Wolf

Grande spinone bianco, macchia nera intorno all’occhio, lecca la ferita sulla fronte. Fratello, gioca in giardino col triciclo.
Mamma, al piano di sopra. Altro cane, ben chiuso dentro il recinto.   Wolf inizia ad abbaiare, Raf latra pure lui… attenzione… disteso in cantina… uno sbrego da paura in testa… due mesi d’ospedale; ventotto punti di sutura, quattordici interni e quattordici esterni.
‐ Suo figlio è stato fortunato signora. A un anno e mezzo, poteva essere morto. Qualche millimetro oltre e avrebbe preso la tempia. ‐
Caduto dalle scale, senza una goccia di sangue.
Dalla ferita intravedi la vena pulsare balletti di possibile morte.
Il telefono squilla, mia madre sale, la seguo a gattoni… nessuna colpa…
Inciampo nella prima rampa.  Mio padre è un cacciatore anche adesso, nonostante la veneranda età.
Un uomo non si deve mai smentire per le scelte. Fino alla fine.
Iniziò da bambino, assieme a suo fratello e qualche amico.
Passò dalla carabina ad aria compressa al calibro trentadue monocanna pieghevole a libro, al ventotto, poi il sedici.
Oggi adopera fucili del dodici, automatici o sovrapposti: rosa di pallini più ampia, resa ottimale, certezza di colpire il bersaglio.
Negli anni di mezzo c’è stato di tutto…
Tiene, per ricordo, una doppietta calibro sedici con cani esterni, un vero pezzo da museo, da antologia dello sparo.
Usciva all’aperto…
‐ Cosa prendiamo per pranzo, oggi? –
Stornelli, pernici, merli, tordi, cardellini, passeri... la fame…
Il fagiano non circolava: preda rara, assente, introdotta qualche decennio dopo.
In mezzo alla boscaglia, giusto fuori casa, già campagna.
Stormi di allodole oscuravano il cielo, la migratoria concedeva pioggia di selvaggina… Cose che non succedono più… Giorni e giorni di nuvole, come passasse Dio, a seminare fertilità. L’uomo…
La mia vita è sempre stata contornata dagli animali.
Animali morti, in gabbia, nel recinto. Imbalsamati.
Gatti, cani.
Wolf, spinone italiano, bellissimo grifone imponente, un cavallo. Dopo l’ospedale, pensavo di essere John Wayne, con le pistole al fianco e un mucchio di bende in testa, al posto del cappello. Aggrappato in groppa, la criniera tra le mani, i piedi quasi sfioravano il prato…
Amavo quel cane, uno dei tanti…
Instancabile, andava in ferma con qualsiasi selvatico.
Spariva in cerca troppo lontano… si accucciava ad aspettare… la preda già volatilizzata… il povero cacciatore, mio padre, tardava ad arrivare. A Wolf impossibile stargli dietro… potenza fisica... Apparteneva ad una razza peculiare… unica ad andare al galoppo… Uno spettacolo vederlo correre, all’aperto; incredibile. Il mantello ispido; rustico, resistente alle intemperie, adatto al bosco, dove c’è tanta vegetazione. Si stava bene, il boom economico, la possibilità di crescere benestanti… gli anni sessanta.
Dopo tutto crollò, ma questa è un’altra questione…
Già… il sessantotto.
Abitavamo sempre nella stessa casa.
Wolf non tornò più: successe un giorno.
Mio padre l’aveva ceduto.
In compenso, due segugi.
‐ Sai, i segugi seguono le lepri fino allo sfinimento, corrono, non mollano, alla fine agguantano la preda coi denti, se non arriva il cacciatore, succede un macello… ‐
Li chiamano segugi con qualche valido motivo, o no? Peggio di Attila… Più combattivi che mai… “Nick mano fredda”, Paul Newman, perennemente inseguito…
Quegli anni tenevamo bracchi, setter, pointer, un vero e proprio allevamento. Vedevo partire la combriccola, armata di tutto punto. Telemetri, cannocchiali, mirini, giubbe, stivali, bussole. Fucili, grandi fucili, coltelli, richiami, collari, guinzagli, fischietti, archi, frecce, cartine topografiche. Vino, sigarette, cibo. Tende, paletti, vanghe, fiammiferi, giornali. L’orologio cronografo “Jungfrau”, diciassette rubini, antimagnetico, al polso di mio padre, vicino alla mano che stringevo. Amavo schiacciare quei bottoni: avvio tempo, arresta, riparti. Il cinturino flessibile si contorceva, compivo evoluzioni sul braccio paterno. Prima del commiato ero sempre nervoso, temevo di non rivedere più quello splendido orologio, quella macchina perfetta che cercavo sempre di possedere.  Sparivano per giorni. Tornavano con le loro fantastiche “prede”.
Piangevo, vedendo quegli animali morti, le bestiole massacrate dai colpi. Non capivo perché Wolf partecipava, lui, il cavallo di John Wayne…
Nella voliera tenevamo canarini, lucherini, cardellini, merli, tutto un casotto di cinguettii. Un giorno, l’amico di famiglia, il compagnone di caccia, appassionato uccellatore, ebbe la brillante idea di donarci (caso strano, perché, nell’ambiente, nessuno regala) un crociere. Strano uccello, grosso come un tordo, più o meno, e, particolare incredibile, con le punte del becco incrociate, robustissime. Come una ics, vi assicuro. Comunemente nominato “Il becch’in croce”… forse l’uccello del cimitero, pensavo.
A vederlo sembra innocuo, si muove saltellando e vola cadendo dall’alto dei rami, tozzo come un sasso, in caduta libera verso il basso, senza un minimo accenno di battimento d’ali. Pareva Calimero, con questo becco incrociato, gli occhi tristi. Zampettava in una gabbietta piccolissima, così decisi, io, di spontanea volontà, la sua liberazione assieme agli altri pennuti, nello spazio grande della voliera, tre metri per quattro, situata in giardino.
Col tempo, ogni notte, qualche uccellino cadeva morto stecchito. Quei giorni, in cui mio padre era via per lavoro, fu una vera mattanza. Ogni mattina trovavo qualche volatile a zampe all’aria sul fondo del gabbione. Non capivo proprio cosa potesse essere stato.
Il crociere guardava con occhi tristi, zampettava.
Alla fine rimase da solo, l’unico sopravvissuto, e capii…
Mi guardava sempre, quell'uccello.
Non potevo far altro che seppellire i morti.
Mio padre tornò a casa.
“Leggermente” arrabbiato dalla scoperta. Disse che il crociere doveva rimanere solo, nella gabbietta originaria. Per questo ce l’avevano regalato, perché non serviva a niente, le sue carni non pregiate, non cantava, brutto, solo “ciuop” ogni tanto, e poi ti guardava con quegli occhi tristi. Assassino. Con difficoltà lo riacciuffammo; per non ferirlo e soprattutto non farsi beccare, usammo i guanti… un’impresa.
Io credevo che, con quel becco là, non riuscisse nemmeno a mangiare… altroché, peggio di una tenaglia. Papà riteneva fosse in grado di aprire di tutto, noci comprese. A dimostrazione: le povere teste dei cadaveri raccolti sul fondo della voliera.
Assassino.
La gabbietta rimase lì per non so quante settimane.
Alla fine mi decisi.
Chiesi un passaggio in automobile e andammo con Wolf a liberare il crociere in montagna, nel suo habitat, dove, territoriale come era, poteva vivere. Tra le conifere, arrampicandosi come i pappagalli, cibandosi di semi, bacche, insetti e larve.
Così avvenne…
Quegli occhi tristi mi facevano stare male… quasi estinti, ora… sono protetti. Gli anni passano e Wolf sicuramente starà correndo, assieme ad altri cani, nelle verdi praterie.
L’altra sera, mentre oliava il percussore del fucile, notai emozione, negli occhi di mio padre. Il vecchio guinzaglio di cuoio fuori dall’involucro che lo proteggeva, dalla polvere.
‐ Sai, oggi mi è tornato in mente Wolf… Camminavo in silenzio col  bastone alla mano, per cercar cove di fagiani. Improvvisamente, appena girato l’angolo, me le sono trovate davanti: quattro cerve, ferme controvento, dietro un boschetto. Sorprese, mi guardano, ritte sulle zampe, impietrite… e quegli occhi, così dolci, grandi… Potevo quasi toccarle, a pochissimi metri. Mai in vita mia ho provato una sensazione simile. Stavo sognando? Sapevano che, la stagione venatoria, era finita? Quale presentimento faceva intuire a quelle bestiole che, anche se potevo, non avrei sparato? Perché ad  ucciderle, te lo giuro, non sarei riuscito… Quegli occhi… Quattro cerve, ma ti rendi conto? Da non credere… –
‐ E cosa ti ha fatto ricordare Wolf? Gli occhi? –
‐ No… la bellezza. La bellezza della vita. –
‐ Stai diventando vecchio. Troppo tenero. –
‐ Sono già vecchio, purtroppo… ‐
‐ Posso farti una domanda? –
‐ Chiedi, chiedi pure… ‐
‐ Perché non hai più ripreso uno spinone, un altro come Wolf? –
‐ La settimana scorsa sono uscito con un amico: contentissimo, aveva acquistato uno spinone di pochi mesi, già un asso. E io, insomma, bravo come Wolf... Tu, proprio tu, mi chiedi perché? Lo sai, il motivo. Inutile parlare. –
‐ Dovevi tenerlo, quella volta, lasciarlo nel recinto, a finire i suoi giorni. –
‐ E come? Lui voleva uscire, non sarebbe mai stato fermo. In battuta si sacrificava sempre, instancabile. L’ultima volta lo raggiunsi, lungo il canale, e lì capii che non ce la faceva più.
Era distrutto, ansimava, si reggeva a fatica sulle zampe. Lo sollevai in braccio e mentre guaiva, mise il muso sulla mia spalla. Appoggiai la mano, percependo il cuore andare a mille; ansimava nervosamente. Lo adagiai piano sul sedile della macchina. Gli altri cani li chiusi nel bagagliaio. Dopo qualche settimana Wolf cambiò casa. Da Roberto morì l’anno successivo, serenamente. –
Questo mi disse mio padre, l’altra sera.
Di anni ne ha sulle spalle e anch’io non scherzo, in fatto di età.
Penso proprio che, tra un po’ di tempo, prenderò un altro cane.