Uomini di plexiglas

L’egocentrismo di quart’ordine incollato sovente a taluni personaggi dalla retorica appiccicosa non meno avvilente degli equilibrismi sintattici che l’accompagnano è indicativo di una comunità che non ha il senso di appartenenza né l’orgoglio di appartenere.
In questo acquario tropicale, piranhas dall’io ipertrofico nuotano guardinghi in un fiume di asfalto sorpresi dal tepore di un sole che penetra le loro scialbe figure.
Naufraghi del pensiero, arrischiano ardite analisi politiche sul responso elettorale già dimentichi della pavida fuga di fronte alle responsabilità che solo una servile accondiscendenza al potere spiega ma non giustifica.
Omuncoli di plexiglas, dal sorriso muscolare privo di emozione, buoni per tutte le stagioni. Come il plexiglas sono impermeabili alle intemperie della propria coscienza che li bracca circospetta di notte ma, riflettono la luce diurna perché più rassicurante è la penombra dei pensieri minimi.
Idee a buon mercato, comprate negli hard discount dell’immaginazione che il triste vaniloquio da bar trasforma in prelibata leccornia per palati ispessiti dal chiacchiericcio stanco, sembrano rivelazioni messianiche se non fosse che anche l’attesa ipnotica del crocchio assiepato attorno al santone di turno è solo una variante di quella materia sintetica chiamata plexiglas.
Un oceano di plastica calmo e tranquillo che lambisce le sponde lontanissime di solitudini consunte dal tempo mai attardato sulle stucchevoli vanità degli uomini di gomma.
Come una baldracca che aspetta sull’uscio un futuro confuso e sgangherato nel tentativo di sopravvivere ad un presente mai riconoscente e sempre troppo esigente, così appare questa comunità senza memoria.
Poi, guardo la natura circostante, generosa come una mamma indulgente e scivolo sul verde dei boschi arrampicati sui crinali selvaggi fino a sfiorare le nuvole per tuffarmi nell’azzurro di un cielo che mi sorride.