Venduta

Quando decido di tornare in Nigeria sono terrorizzata.
Ho bisogno di recuperare alcuni documenti che mi servono per la mia nuova vita, altrimenti forse nemmeno ci andrei. Sicuramente non in questo momento, anche se nel cuore, lo ammetto, ho comunque voglia di rivedere la mia terra, quella terra amara dove sono nata e un po' cresciuta e che un giorno, come con un lancio di dadi caduto dal lato peggiore, col mio numero rivolto in alto, mi ha catapultata ingiustamente verso una nuova squallida realtà.
Di sicuro devo essere accorta e non fare passi falsi. Devo guardare ma non farmi vedere, così cerco di proteggermi come credo, rendendomi meno riconoscibile possibile.
Ho già  raccolto le lunghe treccine dalle estremità colorate, meticolosamente sotto ad un foulard marrone, sugli occhi ho appoggiato enormi occhiali da sole e cammino a testa bassa, un po' impaurita. Un po' tremante. Un po' nauseata da quello che trovo e che non mi appartiene più.
Lo so che ancora mi cercano e so che se mi prendono di sicuro non mi risparmiano e l'incubo ricomincia, ma non intendo fermarmi né tornare indietro.
Ho fatto davvero molto, prima di arrivare qui e voglio ancora credere al Dio che mi ha ascoltata una volta. Non ci penso che mi abbandonerà proprio adesso.
A passi svelti mi intrufolo nelle vie semibuie e nascoste che conosco a memoria e dopo un po' riesco a scorgere  la porta di legno della mia vecchia casa qui a Warri, nel Delta State, tenendomi a debita distanza, oltrepassando con lo sguardo le bancarelle, il traffico imbranato e sporco, la gente annoiata sulle strade... prima di vedere anche quella scura, con una crepa sul lato destro, della mia 'madama'. Così le chiamano qui quelle come lei, donne molto potenti, vergognosamente corrotte e pronte a venderti, che sono tutt'altro che signore, dame, amiche...
“Ehy, Nabilah che ne dici se ti aiuto a trasferirti e ti sistemo? Non c'è futuro per te qui. Sei bella, giovane e meriti una vita migliore della nostra, non credi?”.
Zahrah mi aveva detto questo un po' di tempo fa. La mia 'madama', la mia vicina di casa dalle forme abbandonati, rassicurante e della quale mi fidavo come una seconda madre.
La donna della quale tutta la mia famiglia si fidava, magistralmente e senza ritegno, aveva ingannato tutti con l'esca dolce della vita migliore altrove. In Italia.
Un lavoro, soldi, fortuna. Una vita dignitosa insomma. Una alla quale non ero riuscita a  dire di no, perché mi aveva riempito gli occhi e i polmoni di speranze, di colori, di felicità, anche se mi sarei dovuta staccare da quello che era comunque il mio mondo e dai miei parenti. Ma infondo da me non c'era davvero un futuro.
C'erano solo le accozzaglie di persone sulle strade polverose, a mangiare rondelle di platani fritti o inzuppare pani di manioca negli stufati, in attesa di qualcosa di bello da poter raccontare che purtroppo non arrivava mai.
Per questo la luce di una vita diversa era stata subito allettante, come una chimera in un cielo triste che all'improvviso diventava tangibile.
Ma di scie lucenti ad aspettarmi non c'è n'era nemmeno l'ombra e quello che era arrivato dopo era stato esattamente l'opposto. Un futuro col mantello e il cappuccio neri come la notte, come il buio che intrappolavano i miei occhi quando non volevo collaborare e arrivavano le botte livide sulla pelle già scura, colorata come una condanna.
Eravamo in tante buttate sulla strada, alcune amiche, altre per assurdo addirittura rivali ma avevamo caratteri diversi.
Sally e Maggie per esempio si prostituivano senza battere ciglio, debite al loro padrone, in silenzio. Con sottomissione e a volte, ma non sempre, con lacrime segrete.
Volevano saldare il loro debito. Una cifra irragionevole come trenta o quaranta mila euro. Come se l'avessero scelto, come se stessero davvero comprando una vita migliore. Come se non sapessero che nel frattempo si sarebbero logorate dentro e sciupate fuori. E sarebbero diventate delle altre, in un'altra pelle. Una più vecchia, misera, segnata di una storia sempre più difficile da raccontare e da dimenticare. Ma anche da tenere dentro con sé.
Io non ci stavo. Mi ribellavo. Ogni volta. E sulla strada non ci andavo o meglio il mio corpo non ero disposta a venderlo.
Le botte non facevano più male dello stupro di un corpo dato a chiunque almeno dieci volte in un solo giorno. Di questo ne ero certa e anche se un preciso piano di fuga non ce l'avevo e nemmeno quattro soldi da parte per inventarmelo, ero comunque convinta fermamente di voler provare a scappare e di rivendicare quello schifo.
Non potevo fermarlo forse ma potevo cercare di aiutare chi voleva opporsi come me, non pensando alle altre, quelle che si nascondevano dietro ad una menzogna di schiavitù ma in realtà erano prigioniere di loro stesse.
Io mi sentivo diversa e volevo almeno avere la consapevolezza di averci provato, di non essermi piegata né arresa ad un destino maldestro riscritto ingiustamente per me.
Così una sera l'avevo fatto, ero corsa in mezzo ai campi fuori Roma, mi ero spogliata e avevo aspettato. Mi ero messa nelle mani di Dio, della giustizia più profonda del mondo, che era in quel momento l'unica che mi restava.
E come un miracolo del cielo, un uomo buono era arrivato veramente e mi aveva asciugato le lacrime.
“Ciao, corri sali in macchina. Mi chiamo Don Felice, ti puoi fidare di me, non temere, sbrigati prima che ci veda qualcuno poi ti spiegherò tutto”.
Ed era quello che aveva fatto, appena ero salita nella sua piccola auto bianca, dopo avermi dato una coperta per coprirmi, almeno in parte, i brividi di freddo e di angoscia.
Prima che parlassi, mi aveva raccontato di che si occupava. Della comunità che da diversi anni aveva creato, per accogliere “gli ultimi” come li definiva lui. “Quelli a cui nessuno pensa o se li pensa, pensa male”.
Quelli imbrogliati, traditi come me. Rubati ad un pezzo di mondo povero per ingaggiarli in uno ancora più arido. Di sentimenti, di dignità, di rispetto.
Accoglieva un po' tutti ma soprattutto le ragazze sole, nigeriane come me, considerandole appartenenti a gruppi etnici meno acculturati, in svantaggio insomma. Io lo ascoltavo e continuavo a piangere. E in contemporanea a risentire i colpi duri sottopelle, fin dentro alle ossa.
“La prostituzione non ci sarebbe se non ci fossero i clienti. Il problema principale sta lì, purtroppo. Inutile negarlo”.
Ed era vero quello che diceva. Ci sono troppi uomini, mariti insoddisfatti, imprenditori di prestigio insospettabili, ragazzi complessati o timidi, che accostano le loro automobili alle gambe nude in bilico sui tacchi esagerati, di sfortunate come me. Troppi padri e troppi viscidi lo fanno, senza nemmeno sentirsi uno straccio di colpa addosso. Senza farsi domande, su me, su noi, su Sally o Maggie. Senza andare oltre, senza voler nemmeno raggiungere col pensiero, quei padroni maledetti che ci incatenano come bestie vicino ad un lampione e poi ad un altro e un altro ancora, senza sosta, per tanti anni, per tutta una vita a volte.
Se ne fregano della nostra stanchezza, della carne penetrata milioni di volte, senza un sentimento. A volte senza un motivo. Solo per distruggere una voglia, una frustrazione, una repressione.
Don Felice parlava e io continuavo a piangere. Ancora non me ne capacitavo ma sarebbe stato lui a salvarmi e ancora oggi gli sono riconoscente e lo sarò per tutto il resto della mia vita migliore. Stavolta migliore veramente.
Continuo il mio viaggio in incognita, furtiva e tremante, col caldo appiccicato sulla pelle sotto al vestito lungo di cotone e recupero i miei documenti. La gente in strada urla parole nella mia lingua e suona i clacson nervosa, nella polvere. Sono stanca e voglio andarmene, poi lo rivedo, Iman, il mio primo amore da ragazzina, l'uomo che avrei voluto sposare e che il solito destino beffardo mi aveva strappato via, insieme a tutto il resto.
Quando i nostri occhi si ritrovano, le parole non servono. Proviamo entrambi le stesse emozioni, quelle di una volta e quelle di oggi.
Vogliamo esaudire allo stesso modo il nostro desiderio, quello di avere una vita felice insieme, lontano da credenze, fattucchiere e maledizioni da infliggere con gli spilli sulla pezza. Vogliamo starcene tranquilli in uno scorcio pulito di mondo. Ed è quello che faremo. Fra un po'. Dopo aver aggiustato le ultime cose.
Dopo il mio rientro in Italia, verrà anche a lui e finalmente ci sistemeremo e gli racconterò tutto quello che ho sofferto. O quasi. Forse alcune delle cose più vergognose le terrò per me, per non ferirlo gratuitamente. Per non ricordare troppo.
Gli narrerò della mia forza però. E poi di Don Felice, il padre buono che loderò ancora non so quante volte, per essersi alleato al mio coraggio. Per avermi spronata a denunciare la mia 'madama'. Per avermi presa con sé. Per avermi dato modo di togliere dalla strada altre donne e poi di trovare un lavoro vero ed onesto, insieme alla possibilità di pagarmi un affitto e di stare bene. Per avermi permesso di essere quella che sono oggi, una cittadina italiana, libera e serena. Acculturata e con tanta voglia di studiare ancora.
Torneremo in Nigeria poi, forse un'ultima volta, e ci sposeremo lì perché è quello che vogliamo e che forse è giusto, indossando abiti variopinti e allegri come la tradizione vuole.
Io sceglierò sicuramente una 'buba' , una camicia lunga in jacquard, azzurra come il cielo che troppe volte non ho potuto osservare. Ci abbinerò i pantaloni larghi e in testa avrò il 'gele' il copricapo tipico africano, fatto di stoffa vivace, piegata in modo particolare attorno alla mia testa. Mi farò truccare gli occhi e le labbra e dipingere le mani e i piedi con decorazioni all' hennè e mi sentirò finalmente una principessa.
Anche il mio Iman sarà bellissimo, avvolto nella sua tunica lunga, abbinata ai miei stessi toni.
Ci sarà aria di festa e di rinascita e la mia terra allora farà meno male.
La lascerò intrappolata in un ricordo vivo come questo, dove ogni volta potrò tornare per sentirmi a casa invece che venduta. Libera anziché schiava.