Vita normale

Quando è finita la mia vita normale?
Quando tornai a casa e mia madre mi disse: "Tuo fratello dice cose assurde"?
Iniziava una nuova fase, ma io continuai la mia vita normale.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando mio zio, mio vicino di casa, mi presentò un preventivo per lavori di manutenzione scritto con una Olivetti portatile uguale a quella che possedeva lui stesso? 
No, gli ho dato i soldi che voleva ed ho continuato la mia vita.
Quando è finita la mia vita normale?
Quando pochi mesi dopo la vicina diretta interessata a quei lavori, amica di mio zio, venne a dirmi che aveva di nuovo problemi? 
No. 
Chiesi: "Scusate, ma la ditta che ha fatto? Che garanzie ha lasciato?". 
E per due anni non ne sentii più parlare.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando, con due anni di ritardo, capii che per mio fratello non si trattava solo di stress da lavoro e non bastava il nostro affetto e le nostre attenzioni, ma occorreva l'intervento di uno specialista?
Si entrava ancora in un’altra fase, ma il mio cervello continuò a funzionare "normalmente".

Quando è finita la mia vita normale?
Quando per mio fratello si arrivò ad una prima diagnosi? 
Inaccettabile dapprima, sia per il malato, sia per i familiari.
E poi, perché inaccettabile? Se un professore universitario e premio Nobel per l'Economia aveva la stessa malattia, cosa c'era di inaccettabile o da nascondere?
Inaccettabile comunque.
Mio fratello iniziò una terapia, bene o male, ed io continuai la mia vita “normale”.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando dopo dieci giorni di tira e molla tra il medico curante che diceva che mio padre doveva essere ricoverato e gli operatori delle strutture sanitarie che dicevano il contrario, mio padre fu ricoverato d'urgenza ed arrivò un'altra brutta diagnosi?
No. Iniziava un'altra durissima fase, ma avemmo la fortuna che nell’ospedale della nostra città ci fosse un primario di Chirurgia di altissimo livello.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando l'altro mio fratello (quello sano) mi aggredì con odio perché secondo lui non avevo capito che dovevamo telefonare noi all'ospedale per sapere quando mio padre doveva iniziare la terapia e non il contrario?
Sì, la mia vita normale ebbe un cedimento. Ma mi ripresi e recuperai la mia vita ‘normale’.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando mio padre dopo un mese di sofferenze, che chi lo aveva operato imputava alla terapia, fu di nuovo ricoverato d'urgenza in un altro ospedale, anche a causa delle incomprensioni sorte con chi lo aveva operato?
E il nuovo primario mi disse: "I chirurghi hanno valutato la situazione. Il tumore ha invaso lo stomaco. I chirurghi propongono di levare il duodeno e fare un by‐pass. Ma si deve rendere conto che si tratta di una situazione palliativa"?
Mi crollò il mondo addosso, ma con l'aiuto di mio marito riuscii a rimettere in moto il cervello per capire cosa fosse meglio fare.
E con l'aiuto dei due primari riuscii a convincere mio padre a farsi trasferire di nuovo all'ospedale dove era stato già operato.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando mio fratello (quello sano), appena arrivato dalla capitale, di sabato, dopo tre giorni che io facevo la spola tra i due ospedali per capire cosa stesse succedendo e cosa bisognasse fare, si volta verso di me e fa: "Se papà muore, è colpa tua."?
Fu un altro subitaneo choc, ma in quel momento dovevo pensare al trasferimento di mio padre.

Quando è finita la mia vita normale?
Quando il giorno dopo trovai mio fratello (quello sano) affranto sul divano che diceva a mio fratello (quello malato) che pensava di prendere il treno il giorno dopo e rientrare nella capitale per poi tornare per i funerali?
"Ma come", pensai, " non può sacrificare nemmeno un giorno delle sue preziose ferie per aspettare che il padre si operi?".
Tirai un respiro e cercai qualcosa da dire per indurlo a rimanere.
E non mi venne in mente nient'altro che: " Guardate che il dottor XXX ha detto che la situazione è grave ...".
Mio fratello (quello sano) balza in piedi e mi sovrasta costringendomi ad indietreggiare: "Lo so che la situazione è grave!", mi sbraita in faccia, " è per questo che me ne vado! [o qualcosa del genere, n.d.r.]. Cosa dovrei fare? Rimanere qua ad aspettare che il tuo prezioso chirurgo lo operi?" "Ora mi colpisce", pensai. Ma mio fratello (quello sano) sembrò riuscire a trattenersi ed invece di colpirmi in faccia, come mi aspettavo, mi dette uno spintone alla spalla. Caddi all'indietro. Fortuna dietro di me c'era un altro divano.
Afferrai le mie cose ed uscii di corsa.
Sì. La mia vita normale finiva allora. Ma in sordina.

All'ansia per mio padre si aggiunse la paura delle reazioni di mio fratello (quello sano).
Mio padre si riprese alla grande ed io, dopo aver passato il resto dell'estate a leccarmi le ferite causate dagli attacchi di mio fratello, ripresi la mia vita normale.

Ma mentre ci occupavamo di mio padre avevamo distolto l'attenzione da mio fratello.
E mio fratello ne approfittò per interrompere la terapia.
Iniziò una nuova fase. O meglio riprendemmo una vecchia fase. Mio marito ed io la sera stavamo sul chi va là. Non era insolito che mio padre ci telefonasse per chiedere aiuto. E noi correvamo.
Fino a quando mio padre provvide al ricovero di mio fratello.

Quel ricovero inaspettatamente avrebbe potuto segnare la svolta positiva.
Il 2 giugno mio marito ed io, come avevamo fatto tutti i giorni in cui eravamo liberi dal lavoro, ci recammo a far visita a mio fratello in ospedale, a 100 km da casa.
L'altro mio fratello (quello sano) era sceso dalla capitale con la sua famiglia e ne approfittò per un pomeriggio al mare.
Mentre eravamo con mio fratello nel reparto, mio fratello cominciò ad andare in agitazione. Intervenne una dottoressa, non con un'iniezione, ma riportando mio fratello alla correttezza ed alla logica con la parola. La dottoressa interrogò anche me. E non appena tendevo ad essere evasiva o a svicolare, mi costringeva ad essere precisa e diretta.
Poi promise a mio fratello che l'avrebbe dimesso. Ora non poteva perché era finito il suo turno. Ma all'inizio del suo prossimo turno, alla mezzanotte della domenica, lo avrebbe dimesso.
Quindi prese accordi con me e mio marito che avremmo dovuto andare a prelevare mio fratello. Ma non solo. La dottoressa aveva intenzione di affidare mio fratello a noi, che, disse, si vedeva eravamo persone affidabili e continuare a curarlo con la terapia della parola anche dopo le sue dimissioni.
Ebbi fiducia in quella dottoressa. Vedevo in lei un vero interesse umano e professionale per mio fratello. Non un interesse pecuniario. 
"Se vostro fratello continua con i farmaci, ogni due anni starà in una struttura sanitaria", ci avvertì. Però lei poteva lavorare solo in quella circoscrizione, a 100km da casa nostra. Andava benissimo. Solo le facemmo presente il problema che noi eravamo fuori casa per l'intera giornata. "Ci penso", replicò la dottoressa. 
Un altro problema, ma non lo dissi alla dottoressa, era lasciare mio fratello (e la mia casa) in balia dei nostri parenti e vicini infidi. 
E confermammo l'appuntamento. Finalmente, mi sembrava, stavamo imboccando la direzione giusta.
Arrivammo vicino casa. La mia intenzione era di andare a casa e telefonare ai miei genitori per dire loro che mio fratello stava bene. Tutto qui. Mio marito invece se ne uscì che dovevamo andare a casa dei miei a dare la bella notizia. "No", replicai, "si metterebbero in mezzo ed abbiamo già visto che non sono capaci". Mi riferivo a quello che era successo l'anno precedente, quando se avessi lasciato fare a loro, mio padre sarebbe stato squartato per levare un'inesistente metastasi allo stomaco, mentre era stato operato in laparoscopia per levare un esistente calcolo della colecisti che lo aveva fatto soffrire terribilmente per un mese ed alla fine gli aveva causato un blocco delle vie digestive.
"I genitori devono sapere", insistette mio marito e non demorde dalle sue intenzioni. 
Il diavolo si stava nascondendo nelle vesti della persona di cui più mi fidavo: mio marito.
Sapevo come sarebbe andata a finire: mio fratello (quello sano) si sarebbe opposto.
Eppure mi arresi. E lasciai che mio marito facesse come voleva.
Mi arresi. 
Per stanchezza, per vigliaccheria.
Fatto sta che smisi di lottare.
E fu allora che finì la mia vita normale. 

E mio fratello (quello sano) si oppose nella maniera più infingarda che poteva: telefonò all’ospedale senza dirci niente, senza consultarci. Ed impose, sbraitando e minacciando, che mio fratello (quello malato) continuasse ad essere curato con i farmaci.

Abbandonai mio fratello malato, il fratello che si fidava di me, nelle mani di chi riteneva di essere più in gamba di me e mio marito.
Lo abbandonai nelle mani di chi, pur non vivendo vicino e quindi non potendo garantire che mio fratello seguisse il piano farmacologico, imponeva che mio fratello fosse curato con i farmaci.
Lo abbandonai nelle mani di chi, per stare tranquillo, preferiva che iniettassero al fratello la calma, la calma opaca, come ho letto ieri in un articolo su Alda Merini.

Mi arrabbiai, anche. Mi arrabbiai con mio fratello (quello sano) e sua moglie che s’intromisero in maniera così infingarda. Mi arrabbiai con mio padre che si fece raggirare ed appoggiò la loro strada.
E nella mia mente, dove risuonava (e risuona ancora) quel “Se papà muore, è colpa tua” scattò qualcosa come: “E va bene, siete più in gamba di me? Vedetevela voi!”

Un attimo di debolezza che ha distrutto tante vite. Quella di mio fratello per prima. Poi la mia. Ed ha reso infelice la vita dei miei cari.

A undici anni di distanza neurologi, psichiatri, psicologi mi hanno detto che non abbiamo la prova contraria: non sappiamo se mio fratello sarebbe stato meglio con l’altra terapia. Lo so, risposi, ma dovevamo provare. Dovevamo rischiare.

"Se avessi, se potessi, se fossi erano tre fessi", ripete un proverbio sulle targhe che si vendono ai turisti.

Uno psichiatra mi ha chiesto anche da dove venisse questo mio delirio di onnipotenza. Gliel’ho spiegato: dal fatto che un anno prima avevo avuto ragione a far operare mio padre da chi diceva che mio padre aveva un calcolo e non da chi diceva che aveva una metastasi allo stomaco.

Nel momento in cui pensai: "Va bene, siete più in gamba di me? Vedetevela voi!", credevo di riprendermi la mia vita.
Invece la mia vita normale finiva lì. 
Ma me ne accorsi anni dopo.

Un anno prima, quando, con mio padre ricoverato per la seconda volta, avevo scostato mentalmente mia madre e mio fratello (quello malato, quello sano per fortuna non c'era) con un braccio pensando: "Levatevi di torno, ora il capofamiglia sono io", ero diventata all’improvviso adulta. Ora tornavo ad essere bambina.
E reagii male: tenendo il broncio, come fanno i bambini.

Due anni dopo mio fratello stette di nuovo male. Ma in realtà non stava mai bene.
Ed io, invece di riprendere in mano la situazione, confermai la mia esasperazione.
Divenni esasperata contro mio fratello (quello sano) e sua moglie che avevano imposto la strada dei farmaci. Mi esasperai contro i miei vicini e parenti che continuavano con i loro raggiri e prepotenze.

Ma, chissà perché, se ti comporti come loro poi a loro non piace.

E la signora che, ospite in casa mia, aveva minacciato di buttare a terra gli oggetti che erano sopra il tavolo, mi malmenò.
E mio zio dettò un verbale di insulti e illazioni contro me e mio.
E mio zio citò mio marito per avere 58 euro. Ma questo, sarebbe avvenuto comunque, dice mio marito: "Tuo zio ha mandato in tribunale la sorella, ti aspettavi che non mandasse in tribunale me?"
Ed io ricevetti un decreto ingiuntivo per 240 euro per lavori mai eseguiti.

E mio marito ed io fummo aggrediti nel cortile di casa. Da amici dei miei parenti. 
Mio fratello (quello malato), il fratello che io avevo abbandonato nelle mani di chi voleva farlo curare con i farmaci, mi chiese se doveva andare a parlare con il figlio di chi ci aveva aggrediti.

Mio zio, consigliato da un avvocato, cambiò versione e, contraddicendo la sua precedente citazione, citò mio marito per avere 460 euro.
Mio fratello (quello sano) piombò in casa mia e minaccioso, senza nemmeno sedersi, mi fece il terzo grado.

E mio fratello, il fratello che avevo abbandonato, due anni dopo ancora si ritrovò di nuovo in una struttura sanitaria, come aveva detto la dottoressa. Io ero lì con lui, chiamata da mio padre. Ancora vigile, ma non abbastanza per pensare di riportare mio fratello da quella dottoressa, anche se con 4 anni di ritardo.
Nel frattempo avevo sprecato e stavo sprecando le mie energie ed il mio cervello per difendere mio marito dagli attacchi dei miei parenti e per evitare che mi venissero addebitate tutte le spese del condominio.

Dopo altri due anni, a seguito di un aborto, causato forse anche dalle persecuzioni dei miei parenti e vicini, vado in depressione che, unita a diagnosi sbagliate, interventi sbagliati ed una serie di imprudenze, mi manda in ipocondria.
E lì finì anche la parvenza di una vita normale.
Da allora mio fratello si è ritrovato in una struttura sanitaria ogni anno.
Ma ancora poteva dimostrare di che pasta era fatto.
Io stavo male. O almeno credevo di stare male.
Mio fratello (quello malato) mi accompagnò in banca, dal medico e si occupò della revisione della mia auto.
Otto mesi dopo ero ancora in ipocondria e non dormivo da due anni, ma mi occupai del ricovero di mia madre che era caduta (frattura del femore e dell'omero), dormivo la notte da mio padre che aveva bisogno di assistenza, mi occupai del ricovero di mia suocera che era da dieci mesi a letto dopo la frattura del femore ed, il giorno dopo, del ricovero di mio fratello che era tornato dal Nord dove lavorava e stava di nuovo male. 
Intanto andavo al lavoro (11 ore fuori casa). 
Mio fratello e mia suocera erano nello stesso ospedale in reparti diversi. Appena stette meglio, mio fratello (quello malato) si vestiva ed andava a fare visita a mia suocera, senza dirle che era anche lui ricoverato.
Da quando ero in depressione ed in ipocondria non vedevo nessuno al di fuori del lavoro. Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno, di un po' di conforto. 
Telefonai a mio fratello (quello sano) che viveva sempre nella capitale. Mi disse: "Sei una fallita."

Cominciai a pensare di ricontattare la dottoressa, anche se in notevole ritardo, di rivolgermi all'ordine dei medici per trovare dove lavorasse ora.
Sarebbe bastato telefonare allo stesso ospedale. Ho scoperto solo adesso che è ancora lì.
Ma già per me ogni giorno era una scommessa.

Un anno dopo, a grave prezzo, guarii dall'ipocondria.
E mio marito mi portò lontano.
Ma ancora avrei potuto fare qualcosa per mio fratello. Quante volte nell’ultimo anno ho pensato di dirgli di prendere i farmaci, di seguire i consigli dei medici, che oramai li prendevo anch'io (5mg, la dose pediatrica, dice il mio medico), ma non l'ho fatto, visto che anch'io ancora cerco di farne a meno?

Stavo cercando disperatamente di riprendere in mano la mia vita 'normale'. 
E mio marito mi aveva creato altri problemi, falsi problemi che non avrebbero dovuti essere creati, con cui combattere.
E sono certa che questi falsi problemi abbiano avuto un negativo impatto anche sulla psiche di mio fratello.

Ed avevo ora due figlie da proteggere.

Ed ora è troppo tardi.
Mio fratello non c'è più.

Nessun colpevole, nessuno innocente.