Biomat 2030 (parte 2)

Paolo Pensatori era sdraiato sul suo letto. Non avendo un materasso Biomat, né vecchio né tantomeno nuovo, cambiava frequentemente posizione. La calura dell’estate gli faceva bollire il sangue e il lenzuolo si scaldava e inumidiva rapidamente, costringendolo a una continua danza coricata.
Si rigirò su un fianco, ma ben presto il braccio incominciò a indolenzirsi e formicolare, per cui dovette mettersi supino e agitarlo un po’, facendolo penzolare dalla sponda del letto.
Erano appena le 5 del mattino, ma il caldo era opprimente, Milano faceva di tutto per ricordare ai suoi abitanti di essere una città dal clima infame. Guardò la sveglia, fece un rapido calcolo di quanto ancora potesse concedersi di quello stressante riposo e si convinse che tanto valeva alzarsi.
Alle 6 si sarebbe dovuto svegliare comunque, per inforcare la bicicletta, pedalare fino al capolinea della metropolitana e con essa raggiungere la città, per recarsi al lavoro. Faceva le pulizie in vari posti, al mattino in un condominio privato, al pomeriggio puliva le vetrine di alcuni negozi del centro, e alla sera il grosso del lavoro, le pulizie nel centro commerciale di Piazza ****.

Tutti quei lavori gli procuravano appena di che tirare avanti. Nel 2030 la società italiana si era ulteriormente avvicinata agli standard globali. Mezzo mondo relativamente benestante, mezzo mondo morto di fame, e una piccolissima élite di milionari e miliardari. In teoria lui apparteneva alla prima categoria, essendo inserito nel mondo del lavoro, seppur sempre precario e insicuro, mentre i milioni di disoccupati, giovani e meno giovani, consumavano la propria esistenza nella disperazione.
Il lavoro era schiavitù per la maggior parte delle persone, ma senza quella schiavitù c’erano solo emarginazione totale e miseria.

Il blindato della polizia passò sferragliando nella strada sottostante, un riflettore illuminò le sue finestre, per poi passare a quella seguente e poi all’altra ancora, setacciando il quartiere in cerca di comportamenti sospetti.
Alcuni colpi d’arma da fuoco risuonarono in fondo alla via. Il blindato rombò in tutta la sua rauca potenza e si lanciò verso i criminali. Probabilmente una delle tante bande di poveracci che si erano traformate, nel tempo, in vere e proprie cosche di briganti, compiendo atti di rapina, ribellione e violenza gratuita in egual misura.

Da parecchi anni l’ordine pubblico era una specie di parola vuota e priva di senso. E più si svuotava di significato più appariva e risuonava sui giornali, alla tv, dappertutto.
Arginare la marea endemica di delitti, piccoli e grandi, futili e atroci, era divenuto una specie di caccia alle mosche. La miseria aveva abrutito e incattivito intere generazioni, nessun valore politico, religioso, civile, era ormai capace di ricondurre milioni di sbandati, diseredati e reietti, sulla via dell’integrazione.
Contava solo il denaro, come era sempre stato nel mondo, con la differenza che non esisteva più nemmeno una parvenza di morale, motivata o infondata, a calmierare i comportamenti.

Paolo accese la tv con un gesto automatico.
Dentro alla scatola magica una soubrettina quattordicenne ballava e cantava il tormentone dell’estate, mentre i sottotitoli comunicavano la nuova strategia anticrimine, rivolta alle fasce adolescenti. Proibizioni, piani di istruzione, riforma delle carceri. Intanto la pubescente ninfetta gridava a voce acuta “Io sono cattiva, e faccio la cattiva, non mi star davanti, vado solo coi vincenti...”

In strada le scariche di mitragliatrice silenziata, per non turbare troppo la popolazione, risuonavano come schiocchi di palloncini, tra i palazzoni della periferia milanese. Nel caldo fermo e opprimente nessuno si stupiva, erano divenuti parte integrante dell’esistenza. L’indomani qualche traccia di sangue per terra,  qualche buco in più nei muri e nell’asfalto, qualche macchina bruciata, qualche imprecazione, e tutto sarebbe andato avanti lo stesso.

Paolo Pensatori si sfregò le mani, rese secche dall’uso quotidiano di detersivi sempre più aggressivi e risolutori, se le passò sul viso, una barba ispida e pungente gli ricordò che quella sera doveva vedersi con Giulia, la sua quasi ragazza, e doveva radersi. Disgraziata quanto lui, commessa nel supermarket dove faceva le pulizie, si erano conosciuti litigando, per una improvvida scivolata della giovane schiavetta sull’ingresso ancora bagnato del centro commerciale.
Lui l’aveva aiutata a rialzarsi, lei gli aveva rivolto un diluvio di insulti. Per fare pace Paolo l’aveva invitata a cena e quella sera stessa avevano scopato.
Non c’era grande sentimento fra loro, piuttosto una ruvida e cinica complicità sessuale. Non si consideravano amici che scopano o colleghi che scopano, si sentivano invece come due diavoli o due angeli maleducati e prigionieri. Ognuno con il suo grosso e pesante fardello di esperienze crude e sofferte, avevano trovato nel loro menage fatto di litigi e scopate, una valida valvola di sfogo.

Lui però non le aveva mai messo le mani addosso, a differenza di tanti altri, era un poveraccio, poco acculturato e senza un futuro in cui sperare, ma non era un delinquente o un violento, anzi, era fin troppo rassegnato e accondiscendente con tutti. La sua vita era su un binario di quieta disperazione, senza sogni, senza illusioni, senza scosse.

Lei gli rinfacciava spesso questa sua passività, lo chiamava codardo, paraculo, fregnone, ciapparatt, e lui le rispondeva in egual modo, dandole della sciaquina, ignorante, zoccola. Litigavano, si urlavano un po’ in faccia, e poi finivano a letto, a stemperare la rabbia delle loro vite normali e disgraziate, come milioni di altri.


Roberto Mussi era seduto alla sua postazione di lavoro, nel suo cubicolo di due metri per due, all’interno dell’open space di 400 metri quadrati, al 12° piano del Pirellone 2. Stava scambiando email di fuoco con un collega in America, al quale domandava da una settimana gli aggiornamenti del software a cui lavoravano da più di un anno. Erano indietro con i tempi di produzione in maniera spaventosa, in ditta si sapeva già che non sarebbero riusciti a rispettare i tempi previsti e si era scatenata la caccia ai colpevoli. Le voci di imminente ristrutturazione avevano fatto tremare tutti i cento e passa informatici, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. La sede di Milano era la meno minacciata, essendo occupata soltanto nelle procedure di analisi del prodotto. Ma comunque tutto il lavoro aveva preso una piega isterica e scorretta, ognuno cercava di pararsi il sedere, di scaricare sugli altri la colpa dei ritardi.
Roberto passava in rassegna schermate di codice, alla caccia di bachi, correggeva gli errori che riusciva a scovare, e faceva ripartire la simulazione, per tutto il giorno, da sei mesi. Ormai lo faceva automaticamente, si sentiva lui stesso un’appendice del computer o una subroutine del programma.
La sua professione gli dava di che vivere decentemente, aveva un appartamento, non troppo decentrato, una macchina, una fidanzata, con la quale contava di sposarsi entro un paio d’anni.
Ma la sua vera gioia non era quel lavoro monotono e snervante. Le sue vere sfide le viveva di notte, in rete. Era un hacker di quelli tosti, uno che era riuscito a violare database di banche, ministeri, agenzie investigative. Il suo nikname era famoso in rete. Si faceva chiamare Bio, per affermare la sua superiorità di essere umano, biologico, sulle macchine.
La rete, per Bio, non aveva quasi segreti. Non aveva mai cercato il guadagno dalle sue imprese, sarebbe stato un rischio assurdo. Sapeva bene che quando uno comincia a fregare denaro è destinato ad essere acchiappato. Già fare danni era una cosa grave, un crimine per il quale erano previste pene sempre più pesanti. Ma tutto sommato ogni azienda e ogni privato cittadino si metteva in conto il rischio di violazione, e tutto andava a incrementare i cospicui guadagni delle compagnie assicurative. Un circolo vizioso che funzionava, e tutti erano contenti, o per lo meno non troppo infelici.

Bio aveva seguito, alcuni mesi avanti, la promozione del nuovo materasso Biomat 2030. lui ne possedeva un modello vecchio di tre anni, comodo, funzionale, ormai irrinunciabile. Per un maschio italiano che vive da solo, non dover cambiare le lenzuola e rifare il letto è già un gran bel previlegio, e Biomat 1.3 assecondava con indubbia efficienza la sua indolenza.
Ma Biomat 2030 era qualcosa di diverso. Era una nuova frontiera del sonno, della comodità, del piacere.
Roberto aveva desiderato immediatamente Biomat 2030, ancor più dell’avvenente Melissa Johanssen, che godeva tra le appendici del nuovo materasso biologico. Il pensiero di essere massaggiato e manipolato dal materasso, magari insieme alla sua fidanzata. gli aveva risvegliato i sensi, già piuttosto eccitabili.

Il prezzo di Biomat era però proibitivo. Era destinato ad una fascia di utenza alla quale lui non apparteneva, avrebbe dovuto accendere un mutuo per comprarselo. E non poteva permetterselo.

Il direttore della sede milanese dove lavorava, Fulvio Marcellini, con il quale era stato in amicizia, prima che sposasse la figlia del presidente e la sua carriera partisse a razzo verso orbite a lui sconosciute e inarrivabili,  quando lo incrociava nei corridoi o sull’ascensore, non mancava mai di sventolargli in faccia le sue esperienze con Biomat 2030. Amplessi multipli, acrobazie inverosimili. Sicuramente inventava molto, con quella sua arrogante finta complicità di ex amico, che serviva soltanto ad affermare ogni volta che lui era arrivato, mentre Roberto ristagnava in una posizione medio bassa, senza prospettive, senza una casa in centro, senza un Biomat 2030.

La maliziosa mentalità hacker di Roberto cominciò subito a meditare vendetta, quasi per un riflesso condizionato. In fondo cos’è un hacker, se non un tardo adolescente frustrato, che combina guai agli altri per compensare la propria insoddisfazione, un “casseur” virtuale.

Quella sera, dopo mesi di riflessioni e scambi di informazioni con altri hackers, Roberto “Bio” Musso, entrò in rete, a caccia del suo quasi omonimo materasso, irraggiungibile oggetto del desiderio.
Comparve, mascherato da messaggio di posta, davanti a molte delle porte di ingresso della Permaflux, ma tutte gli negarono l’accesso. Si finse acquirente del nuovo materasso, cercando di attivare un’ ordinazione on line, che poi non avrebbe potuto pagare. Il sistema di firewall era ben congegnato, i suoi tentativi di intromissione non ebbero successo.
Dopo quattro ore che si aggirava intorno alle alte mura elettroniche della Permaflux, le molteplici tracce delle sue intrusioni attirarono l’attenzione del sistema di difesa della multinazionale. Un messaggio di avvertimento lampeggiò sul suo monitor, il sistema non avrebbe tollerato un ulteriore tentativo di intromissione da parte del suo ID, riconosciuto e registrato.
Ce n’era a sufficienza per fare incollerire anche il più posato dei pirati informatici, essere beccato così facilmente era una vergogna incancellabile per Roberto. Per fortuna nella rete circolano solo le notizie dei successi o quelle degli arresti clamorosi, non i milioni di facciate che gli hackers, maldestri o geni, prendono quotidianamente.
Per quella sera la partita era chiusa. Avrebbe dovuto riprovare su una macchina diversa, cammuffata e irriconoscibile. Avrebbe provato dal computer del lavoro. Conosceva la rete aziendale come le sue tasche, l’aveva progettata in gran parte. Con le risorse della sua azienda avrebbe fatto meglio il giorno dopo.


Il manifesto gigante di Melissa Johanssen, distesa su un Biomat 2030 luminoso e dai colori cangianti, troneggiava all’ingresso della tangenziale. Francesco Esposito accelerò la sua BMW, facendo stridere le gomme, nonostante i numerosi dispositivi antiskating della berlina nuova fiammante. Un autotreno, che giungeva da dietro alla infima lentezza di 80 chilometri all’ora, azionò il tuonante clacson, solo per infastidire la manovra del giovane e aitante napoletano.
Esposito abbassò il finestrino e mostrò la mano in inequivocabile messaggio e sfrecciò via a centottanta in 6 secondi netti.
Aveva fretta di arrivare a casa, la telefonata che lo aveva raggiunto durante la sua trasferta a Sanremo, lo informava della consegna del suo nuovo e costosissimo Biomat 2030.
Non vedeva l’ora di provarlo. Si era già accordato con un paio di amiche, modelle dell’agenzia per cui lavorava come talent scout, per collaudare lo stupefacente materasso in un fantasioso e trasgressivo triangolo quadrilatero.
A Sanremo non aveva avuto fortuna al gioco, il suo conto corrente era vuoto come il suo stomaco, ma la banca non avrebbe brontolato questa volta, stavano per arrivare i primi dividendi della sua nuova scoperta. Lo stomaco si limitava a emettere qualche sporadico lamento e a versare copiosamente succhi gastrici inutili e dannosi. Una ennesima pastiglia di antiacido risolse il problema al primo semaforo del centro. Ormai le divorava come caramelle.

Per riuscire a entrare nel mondo della moda e dello spettacolo Francesco Esposito aveva fatto di tutto, dalle marchette con il boss gay di turno, o con la babbiona rifatta male, al sotterfugio, al ricatto, al piagnisteo con il politico parente. La famiglia aveva sborsato fior di quattrini per mantenerlo a Milano, nei due anni che gli ci erano voluti a raggiungere l’obbiettivo. Appartamento in centro, macchina costosa, abbigliamento adeguato, coiffeur una volta a settimana, cene, spettacoli e concerti. Francesco si era fatto vedere ovunque per tutti quei due lunghi anni, durante i quali i genitori credevano stesse sgobbando come un pazzo sui libri di giurisprudenza e i tirocinii in studi legali. Era il loro figlio primogenito, non potevano negargli nulla. Lo volevano a tutti i costi stabilito e realizzato al nord. Quando seppero che la laurea era soltanto una chimera e il loro benedetto figliuzzo si era fatto un nome nella Milano dello spettacolo, come intermediatore, non poterono far altro che accettare la nuova sorprendente professione del giovane che, a quanto pare gli stava dando anche ottimi guadagni, seppure a fasi alterne.

La potente BMW si arrestò davanti al condominio ****, davanti alla porta del garage. Esposito attese fremendo che la porta metallica si aprisse, tamburellando sul volante al suono della canzone tormentone dell’estate. La piccola  Jo Trillo cinguettava e ugolava la sua canzone d’esordio “Sono cattiva”. Era una sua scoperta, l’aveva lanciata lui, dopo averle dato una bella ripassata ovviamente. Era una sciacquina, tanto stupida quanto carina, ma aveva tutti i numeri per sfondare. Il pezzo lo avevano scritto a quattro mani due vecchie volpi della music factory, la casa di produzione imparentata con la sua agenzia di moda e spettacolo. In pochi mesi Jo Trillo era divenuta l’idolo di schiere di ragazzine urlanti e maschietti brufolosi e arrapati. Ed era una sua creatura, che gli stava fruttando il meritato guadagno e rispetto nell’ambiente. Le critiche sollevate dai soliti benpensanti erano servite soltanti a rendere Jo Trillo più desiderabile e invidiata, e Francesco Esposito più arrogante e soddisfatto.


Quando Paolo Pensatori varcò la porta dell’ipermercato, verso l’ora di chiusura, le luci di Milano già sfavillavano sull’asfalto, e gli ultimi avventori si affrettavano all’uscita. In mezzo a loro la piccola e formosa figura della sua ragazza, Giulia, uscì correndogli incontro, fino a cozzare contro il suo petto imponente e le sue guance appena rasate.
Nel confuso squittire della commessa, Paolo riuscì solo a capire due parole...Biomat 2030....vinto.
Dopo aver fatto calmare la focosa cassiera, si fece rispiegare tutto dall’inizio con calma. Giulia aveva partecipato al concorso promosso dalla Permaflux, allegato alla rivista di cosmesi che comprava da sempre. Aveva vinto un Biomat 2030 full‐optional. La sua foto sarebbe comparsa sulla rivista del mese seguente, sdraiata come la divina Melissa Johanssen, sul rivoluzionario materasso.
Alla notizia, ripetuta saltellando come Piggy del Muppet show, Paolo non si scompose più di tanto, anzi per nulla. Si limitò a sussurrare all’orecchio eccitato della sua quasi ragazza che con quel materasso le avrebbe fatto vedere le stelle. Detto questo si divincolò dall’inusuale abbraccio di Giulia e si avviò a pulire i pavimenti.

Due giorni dopo un furgone della Permaflux si aggirava guardingo per i viali tutti uguali della periferia, in cerca della fortunata vincitrice. Incappò malauguratamente in una delle numerose bande di nuovi briganti e furgone e materasso scomparvero nella nebbia mattutina. A nulla valse il rumoroso inseguimento del blindato della polizia.
A causa delle richieste inevase, l’ambìto premio di Giulia la cassiera, non sarebbe stato consegnato prima di due mesi. Per il servizio fotografico sulla rivista sarebbero ricorsi a un bel fotomontaggio professionale, curato dalla efficientissima Ruffi, Ani & Felici.

Paolo faticò del bello e del buono per cercare di consolare l’afflitta commessa. Conclusero con una solenne litigata ed una ancor più solenne scopata, sul vecchio e umidiccio materasso di Paolo.

Il Biomat 2030 trafugato finì invece in casa di Don Peppino detto “ O’squartamaiali”, nel quartiere fortezza di Napoli Est, dopo lungo e periglioso viaggio occultato all’interno di un camion di ricambi per auto. Don Peppino non sapeva che farsene di quella roba da finocchi, ma la sua amante, giovane e concupiscente, lo desiderava molto. E lui non era soltanto uno squartamaiali, sapeva anche come mostrarsi generoso con le sue donne.


Nella sera del 14 Agosto 2030, Roberto “Bio” Mussi, era rimasto in ufficio dopo l’orario. Ormai tutti i colleghi se ne erano andati, confabulando come al solito sugli effetti della ristrutturazione imminente dell’azienda. Temendo per il posto di lavoro, ognuno si dava da fare più del solito, ma non tanto da scoraggiare il prode Roberto. Aveva atteso fin dopo le sette e mezzo, poi si era recato in bagno, aveva fatto una clamorosa evacuazione intestinale, si era preso un caffè doppio alla macchinetta, e quindi si era risistemato alla sua scrivania, davanti al computer che gli avrebbe aperto le porte della Permaflux, vendicando l’onore ferito alcuni giorni prima.

Armeggiò, nel buio e nel silenzio dell’ufficio deserto, con cavi e hard disk esterni. Collegò quel che doveva al server centrale e installò sulla macchina un programma creato ad hoc per quell’impresa memorabile.

Per alcuni minuti Bio si aggirò nei meandri della rete, in cerca del canale giusto, per confondere le tracce e raggiungere ancora una volta gli alti bastioni elettronici della Permaflux.
Agghindato come un ordine di servizio esterno, riuscì a penetrare nel cortile virtuale dell’azienda, aggirando i feroci cani da guardia elettronici e gli occhiuti sorveglianti binari.
Forzò un paio di porte, anonime e grigie, sul retro della facciata numerica, si intrufolò su per scale fatte di bits, fino a raggiungere il piano desiderato. Lì risiedeva la mente che aveva progettato e gestiva più di mezzo milione di Biomat 2030. Sfogliò con attenzione interi volumi di dati, schemi, formule, codici, in cerca di una falla nel sistema. Una anomalia, piccola ma riconoscibile, nella rete di dati, attirò il suo sguardo come una smagliatura nella calza di seta nera di Melissa Johanssen. Ecco il difetto, ecco il tallone d’Achille del grande, stupefacente Biomat 2030.
Seguì l’anomalia fino alle sue più profonde implicazioni, trovando funzioni occultate, mascherate da ingenue uova di pasqua e faccine buffe. Ne ruppe alcune e prese a schiaffi molte faccette. Finché raggiunse il cuore del sistema di Biomat 2030. Era lì, aperto davanti a lui come il cuore pulsante davanti a un chirurgo o a un sacerdote Maya. Era in quei momenti che tutta la sua vita di grigio e frustrato travet trovava la sua riscossa, la vendetta.
Il software interno del materasso gestiva tutto il sistema di chips, dal cambiamento di colore, alle modalità di massaggio, alle funzioni di raccolta ed eliminazione dello sporco.
Era facile. Sarebbe bastato cambiare i parametri di misura delle particelle. Da pochi millimetri e scarsa consistenza, a infinito.

Ammirò per qualche secondo la sua opera, poi, con gesto armonioso da pianista, premette il tasto invio.

La notte tra il 14 e il 15 Agosto 2030, in tutto il paese, quasi un milione di persone fu avvolta, soffocata, fagocitata e quindi espulsa dal meraviglioso sistema Biomat 2030.