Una santa shampista

Quanto vorrei non avere niente da raccontarvi! Come vorrei essere quella ragazza mediocre di una volta, che sognava di diventare una star, di sposare un bel ragazzo con la auto sportiva oppure di imitare quella che, per la sua bella voce, da un salone di parrucchiera come il mio, è arrivata fino in paradiso. Sì, anche io ci andrò in paradiso ma non per la mia bella voce, ma per un grumo di veleno che mi ha preso e mi ha derubato di tutto.
Perché dovete saperlo da subito: ho un cancro. Che brutta parola, una tremenda brutta parola con cui ho imparato a convivere, che ho imparato ad utilizzare per shoccare gli altri, per vedere se anche quelli lasciano la bocca un po’ aperta, il respiro a metà e, senza accorgersene, fanno un passo indietro come se fossi contagiosa. Ma la parola non descrive bene il concetto: meglio sarebbe chiamarlo furto, rapina, completo esproprio della personalità. Perché da quando c’è lui niente più è mio, niente mi appartiene: nuda tornerò alla terra, come San Francesco, come Santa Chiara, come la santa che mi stanno facendo diventare. Perché se anche non mi faranno santa, sicuramente diventerò almeno beata, in tempi brevi, come si usa adesso. La pratica è già in Vaticano, dicono per consolarmi (accidenti a loro), e aspettano solo la mia morte per farla partire. Ma sto correndo troppo e avete bisogno che vi racconti la mia storia per capire come sono arrivata qui.
Sono stata una ragazza tranquilla e sognatrice fin da piccola, di quelle che sono felici dando da mangiare ad un criceto con il sogno di avere un giorno un cagnolino da accarezzare. A scuola non riuscivo bene: la matematica mi era del tutto incomprensibile e anche le stupide smancerie di poeti e letterati non mi convincevano a sprecare i pomeriggi sui libri. Arrivata a fatica alla fine delle medie non mi restava, aspettando un marito, che dare una mano nel salone di mia zia. E lì ho trovato la mia felicità. Nei racconti di tante signore, nei pettegolezzi di vecchie acide come nelle malizie di ragazze un po’ più grandi di me trovavo le mie soap quotidiane, tra una tinta ed un taglio, tra una manicure ed un trucco fatto così, per gioco, compreso nel servizio. E lì nacquero le migliori amicizie, la mia prima comitiva, i primi ammiccamenti di ragazzi lucenti nei muscoli come nei capelli. E ce li dividevamo nei sogni, negli sguardi allusivi lungamente studiati e provati, nelle scritte su un diario che, come quelle che andavano a scuola, tenevo sempre con me. Ben presto mi accorsi che anche i ragazzi mi guardavano, che i miei capelli come il mio corpo li faceva indugiare su di me più che su altre. Così, orgogliosa e sicura, decisi di scegliere il migliore, quello più spregiudicato e scaltro, il sogno di tutte noi.
Non ci volle molto, i ragazzi sono merce a buon mercato e così, prima ancora dei 18 anni, si poteva dire che stavamo insieme.
A me piaceva tantissimo, era bello e muscoloso, forte e fiero, sempre pronto a scattare per i miei continui rifiuti e ancora sulla mia scia quando, passata la delusione, gli tornavano le speranze, e tornava all’attacco. E questo gioco era così divertente, così appagante che quando mi decisi a terminarlo è perché ero davvero convinta che mi amasse, davvero volevo, più che dargli la prova d’amore, avere conferma che poi non mi avrebbe abbandonata.
E così fu, dopo la prima volta e la successiva ancora, sempre più innamorati e convinti che quella felicità non finisse mai. Così quando le prime nausee vennero non mi allarmai, non pensai nemmeno che lui era senza un mestiere e io senza un soldo. Ero convinta che saremmo stati felici anche in tre affrontando le difficoltà della vita con la forza del nostro amore. Ma io vivevo su un altro pianeta da cui lui cercò subito di scendere: rimase sorpreso, era convinto diceva, che io avessi sempre preso le necessarie precauzioni. Era troppo giovane per trovarsi una famiglia, era pronto a partire per l’estero per trovare la sua vita e non voleva tenersi una anzi due palle al piede. Mi fu rubata allora per la prima volta la felicità restituendomi allo schifo di vita a cui ero destinata. Cominciarono così una serie di discussioni, di scenate e litigi senza fine, parole roventi che diventarono a volte anche schiaffi, energie di giovani corpi che avevano perso il modo più naturale di esprimersi. Alla fine pareva che l’unico modo di tornare alla felicità potesse passare solo per la fine di quell’incidente, la soppressione di un frutto di un albero che non c’era. Per qualche giorno parve tornare il sereno, aspettando gli appuntamenti con i consultori, con i medici e i risultati delle analisi. Ma tante cose erano cambiate: lui pareva essere diventato più bambino, sempre più attaccato a quella sua vita giocattolo che io avevo cercato di togliergli, io che mi vedevo come madre, come possibile madre, ad accarezzare ed accudire una nuova creatura.
Avevo solo 19 anni mi dicevo, tutta una vita davanti per trovare un altro uomo e una nuova felicità. Ma le prime visite non mostrarono solo una vita che iniziava. Medici freddi e distanti, medici che avevano visto tante shampiste come me fare la stessa trafila, diventavano improvvisamente comprensivi ed affettuosi, preoccupati e scossi. Perché anche per chi ne ha viste tante non è bello pensare che la ragazza piena di vita che avevano davanti aveva i giorni contati. Ricordo la prima volta che sentii parlare di macchia nell’ecografia, e poi di una possibile ciste che divenne una formazione ignota, forse un tumore benigno. Mi aprirono per la prima volta, poco poco, per toccarlo da vicino questo grumo, per strappargli la carta di identità e svelarlo a tutti. Allora fu chiaro che quella che avevano davanti non era che la metastasi di un cancro.
Come cambia la vita quando la prospettiva non è più infinita ma puoi vedere l’orologio che segna il tempo mancante avere un numero troppo limitato di mesi, di giorni, di ore. Le nuove norme prescrivono che un maggiorenne sappia sempre la verità, che gli sia detto che senza cure forse sarebbero rimasti sei mesi, torturando e ferendo tumore e corpo forse un anno, due. Il primo ad essere espulso sarebbe stato quel povero intruso, quel vagabondo che si era andato a scegliere come dimora una casa che stava per crollare. Le prime attenzioni avrebbero ucciso proprio lui.
Mi dispiaceva. Ecco tutto. Mi dispiaceva che lui si fosse legato a me, che avesse avuto fiducia sul fatto che io lo saziassi lì dentro per nove mesi e fuori per tutta la vita e invece io lo tradissi così. E per questo scrupolo, per questa decisione mai ponderata e mai presa, ora sono diventata santa. Perché fu nella sala di attesa dove beccai il medico che passava, fu davanti a tutti che chiesi cosa sarebbe successo se avessi provato a tenere il bambino e mi fossi curata dopo. Il medico scosse il capo con forza e prendendomi le braccia mi supplicò di non farlo, di non perdere anche le mie ultime residue speranze. Allora capii che mi ero illusa ancora, che non avevo nemmeno questa forza, nemmeno la capacità di dargli ancora un po’ un tetto decente. Mi girai e andai a sedermi piangendo quando una persona distinta mi venne vicino e per la prima volta pronunciò la mia condanna: la santità. Lei è davvero una santa mi disse, che non dovevo scoraggiarmi, che la Provvidenza mi avrebbe aiutato e che anche non ci fosse stato il miracolo, il Signore avrebbe riservato per me un posto speciale in cielo. Ero sola, il mio ragazzo lo avevo mollato da tempo perché non sopportavo quella sua imbarazzata pietà, quella voglia di scappare davanti ad una disgrazia più grande di lui. Quando era con me piangeva, prometteva che non mi avrebbe abbandonato mai e, appena possibile, scappava via. Gli dissi che per me non era niente e non ero nemmeno sicura che il bimbo fosse suo. Mi liberai di lui con una risolutezza che non sarebbe servita con il mio cancro ma preferii consolare me stessa soltanto e non quel povero, sfortunato ragazzo. Così, senza che i miei genitori sapessero nulla, abbandonata dalle mie amiche come quegli sceneggiati in cui muoiono gli attori più belli e restano solo i personaggi minori, ero sola davanti a questo uomo che mi parlava della grazia di Dio. Potevo mai pensare che quei mille euro che mi porse in segno di aiuto mi sarebbero costata la vita?
Perché il giorno dopo su tutti i giornali campeggiava una mia foto con la testa tra le mani in cui si parlava della mamma coraggio, di chi, in questo tempo di shampiste senza cuore, innamorate solo dei calciatori e del sogno di fare le veline, aveva deciso di sacrificare la propria vita pur di diventare mamma.
Ma io ero proprio una di quelle shampiste, avrei dato tutto per tornare a quei sogni e a quei ragazzi! La mia vita, a quel punto, mi fu rubata del tutto.
Comparvero nella mia vita personaggi mai visti: giornalisti per nuove interviste, religiosi di alto grado che volevano che rivelassi strane ispirazioni e visioni, avvocati che mi offrivano compensi d’oro per l’articolo che non avevo autorizzato ma che quel bastardo mi aveva pagato con mille euro. E arrivò anche la televisione, anche i parenti che fiutarono l’odore del denaro e convinsero i miei genitori scioccati da troppe cose insieme per connettere un solo pensiero, a pensare almeno al futuro del piccolo. Non vidi più quel medico che mi aveva pregato di non fare quell’inutile sacrificio. Un giro di primari e professori mi trovò una clinica in cui mi assicurarono di arrivare al parto e di avere ancora altre speranze per dopo.
Ci credetti, ci volli credere nonostante cominciassero devastanti i primi dolori, nonostante le debolissime terapie facessero poco o niente. Eppure sono ancora qui, con rari momenti di lucidità, a mantenere in piedi una casa che non ho mai scelto di costruire o salvare. Ormai manca poco e a questa sciocca inutile vita non posso chiedere più il tempo per poter insegnare alla mia bimba di rubare la felicità ad ogni momento della sua vita prima che la vita la rubi a lei, di pensare che chi ti porge la mano non sempre vuole aiutarti. Non posso insegnarle niente perché con la vita mi ruberanno anche lei. L’ultima cosa che posso chiedere è che questo martirio abbia almeno uno scopo, che tra tanti dolori che mi squassano il corpo, quello del parto almeno termini con il pianto di un bambino.