concentrazioni della tossina paralizzante. Senza quell’ingrediente unico tutta la brillante invenzione sarebbe andata a farsi benedire, e l’uomo in tuta da lavoro lo sapeva. ‘Dovrò trovare un sistema per fare a meno di quella tossina. Quando tutti i candidati saranno in posizione, non potrò produrla in quantità necessaria per rendere tutti… Predisposti a lavorare per me’ pensava, mentre si accingeva a sistemare gli ultimi aghi e cannule al corpo di Cesare Pietrucci. I cavi elettrici si inserivano nella carne violentandola, mentre la sua umanità veniva ulteriormente violentata dalla posizione innaturale della sua fisicità, le gambe incrociate a formare un ricciolo fra il pube e le ginocchia, tanto flessibili nella loro inerzia da spingere quasi a poterle intrecciare fra loro a formare un nodo. Le ossa e le articolazioni sembravano non avere più la loro biologica consistenza, mentre gli occhi rimanevano imbalsamati in una posizione di perpetuo terrore, spalancati, immobili, come se la visione di qualcosa di sconvolgente fosse stata l’ultima immagine che il cervello della piccola formica fosse stato in grado di processare.
“Ecco, ci siamo… quasi… devo assicurarmi che questi trasformatori facciano il loro dovere. Fra poco sei pronto, amico mio. Mi stai aiutando a creare qualcosa di grande. E arriveranno altri come te, a darti una mano, stai tranquillo.” Gli parlava come se potesse avere un contraddittorio, come si parla ad un neonato o a un animale domestico. Lo aveva reso un oggetto, una pedina senza volontà, eppure sembrava cercare il suo consenso, la sua complicità. Si arrabbiò con se stesso per il momento di fragilità, che non si confà per niente ad un uomo di successo, e lo scacciò con un grugnito da guerriero d’altri tempi, mentre si issava di nuovo in posizione eretta, sgoggiolando perle di sudore dal viso e dalla fronte per la tensione e il calore che cresceva a mano a mano che veniva utilizzata l’energia elettrica nella stanza, che seppur spaziosa, cominciava a venire influenzata dalla fervida attività umana al suo interno. La sua eccitazione era palpabile quasi quanto la sua crescente erezione. Sì, quello era il vero sballo – altro che tutte quelle troie in calore solo per correre dietro a chi può comprare loro l’osso più grande – quella era la vera soddisfazione, il vero possesso. Quelle cagnette alla prima occasione ti mollano dopo averti spennato e sanno pensare solo ai loro passatempi idioti. Ma l’opera che stava completando non lo avrebbe mai lasciato, non lo avrebbe mai tradito, o deluso. Era perfetta. E questo lo eccitava e lo riempiva di orgoglio. Passò in rassegna come un apparecchio a raggi X il sistema per un’ultima volta, scorrendo ogni snodo, ogni congiunzione e fase con i suoi occhi all’infuori, indice di uno squilibrio ormonale, presumibilmente di origine tiroidea. In questo modo, concentrandosi sui dettagli, si fece passare l’erezione. Non era ancora l’ora. Prima c’era altro lavoro da fare. Il suo prossimo, secondo candidato richiedeva attenzione immediata. Non era stato difficile procurasi il numero di cellulare del piccolo faccendiere di provincia – l’allocco aveva un sacco di conoscenze nella sua zona d’influenza e trovare una conoscenza comune era stato un passo rapido, considerando il passaparola che si attiva nei piccoli borghi in queste circostanze – ma con questo qua doveva stare più attento. L’assessore ai lavori pubblici avrebbe adottato sicuramente delle precauzioni, e avvicinarlo per osservare le sue abitudini e infine attirarlo nella sua tela avrebbe richiesto tutta la sua prontezza di spirito e d’intelletto. Una sfida che lo stimolava. Sentendo di nuovo gonfiarsi il cavallo dei pantaloni anche da sotto l’ampia tuta da lavoro, decise di cambiare aria immediatamente, per darsi una calmata. Era essenziale non fare passi avventati, dopotutto, e assecondare troppo gli istinti non avrebbe giovato a quel proposito.
Era tutto a posto; l’energia elettrica prodotta dal corpo umano in vita avrebbe fluito attraverso il circuito in uscita insieme agli schemi mentali e all’attività neuronale ‐ sottoforma di neurotrasmettitori e altre molecole‐messaggero a varie concentrazioni ‐ della corteccia, assoggettata agli impulsi prettamente esterni al corpo. Da quei sarebbero passati attraverso i trasformatori coassiali di impulso, convertendo in vari passaggi sempre più dettagliati, l’energia elettrica e chimica in singole immagini a campo ottico tridimensionale, che attraverso un calcolatore ad algoritmi probabilistici, sarebbero infine state collegate fra loro e trasmesse su uno schermo digitale ad alta definizione. Leggere la mente, come i singoli pensieri si formano, prendono consistenza per dare origine ad un’intenzione, ad una scelta, collegandosi l’uno all’altro. E da lì il sogno, il vero orgasmo: riuscire ad imbrigliare tutta quella potenziale energia creativa, finalmente liberata dalla ragnatela della mediocrità intellettuale, delle paure che fanno in modo di incatenare gli uomini con le loro stesse mani, e utilizzarla come un nucleo propulsore. Riuscire ad imbrigliare il potere della mente era come imbrigliare l’energia dell’atomo; avrebbe aperto nuove prospettive, nuovi traguardi. Era impensabile tenere per sé tutto questo… Magari le persone giuste, altamente selezionate, avrebbero capito.

‘Col tempo non potranno non vedere la genialità di quello che faccio’, pensava mentre si sfilava lentamente la tuta blu scuro da meccanico, in un angolo del suo capannone adibito a spogliatoio e separato dall’area lavoro da un acquario in prefabbricato e plexiglass. Si tirò sopra la testa il cappuccio nero della felpa che puzzava di fumo e di pioggia male asciugata, e si avviò verso il cancello, fermandosi giusto per qualche istante per spegnere l’interruttore di corrente. Presto non avrebbe più pagato una sola bolletta in più ai quei fottuti porci rimpinzati di soldi e passera e cocaina. Si voltò verso la sua creazione che ormai non poteva più distinguere – sapeva che gli occhi vitrei e abbaglianti di Cesare Pietrucci lo stavano osservando dall’oscurità del capannone, mimetizzati fra il tornio e la pompa idraulica, fra l’area montaggio e la sala software. Il pensiero gli fece correre un brivido lungo la schiena, andando a finire nel basso ventre.
Ma non sapeva che quegli occhi lo avevano messo a fuoco, e lo avrebbero atteso nell’oscurità, pronti a sfruttare il primo passo falso. Erano occhi che non sarebbero stati più gli stessi, occhi di una persona diversa, occhi di chi aveva assaggiato una nuova forma di energia.

L’uomo rientrò alla base a notte fonda. Era contrariato, come si poteva intuire dai suoi movimenti d’impulso, esagerati. Aveva sbattuto il cancello dell’officina facendolo serrare con un rombante frastuono, fradicio. La serata non si era messa bene, e ci si era messa pure la pioggia a rendere tutto più complicato. Con la pioggia è più difficile tenere d’occhio i movimenti di qualcuno; gli ombrelli, le corse improvvise verso l’auto o un riparo, la calca ancora più ingombrante del solito negli stessi posti.
L’uomo che aveva pedinato non aveva mai mangiato la foglia, tranquillo nella sua routine da uomo fatto, sicuro di sé, incline al comando e a vedere realizzati i suoi bisogni rapidamente. Sì, lui era la nuova cavia perfetta per il suo esperimento, ne era sempre più convinto, osservando i suoi movimenti, il suo modo di fare.
Ma preso com’era dal suo lavoro, dall’intensità del momento, dalla concentrazione portata dalla consapevolezza magnetica di stare per compiere un processo irreversibile, l’uomo nell’ombra non si era accorto che a sua volta, qualcuno aveva tenuto d’occhio i suoi passi, aspettando il momento giusto per fare la sua mossa.

Cesare Pietrucci aveva seguito la tracce dei suoi spasmi, fino a cavalcare le onde delle convulsioni e recuperare e imbrigliare quell’ultimo barlume di lucidità, fino al controllo dei suoi pensieri e dei suoi movimenti. Qualcosa lo aveva ridotto ai minimi termini, come poteva constatare dalla sua ridotta motilità e dalla scarsa capacità di raccogliere i pensieri; ci mise un po’ a recuperare almeno una parte delle facoltà umane. Non conservava ricordi veri e propri delle sue ultime ore, ma era certo di avere avuto un’esperienza. Se avesse creduto in una qualsiasi forma di fede, quasi certamente avrebbe concluso di aver incontrato Dio o un suo messaggero.
Invece, si affidava alla nebbia di quelle immagini sfuocate che gli parlavano in una lingua a lui incomprensibile di oggetti mai visti, e di una voce che funzionava in lui come un’ancora per la realtà. La sua voce gli penetrava nel cervello come un martello pneumatico, costringendolo a fare i conti con una contraddizione: era stato morto, eppure aveva interagito con qualcuno. Non era stato semplicemente drogato, non aveva le percezioni alterate, ma solo l’eco della loro assenza momentanea; probabilmente era stato avvelenato, ma qualcosa era andato storto, e lui aveva ritrovato lentamente la strada di casa, fino ad accorgersi dei cavi e degli aghi che penetravano la sua carne, violentando la sua volontà. A poco a poco, in quelle ore di ritrovata libertà nel paradosso dell’assoggettamento, aveva imparato a controllare la macchina entro la quale era stato immobilizzato, e ora si muoveva all’interno di quel nuovo spazio inesplorato, euforico per le sue nuove capacità di controllo di se stesso e del mondo circostante.
“Sono all’interno di un ambiente artificiale, costruito dall’uomo.. Sì, mi ricordo quel dannato capannone… Era un’officina, se non sbaglio. Ricordo di essere entrato e qualcuno mi ha immobilizzato! Quel maledetto che mi ha telefonato!! Un attimo… Ma cosa succede? Non mi sto muovendo, non posso.. Sono immobilizzato, eppure sento il mio corpo muoversi comunque! E cosa sono queste luci intermittenti intorno a me?! E questo ronzio…”
I congegni intorno a lui e dentro di lui avevano cominciato a rispondere ai suoi pensieri, alla rabbia e alla curiosità di conoscere la verità, non arrendendosi all’apatia e alla catatonia di un destino imposto da qualcun altro. Con il solo chiodo fisso della speranza nella mente aveva sfruttato ogni secondo per perfezionare e sviluppare le sue capacità in modo da avere il controllo sufficiente per innescare una reazione e sfuggire al suo aguzzino. E ora era pronto per accoglierlo, e sfidarlo.

L’uomo nell’ombra aveva trovato la sua officina in ordine, come l’aveva lasciata; ma offuscato dal suo orgoglio non aveva notato quel ronzio, possibile solo se la sua creazione si fosse attivata da sola, in sua assenza. Se l’avesse fatto, avrebbe riflettuto poi sul fatto che non era la macchina, nella sua parte meccanica ed elettronica, ad avere volontà propria, ma la coscienza, che aveva trovato un motivo per combattere, per essere di nuovo orgogliosa a sua volta.
Lo stava aspettando, come era stato atteso, nell’ombra, e nella finta innocuità. Ora Cesare Pietrucci era l’uomo nell’ombra, ed era pronto ad attuare la sua vendetta, aggrappandosi a quell’istinto di sopravvivenza che per anni aveva ignorato, perfino maledetto, per non lasciare che lo guidasse verso il vero rischio, le vere puntate che ghiacciano il sangue nelle vene e fanno sudare freddo. Ora quel gelo si era impadronito del suo corpo e della sua mente costringendolo a rapidi calcoli sulle sue probabilità di successo.
L’uomo fradicio di pioggia non aspettò di ricomporsi o asciugarsi, e non accese la luce; si diresse al trotto verso la sua creazione, alla ricerca di un nuovo motivo per passare attraverso anche quella notte, impregnata di pioggia sporca e di sudore, di smog e olio per motori e attesa snervante. Cesare Pietrucci pensò di corrugare la fronte – i suoi muscoli facciali non risposero all’impulso nervoso – in compenso, la plancia grigio chiaro a cui il suo corpo era collegato tramite i cavi che entravano e uscivano dalla sua colonna vertebrale si accese, vibrando di nuova vita.
L’uomo nell’ombra ebbe un sussulto.
“Oh che diavolo!” Esclamò con voce strozzata, mentre lo spasmo meccanico dato dalla sorpresa lo faceva arrestare di colpo, e metteva in tensione tutti i muscoli dei suoi arti e gli facevano digrignare i denti.
Prima di realizzare di essere caduto in trappola, la macchina si era già ribellata platealmente al suo padrone, rinnegando i vincoli di assoggettamento e i limiti alla fisiologia imposti dalla volontà di un altro uomo. La macchina non era più schiava di una mente, ma era la chiave per la libertà di un’altra mente.
Un cavo elettrico in attesa del suo utilizzatore senza volontà schioccò fugacemente sul pavimento, sullo stile di una frusta mossa da un domatore di leoni, che impartisce il suo ordine in un linguaggio privato fra due esseri viventi, che con duro lavoro hanno imparato a fidarsi l’uno dell’altro.
La frusta cibernetica lo allacciò all’altezza del basso torace, facendogli mancare il respiro all’improvviso e rompendogli due costole all’istante. Il suo colorito si faceva già bianco‐bluastro mentre veniva sollevato a qualche metro da terra e scaraventato contro i fusti di diluente e attivatore agli UV che si trovavano in fondo alla parete ovest del capannone, provocando un fracasso di metallo ridondante.
L’uomo non capiva, ma non si lasciò sopraffare al primo colpo. La sua furia, alimentata dalla sua ambizione distorta ed iperbolica, aveva incrementato esponenzialmente anche le sue prestazioni fisiche e la resistenza al dolore, tanto da risultarne come anestetizzato.
L’uomo si rialzò scuotendo la testa animatamente, come in un copione di una sceneggiatura, mentre si faceva leva con la mano sinistra e con la destra cercava di diagnosticare al tatto l’entità del danno subito a causa di quel primo attacco. La smorfia di dolore che seguì fu altrettanto plateale. Decise in quel momento che non avrebbe fatto la figura dello scemo, nonostante non riuscisse a capire cosa fosse andato storto, o perché la sua macchina si stesse azionando autonomamente contro di lui.
Nel frattempo, Cesare Pietrucci aveva preso il controllo di una seconda parte del suo nuovo corpo e si apprestava a sferrare un secondo colpo, quello finale.
L’imperativo categorico era liberarsi del suo oppressore, di colui che gli aveva dato una nuova forma, privandolo della sostanza. Ci stava prendendo gusto. Una voce non del tutto nuova risuonava dentro di lui come liberata dall’ovatta, mentre assaporava il retrogusto metallico, di piombo, della vendetta.
C’era quasi, era vicino il momento in cui tutti i conti sarebbero tornati, e i pezzi sistemati al loro posto, nonostante niente fosse più lo stesso, fuori e dentro.
La morsa avvolgente e fredda stava già premendo contro la faringe dell’uomo, che avvertì nitidamente l’odore di gomma semibruciata proveniente dal suo collo ormai raggrinzito, ripiegato nella carne sudicia e bluastra. Lo avvertì poco prima di perdere i sensi, mentre Cesare Pietrucci terminava il suo lavoro. Ma alla fine di quella lunga giornata non sarebbe tornato al suo appartamento. Aveva una nuova casa e un nuovo lavoro, adesso.