All'ombra della Morte

Una storia di rabbia e dolore.
Una storia di sopraffazione, la mia, quella di una  bambina divenuta infine donna, dai grandi occhi scuri come polle d’acqua profonde nella notte.
Un’ostinata selvaggia, diceva mio padre, cresciuta senza regole e senza un‘adeguata educazione.
Una ragazzina ossuta e  poco femminile, ero io per mia madre, lei lo ripeteva sempre; una nobile castellana con una figlia impossibile, lei, consorte di un marito padrone, lei con molti altri figli più rispettosi di certo alla quale badare.
Lei: consumata dalla morte. Infine.
Ero una bella ragazza, focosa e determinata per Erin il mio promesso, decisa la nostra unione da entrambe le famiglie quando aveva poco meno di sei anni. Questo era ciò che egli sapeva, questo è quanto gli avevano raccontato di me nel corso degli anni.
Ed adesso cosa sono diventata?
Cosa rimane di una bimba che sognava di divenire una principessa guerriera, come nelle più belle favole, quando si perde tutto ciò che si ha cosa resta, se non la rabbia, la cattiveria prima sopita e quel sensuale e appagante piacere che si prova nel vendicarsi e  far del male a chi ti toglie ogni cosa per sempre?
Cosa, dunque adesso?
Una donna fredda, distante, un monolite di pietra scura, seducente forse, nella sua bellezza priva di canoni fissi, molti gli amanti che l’hanno detto, con un modo di fare erotico, con gesti apparentemente laconici e calmi, sottilmente allarmanti, equivoca, provocatrice, un diabolico labirinto di specchi, un intrico di rami contorti, un caleidoscopio che riflette sempre la stessa immagine, ogni volta da prospettive differenti, deforme, distorta, tanti aspetti capaci di restituire ad ogni modo una visione a tutto tondo.
Sfuggente e fragile, attraente e sinistra, fino a provocare la repulsione nella gente (quanto odio sento piacevolmente attorno a me?), ma ugualmente desiderabile, esile e pallida, ossuta. Maestra nell’avvolgere sempre di più strettamente le vittime che desidero e amo, fra le ombre ovattate e languide, possessive, che da tempo ormai mi stringono in spire mortali.
Ardente e passionale se voglio, se razionalmente decido di farlo, per poter raccogliere torpori inquieti, dolcezze malate e folli.
Mostruosa e forte, (tutto ciò mi spaventa?), colma di potere, come può esserlo solo il Male, accanita e caparbia nel mio demoniaco compito, per la Morte, per l’Oscura mi mostro, tuttavia, docile languida, come una creatura sospirosa e fragile, coperta da un velo di malinconia quasi stanco: il preludio di una fine che si rivela inesorabile prima ancora che per le mie vittime, per me stessa.
Seduco per la morte e dalla morte sono sedotta in un gioco macabro di specchi e labirinti.
Un fascino ineffabile e potente, quanto mortale, che si consuma nella pozza scura dei miei occhi.
Mortale sì: per chi giunge e soccombe, trascinato da questa spirale di doppiezza ed ambiguità che adesso mi caratterizza, perennemente in contrasto tra pietà e paura, disgusto e inesorabile attrazione, che rendono ogni volta più sfumate ed incerte le linee di confine tra Bene e Male, realtà e sogno.
Come può un ramoscello divenire tronco che abbatte?
Un uccellino piumato divenire predatore?
Possono gli avvenimenti della vita trasformare il bianco in nero o vi è già del nero sotto una crosta bianca di sale?
Non è da molto tempo che tutto è iniziato, io sono stata la pietruzza che è scivolata nel baratro del pozzo, cadendo sempre più giù, in fondo.
Un’infanzia tormentata, contrasti e discussioni, un villaggio ed un enorme maniero.
Non ho molti altri ricordi, credo di aver deciso da tempo di celarli a me stessa, di rimuoverli completamente dai pensieri della mia mente. Venivo picchiata, da bambina testarda che non accetta alcun consiglio dagli adulti, non ero molto benvoluta dalla gente che lavorava al servizio di mio padre; tutti dovevano e volevano educarmi ad essere servile per divenire una perfetta castellana, una futura moglie ed un'amorevole madre.
Erin, lui è solo un puntolino grigio in un angolo minuscolo della mia mente, un ragazzo smilzo e noioso, il mio futuro e promesso sposo. Alle due famiglie la nostra unione avrebbe portato enormi vantaggi e ricchezze e molte terre.


Erin giunse nella mia dimora accompagnato da una scorta, due giorni prima del mio dodicesimo compleanno per ufficializzare la nostra unione, per chiedere formalmente la mia mano. Questo accadde prima che tutto avesse inizio.
Non sò quali sentimenti io provassi per lui a quel tempo,  lo avevo visto solo due volte prima di allora, durante due delle feste ufficiale e la prima volta ero addirittura troppo piccola per ricordarlo. Indifferenza forse, un destino già deciso dal giorno in cui ero nata non mi scalfiva di certo, le costrizioni però mi infastidivano e rendevano me, un’adolescente irascibile.
Quattro giorni dopo la festa di Sahmain una violenta discussione, l’ennesima con mia madre e due delle mie sorelle più piccole. Imposizioni su imposizioni non riuscivo a sopportarlo, lasciai la mia casa livida di rabbia, infuriata per le loro idee e decisioni sulla mia persona, mi sentivo ancora una bambina e loro desideravano che divenissi una donna in pochi giorni.
Correvo nel bosco, ettari ed ettari di verde e di silenzio, correvo lasciandomi alle spalle le liti, le urla, le percosse ricevute.
Sapevo che mi avrebbero cercato, ero certa che avrebbero passato la notte a chiedersi dove fossi finita, ma non mi importava, era già successo altre volte, quando sarei tornata mi avrebbero nuovamente picchiato, ma non aveva importanza nemmeno quello.
Due giorni trascorsero e della mia famiglia nessuna traccia, mangiavo ciò che trovavo, ciò che il bosco mi offriva pur essendo una stagione rigida, bacche e frutti, ero stanca ed infreddolita, ma troppo testarda e tenace per abbassare la cresta e ritornare.
Un pomeriggio, il terzo dal giorno dalla mia fuga, riposavo sotto una quercia, riparandomi dal vento che si era levato ormai da ore preannunciando un temporale, non ebbi il tempo nemmeno di rendermi realmente conto di cosa stesse accadendo quando mi sentii afferrare da  tre uomini. Una stretta brutale ai polsi ed alla  vita, il dolore che esplodeva nella mia testa a causa di un pesante pugno al volto, una nebbia rossastra che circondava i miei pensieri. Non mi servì a nulla inveire contro di loro, scalciare, mordergli mani, se non a farli ridere di più ed a farli godere nel picchiarmi ancora, iniziai a sentire il sapore del mio sangue in bocca seguito infine da un’idea che nata in quell’istante turbava la mia mente.
Se mi fossi chiusa in me stessa avrei sentito meno dolore? 
Se avessi finto di essere remissiva, avrei placato il loro  essere bestiali e sarei sopravvissuta.
Misi in atto ciò mentre mi trascinavano verso il maniero, verso la casa dove avevo vissuto la mia infanzia, dove coloro che mi avevano cresciuto vivevano, ed un acre odore di fumo e carne bruciata mi giunse alle narici facendomi rivoltare lo stomaco; alcune capanne dei contadini non erano che cenere, dinanzi all’ampio e massiccio portone del maniero vi erano mobili rotti, pergamene bruciate, vesti lacere e sangue: sangue da ogni parte.
Non una smorfia, né una lacrima sconvolse il mio viso.
Non potevo crollare, non desideravo farlo e la vista dei miei genitori e dei miei fratelli in catene mi diede un inaspettato e sconvolgente moto di gioia. Rimasi senza fiato per lunghi istanti, attonita, poi le mie labbra si incresparono in un vago ed ebete sorriso, una sorta di liberazione definitiva dalle loro angherie pensai, era dunque giunta. Mia madre mi guardò con occhi lucidi e imploranti, ma io volsi lo sguardo. Osservavo intorno a me ogni particolare per imprimerlo nella mente per sempre, razionalizzavo, pensavo e cercavo un modo per uscire vincitrice da quella situazione.
Potevo perdere la battaglia, ma di certo non la guerra.
Misero in catene anche me, ero pesta e dolorante, ma al momento non me ne curavo.
Fra i prigionieri vi era anche Erin, legato col viso gonfio e gli occhi arrossati di pianto, frignava come un bambino ed  il vederlo così mi disgustava, giurai a me stessa che mai mi sarei concessa ad uomini che non erano degni di appartenere a quel sesso.
Nel salone principale una banda di sassoni banchettava con le nostre provviste, sghignazzavano paghi del loro bottino. Venni trascinata fin davanti ai piedi di un uomo, il loro capo, biondo e grasso, con una lunga barba incolta, il viso rubicondo dalla troppa birra bevuta: fui costretta ad inginocchiarmi dinanzi a lui da uno dei suoi uomini come nuova preda, come animale catturato; non parlai, alzai semplicemente il capo per fissarlo, con aria di sfida, in reazione a ciò ricevetti un sonoro ceffone e la mia espressione di odio lo fece  scoppiare a ridere, sentivo il sapore ferroso del sangue in bocca mentre egli faceva cenno al suo uomo affinché mi conducesse in un angolo, legata come una cagna.
Tutto adesso mi appare chiaro alla mente, i miei ricordi… mi occorre semplicemente chiudere gli occhi per avere una verosimile raffigurazione della sala e di ciò che quel giorno, io giovane e spaventata seppur spavalda, avevo intorno.
Sasso dopo sasso eressi un muro, chiusi persino le crepe più piccole e insignificanti del mio essere; gelo misto al dolore ed ad uno strano senso di appagamento nell’essere finalmente da sola, sola ed unica nella mia esistenza,  giunsi finanche a determinare i nuovi valori della mia vita.
Me stessa prima di tutto, sopra ogni cosa. Io, le mie pulsioni, i miei desideri e il mio senso di grandezza che dilagava prepotentemente spazzando via tutti gli argini che col trascorrere degli anni mi avevano costruito intorno.
Niente in quei giorni riuscì a scuotermi esteriormente, più di quanto in verità non lo ero nell’anima, dentro di me infuriava una tempesta, fuori vi era il mare placido.
Né le torture agli uomini, fatte per il sollazzo dei briganti, né i gemiti dei miei familiari, né la loro agonia fino al sopraggiungere della morte che da giorni incombeva con il suo puzzo, in ogni angolo della sala.
Legata in un angolo, osservavo silenziosa  lo svolgersi degli eventi.
Una risata troppo rauca, una manata data con forza alla natica di una serva, un cane che latrava dalle cucine, una musica fastidiosa, troppo melensa per la situazione e per le mie orecchie mortificate dalle urla di chi come me era ancora vivo e  prigioniero, il suono riempiva la stanza strappato da una armonica rudimentale suonata da uno degli uomini.
Ballavano i briganti ubriachi, danzavano allegri e macabri, sornioni come i gatti che sbranano i topi dopo aver giocato con loro, girovagavano per le stanze del maniero saccheggiandole di ogni suo avere, nelle camere padronali avevano trovato una cospicua somma  che gli avrebbe assicurato una buona rendita per gli anni a venire e adesso contavano quei denari, soppesavano i gioielli, ammiravano i candelabri, le ciotole, gli arazzi, mentre i miei familiari gelidi e ammucchiati in un angolo come stracci smessi, iniziavano ad emanare il sentore della putrefazione ed erano lauto pasto per mosche e ratti.
Frignavano le altre donne, le serve sopravvissute obbligate a servire i ladri, alcune legate come me, inciampavano di tanto in tanto coi vassoi colmi di cibo attirando su di loro gli scoppi d'ilarità della combriccola, erano state maltrattate, erano seminude e piene di lividi,  erano probabilmente già gravide, violentate quella prima notte di soggiorno dai nostri villici visitatori; dal mio angolo riuscivo ad immaginare la scena e le loro pietose suppliche.
Ero combattuta, il mio spirito si lanciava verso qualcosa che mai avevo pensato, desideroso ad unirsi a quei maltrattamenti, a quei bestiali soprusi; volevo divenire da vittima a carnefice, desideravo far del male anch'io per ripagarmi da anni di angherie, poi d'improvviso la corrente del mio pensiero cambiava il suo corso e desideravo che la morte giungesse anche per me, prima che mi fosse riservata la stessa sorte delle altre vittime, cambiavo umore come una dama cambia il suo abito, idee contrastanti affollavano la mia mente, non sapevo nemmeno cosa volere.
Pregavo che arrivasse la morte veloce e senza dolore in ogni istante lucido della mia giornata, poi mi lasciavo andare al delirio e desideravo che la Signora giungesse a me nella maniera peggiore, che mi facesse soffrire più di come soffrivo, che tutto fosse atroce e potesse distruggere il muro che si era creato dentro il mio corpo, che fosse violenta magari, in modo da poter spazzare tutto con le lacrime, ma ogni mio pensiero era comunque invano, serviva semplicemente a far scorrere il tempo più in fretta.
Nessuno arrivava a portarmi via, né la morte, né un azzurro principe delle favole e nessuno si avvicinava a me e mi faceva del male.
Certo, ero trattata da prigioniera, ero legata, soffrivo la fame, ma a parte qualche pesante schiaffo assestato sul mio viso e sul mio corpo in malo modo, nessuno posava gli occhi colmi di cupidigia su di me.
Iniziai a chiedermi cosa avessi di sbagliato, di diverso rispetto agli altri, alle serve formose, che di certo da lì a pochi mesi avrebbero messo al mondo figli bastardi, alle mie sorelle, bambole rigide e fredde, ormai morte da giorni semplicemente perché erano le figlie del padrone.
Iniziai a chiedermi se sapessero realmente chi fossi, iniziai a chiedermi perché mi riservavano questo diverso trattamento, cosa li divertiva, cosa li allarmava, se fosse il mio corpo gracile e per questo ripugnante, il mio sguardo duro o semplicemente la mia persona a tenere lontane le loro voglie, ma ogni scelta che la mia mente faceva mi pareva improbabile ed assurdamente ridicola.
In quei giorni ancora non capivo quanto in verità potessero guadagnare nel mantenermi intatta, avevo appena dodici anni, ero molto ingenua.


Trascorsero circa due settimane, non so bene con esattezza: alternavo momenti di veglia e pensieri chiari a momenti di pura trance indotta, dalla disperazione forse, dalla determinazione o da qualcosa di più grande… chi può dirlo cosa già da allora era stato scelto per me, per il mio futuro; poi una delle tante mattine piovose la ciurmaglia di uomini decise di andarsene a razziare qualche altra proprietà.
Mi trascinarono con loro, ne fui felice, sempre meglio che marcire alla dimora, dove ormai chi conoscevo era morto, era storpiato o semplicemente trattato da schiavo.
Stavo male, vomitavo il poco cibo che avevo ingerito, i tozzi di pane raffermo che avevo mi avevano gettato e che avevo ingurgitato violentando il mio stomaco, probabilmente avevo la febbre, a fatica riuscivo a mantenere il silenzio che mi ero imposta ed il condegno determinato, con la poca volontà che mi era rimasta riuscivo ancora a mostrarmi come qualcosa di solido, come un giunco, fragile, fragilissimo, che si piega, ma di certo non si spezza.
Settantotto giorni senza una parola, (lo seppi soltanto dopo…), quando feci il conto a quei tempi, mi parse davvero strano, assurdo, inconcepibile, adesso invece sembra che neanche ci faccia più caso, a volte mi appare davvero superfluo il suono della voce, troppo stridulo, troppo irruento e troppo spesso fastidioso.
Giungemmo in un porto, io insieme ad altre tre donne della quale non seppi in alcun modo la fine, quattro bambini ed una decina di uomini.
Il vociare, la confusione e gli odori  attorno a me mi davano la nausea, poco dopo ad essa si unì  lo sfinimento fisico; ricordo che quel giorno svenni più volte, qualcuno mi sosteneva, per quanto lo odiassi non riuscivo ad impedirlo, infine confusa e dolorante ripresi coscienza e mi risvegliai su di una nave in mare aperto. Sentivo le onde rollare sotto le assi e il ronzio di suoni e voci di molte altre persone vicino a me, c'era inoltre un odore rancido che permeava nella stanza.
Ero stata venduta.


Non desidero riportare ancora i giorni ormai  scoloriti nella memoria del mio viaggio in mare, i volti sofferenti ed esterrefatti degli altri prigionieri, le strette catene, la fame, i ratti e tutti gli orrori, e la morte così vicina che mieteva vittime su vittime, che prendeva senza una parola i miei compagni di viaggio. L'abbracciarono in tanti, se ne andarono colmi di orrore e dolore con lievi lamenti, come animali feriti. Io rimasi lì rannicchiata, annichilita dentro dal mio dolore, senza che nulla riuscisse a spezzarmi, chi parlava la mia lingua nella stiva discuteva a bassa voce della loro futura sorte, chi parlava pensava che fossi muta e sorda, pensava che non capissi, che fossi una stupida. Dopo alcuni giorni in cui fallirono tutti i loro tentativi di dialogo ed approccio mi ignorarono, ed io li assecondai preferendo il silenzio e la concentrazione, la ricerca dei miei pensieri e dei miei nuovi scopi nelle lunghe ore di attesa, probabilmente se avessi voluto parlare non sarei stata in grado di farlo, tanto il trauma aveva devastato il mio essere. Per tutta la durata della traversata rimasi silenziosa e cercai di essere vigile e sorprendentemente lucida, per quanto le forze lo consentissero.
E poi ancora alla luce del sole dopo giorni e giorni, altri viaggi, carovane, ancora prigionieri e catene, lingue e posti sconosciuti, uomini dalla pelle scura, donne minute e tonde col viso e i capelli coperti da veli ed un caldo soffocante che mi lasciava senza fiato e faceva tornare in me l’immensa voglia di abbracciare nel gelo l’oscura Signora che tutti in cuor loro chiamavano ed alcuni addirittura invocavano.
Pensavo di poter crollare da un momento all'altro, ma vi era qualcosa dentro di me che mi impediva di farlo, la rabbia, che mi divorava le viscere impedendomi di diventare sabbia del deserto, piccola, insignificante e scivolosa fra le mani. Cambiai padroni più volte, fui venduta da un mercante ad un altro, tanto che alla fine realmente non seppero se fossi in grado di parlare o se fossi realmente una succube muta, capivo di questo erano certi, ero una ragazzina sveglia e per questo probabilmente i denari attorno a me circolavano.
Poi giunse un’ ultimo padrone alla quale fui venduta ed osannata come se fossi un bel fiore.
‐ Ed ecco la nostra perla,  il nostro fiore del nord, la nostra bellezza esotica del mare glaciale.
Ammirate la sua pelle chiara e gli occhi scuri. Vi assicuro signore, non vi è donna più silenziosa, remissiva  e pronta ad ogni voglia e desiderio, guardate la sua bellezza acerba di chi fra qualche anno diventerà armonia preziosa. Il vostro padrone non resterà deluso. E’ muta, ma è sveglia, cosa può desiderare un uomo di più?‐
Mi descrisse così il mercante agli occhi dell’eunuco dinanzi a me pronto a comprarmi.
L’effeminato servo parve soddisfatto e fu in un harem che si concluse la prima parte del mio viaggio.