Bulimia

Ero a casa.
Ero seduta in cucina a guardare la tv disgustosa di un Grande Fratello dove una mostra la sua sesta di seno rifatto.
Avevo mangiato e avevo lavato i piatti, così che la cucina fosse pulita e ordinata.
Mia sorella era uscita con il suo fidanzato.
Mamma e papà avevano deciso di andare al cinema.
Finalmente sarei stata a casa da sola: io e i miei 42 chili sui miei 1 e 69 centimetri.
Ma mia sorella tornò prima del dovuto.
Sentii la porta sbattere piano e il suo passo inconfondibile delicato. Sembrava che indossasse piume al posto delle sue scarpette con il tacco.
Udii il tintinnio delle sue chiavi riposte nell’angolo a loro riservato e poi preoccupata lei venne subito in cucina domandandomi: “Hai mangiato?”
Nessuno aveva capito ancora che quella domanda mi dava fastidio.
Le davo le spalle, la luce del televisore mi invadeva il viso scarno e la smorfia delle mie labbra conteneva il mio nervosismo.
“Sì, ho mangiato”‐ risposi scontrosa a tono basso.
“Sicuro che hai mangiato?”‐ mia sorella volle insistere e si avvicinò.
“Sì, ho mangiato”‐ ripetei cercando di stare calma ma alzando il volume della mia voce.
“Ma cosa hai mangiato? Non si sente nessun odore.”‐affermò lei annusando l’aria come un segugio pronto a mordere la preda.
Mia sorella purtroppo continuò a infastidire quella mia mente anoressica che cercava di guarire.
“Ho mangiato l’insalata con carote, finocchi e olive”‐ le dissi fissando la tv dalla quale non avevo distolto lo sguardo.
E in una falsa postura impassibile iniziai a fremere irritata.
“Non mi fido. Cristina, tieni, ti cucino una cotoletta e la devi mangiare davanti a me!”‐ disse lei autoritaria aprendo quel frigo maledetto che partoriva solo cibo.
La sua voce, il suo modo di imporsi, l’odore del cibo che arrivò alle mie narici, tutto ciò fu come un fulmine che mi stava lacerando pian piano.
Lei mi volle cucinare.
E davanti a me pose il nauseante piatto con cotoletta e insalata.
Fu inutile dirle che avevo mangiato, fu inutile ribadirlo, fu inutile giurarlo, fu inutile contestarla.
Fu inutile convincerla: tanto lei non mi credeva, tanto lei aveva perso fiducia in me.
Con costrizione, con il vomito che mi saliva in gola, mangiai.
Mangiai davanti a lei.
Con la fredda sensazione che circolava nelle mie vene, con la maledetta voglia di uccidermi e annientarmi, con la sensazione che nella mia gola l’esofago si chiudesse chiedendo pietà, con la trachea che sembrava volesse chiudersi per crudele solidarietà, mangiai ogni briciolo.
Orgogliosa quando vide il piatto pulito, mia sorella mi lasciò in pace.
Però non aveva capito il danno che mi aveva procurato.
Lei non aveva capito.
Con le lacrime agli occhi corsi in bagno.
Alzai la tavoletta del water.
Due dita in bocca.
Vomitai.
Vomitai tutto ciò che avevo mangiato quella sera.
Forse vomitavo sul mondo le mie insicurezze.
Forse vomitavo sulla gente la mia noia e la mia stanchezza.
Uscii da quel bagno traballante e con le palpebre tremanti.
Ero stata sconfitta da me stessa un’altra volta.
Piena di ira calciai la prima cosa che mi capitò davanti e
corsi da lei, da mia sorella.
Arrabbiata le gridai contro: “Ho vomitato tutto! Io avevo mangiato prima che tu tornassi!”
Lei mi guardò sbalordita. Aveva gli occhi sbarrati, le labbra socchiuse in un sentimento di stupore. Stava cercando un cd da ascoltare nel suo paradiso quando all’improvviso il mio inferno la travolse.
Continuai ad urlare presa da una crisi isterica e iniziai a lanciare per terra tutto ciò che mi capitava tra le mani.
Attonita e con una smorfia di compassione lei voleva abbracciarmi. Desiderava solo abbracciarmi, lei che aveva in quel momento il potere di schiaffeggiarmi.
Venne verso di me aprendo le sue braccia.
I suoi occhi dolci mi penetravano il cuore. Le sue mani, che avrebbero voluto stringere il mio corpo, mi soffocavano.
Mi allontanai, rifiutai il suo abbraccio ed urlai con la rabbia che infiammava la mia gola:
“Io avevo mangiato e stavo bene! Mi hai costretto! E io ora ho vomitato!”
E poi… poi scappai dal mondo.
Uscii, in auto, lontano da tutti, lontano da occhi indiscreti che avrebbero visto il mio corpo obeso.
Sì, era questo il mio pensiero malato.
Ed io non mi accorgevo delle lacrime di mia madre, della sofferenza di mio padre.
Egoista pensavo solo al cibo se fosse giusto mangiare o non.
Spaesata non sapevo più cosa fosse giusto o sbagliato.
Disorientata avevo perso la mia stella polare.
Lui mi aveva lasciato troppo presto.
Lui mi aveva sfruttato troppo presto.
Io avevo solo quattordici anni: cosa ci facevo con un trentenne?
Lui era il mio punto di riferimento.
E quando mi disse addio perché doveva sposarsi con la sua fidanzata, mi crollarono le ossa delle gambe e con esse tutta me stessa.
Allora iniziò il travaglio della mia famiglia.
Io non mangiavo più.
Il cibo era mio nemico.
Il mio corpo non sapeva più come essere: io non sapevo più chi ero e cosa volevo essere.
Cominciarono le battaglie con me stessa.
Iniziò la guerra  con il mangiare.
La mia guerra contro il mondo, la mia guerra contro psicologi senza tatto.
Cosa mi chiese quel dottorando in psicologia quando mi sedetti nel suo studio?
“Perché non mangi?”‐ fu la sua prima domanda.
Io probabilmente nemmeno lo ascoltai e mi chiusi nel mio silenzio.
Non mi rendevo conto di cosa stavo diventando.
I miei sorrisi non c’erano più.
Il mio amore per la mia famiglia era scomparso.
Il mio amore per la vita non c’era più.
Dentro di me fiorivano i fiori del malessere e alla gente manifestavo solo la mia cattiveria.
Era forse il mio modo di difendermi?
Non riuscivo a tornare in superficie, litigavo con me stessa, litigavo con tutti. 

Ero in auto: la musica a tutto volume dallo stereo, i capelli neri sciolti sulle spalle, il pianto su un baratro pronto a scoppiare.
I suoni delle canzoni mi sfioravano la pelle.
Facevo penetrare lentamente dentro le mie costole il ritmo e la voce del cantante dei Radio Head ascoltando “Ideoteque”.
Ricordai i primi tempi della malattia e la prima volta che litigai con mia sorella che mi diceva: “Sei anoressica! Ma ti sei vista allo specchio?”
Io mi infuriai. Erano così seccanti le sue parole.
Ugualmente quella volta iniziai a lanciare oggetti e iniziai a gridare.
Mi sarei aspettata anche quel giorno il suo schiaffo quando vidi la sua mano tendersi.
Invece lei mi accarezzò.
Scoppiai a piangere.
Il mio corpo tremava e piansi come una bimba.
Mi strinsi al suo maglione e singhiozzai.
Mi arresi alla mia debolezza e scivolai sul pavimento, bagnando le mie gote e il mio collo di lacrime.
Farfugliai parole alla ricerca di ciò che volevo veramente dire: forse cercavo di dire “Aiutami”.

Ho combattuto.
Ho pianto. Ho urlato. Ho odiato. Ho cercato amore senza accorgermi che era lì vicino a me.
Per esasperazione mia madre non volle più mangiare.
Decise di diventare il mio specchio.
Decise di fare digiuno pensando che io capissi ciò che stavo commettendo. Sperava che io mi rendessi conto di cosa significasse non mangiare. Sperava che io mi accorgessi del dolore che le stavo infliggendo, facendomi vedere come morivo giorno dopo giorno.
Sono svenuta. Mi sono ritrovata in ospedale con una flebo al braccio.
Iniziai a mangiare ma poi tutto finiva inesorabilmente nel water. Tutto veniva spazzato via dal vortice dell’acqua che poteva nascondere tracce o prove della mia colpevolezza.
Mi guardavo attorno indispettita, mentre prima, quasi un tempo molto lontano, io sorridevo perché vedevo i bambini o perché c’erano gli uccellini sui rami degli alberi.
In quel momento era come se il mondo fosse scomparso.
Per me esistevano solo gli occhi di chi mi fissava giudicandomi e deridendomi.
Durante la mia anoressia tutto ciò, che in un passato non lontano mi offriva gioia, era a me invisibile. Tutto, i sorrisi delle persone, la felicità della gente, erano a me inspiegabili e sgradevoli.

Ma forse qualcosa in me si mosse.
Forse la mia voglia di vivere non si era del tutto assopita.
Forse la mia vera anima, addormentata nel petto, reagì e mi scosse.
Ho cercato allora me stessa. Ho voluto ribellarmi. Ho voluto rialzarmi. Ho voluto dire basta al fantasma che stava prendendo il mio posto.
Ho voluto riafferrare la mia vita.
Ed ora… ora, dopo due anni di assoluto disorientamento, dopo quattro anni di cura e terapia.
Ora ho riscoperto a credere, a credere in qualcosa, ma soprattutto a credere in me.
Ora che so chi sono.
Adesso che sono tornata me stessa.
Ora!
Perché finalmente sono tornata quella me stessa che nemmeno io conoscevo.