Cigni disillusi in posizione fetale

Restava nel buio della sua camera,  guardando ad occhi fissi l’oscurità,  sentendo il profumo e ascoltando il suono della notte. Rimaneva in posizione fetale dentro al proprio letto,  come se le coperte che avvolgevano il proprio corpo fossero una metafora del ventre di sua madre. La camera era fredda,  lei cercava di abbracciare se stessa immaginando di abbracciare un sogno. Quella notte l’insonnia non cessava e in quelle notti bianche  pensava a tutte le sue sfiducie. Cercava di credere nelle proprie chimere e,  a volte,  credeva che ogni suo sogno fosse un capriccio della propria giovinezza.
Non osava mostrare spesso la propria sensibilità agli altri. Sapeva di non aver mai incontrato qualcuno degno del proprio amore. Il suo ragazzo era uno di quei tipi tremolanti e incerti,  in perenne disequilibrio con se stessi. Lo conosceva da quattro anni e sapeva di dover prendere una decisione: avrebbe dovuto separarsi da lui.
Con le persone lei si mostrava buona,  affettuosa,  a volte compariva certa delle proprie scelte. Ma in fondo nessuno si era accorto dei suoi sguardi malinconici che cercavano la sicurezza in altri occhi e in fine rimanevano colmi di lacrime perché nessuno si degnava di guardarli. E quando di notte restava sola con la propria insonnia,  cercava di dare un significato ad ogni sentimento incompreso e perplesso,  liberando i suoi occhi da ogni lacrima misantropa e confusa.
Spesso ripensava a quel volto,  a quelle parole che l’avevano tradita. Ripensava a quel suo unico amore,  ripensa di avergli concesso le sue più timide e imbarazzanti perversioni. Ripensava a quando lui raggiungeva l’orgasmo e dopo averlo fatto,  si voltava dall’altro lato a fumarsi la sua Marlboro. Sarebbe stato quello il momento di concedergli ogni sentimento nascosto,  ma lui non le dava adito di farlo. Così,  quando vedeva il suo amore voltarsi e accendersi la sua sigaretta post eccitazione,  lei assumeva una posizione fetale,  cercando di raccogliere tutta se stessa,  irrigidendo ogni parte del proprio corpo.
E quasi come se avesse un appuntamento con i sogni,  in quelle notti lei sognava e il suo più che un sogno era una delirante composizione di pulsioni,  vibranti emozioni,  innate repulsioni.
In quel sogno gli stormi riconducevano se stessi lungo il sentiero magico,  sfociando sulla strada dell’incomprensione e del timore. Come una composizione classica e minimale,  ogni effimero sentimento cercava comprensione in quell’eden in cui cigni disillusi perdevano le loro verdi piume sotto un cielo grigiastro e nitido.
Era quello il posto in cui cercare comprensione,  quello sarebbe stato l’eremo dove poter passare la notte,  tra frutteti e stormi di quaglie assassine,  perse in voli privi d’identità,  quando la somma del numero cerca l’applauso.
E come un accordo di piano,  volante nella notte solitaria,  si perde nella scura natura in quel posto in cui il mare sbatte sulla scogliera cercando la risposta alla propria salsedine,  la danza veniva eseguita su un palcoscenico disincantato e sobrio,  privo di pubblico,  tra passi e capriole,  accompagnando il sacro coro in quello che fu la notte,  in quella che sarà l’oscurità.
Innalzando la passione sopra la nube del pastore,  sotto la coperta della terra sconsacrata sulla quale uomini privi di volto risalivano la collina e i dittatori del passato offrivano ospitalità.
Cercando l’applauso nella pioggia,  cercando rimedio all’irrimediabile,  cercando solitudine nel malessere,  cercando risposta in ogni spasmo di dolore e atrocità; era quello il significato del sacro spirito,  quella sarebbe stata la risposta ad ogni ambizione perplessa e mancata,  quel volo di cigni sarebbe stato il tutto,  quello era il luogo in cui il torrente scorreva e bagnava le sue parti più intime. Quello era il purgatorio dell’inferno,  il purgatorio del paradiso,  il colle sul quale gli angeli sconsacrati trovano accoglienza e vino.
Come in un dipinto impressionista,  quell’immagine rimaneva l’essenza di ieri. La bellezza ritrovava sapore e il significato restava immortalato in un volo,  e in quel volo ogni cosa trovava risposta ed essenza. 
L’esistenza era stata creata per brindare,  e ogni disilluso di ieri trovava illusione in quel banchetto di gioia e felicità,  trovava senso in un delirio post moderno. Tutti gli appartenenti del niente ritrovavano appartenenza in un ultimo calice di vino rosso. 
Si svegliò di soprassalto.
Avvertiva freddo.
Quella sera,  nessuno dei suoi amici aveva voluto andare con lei a teatro. Davano un concerto di musica classica. Lei andò da sola. Il suo ragazzo non veniva attratto da quel tipo di eventi.
Fuori dal teatro c’erano molte persone. Dall’aspetto molti erano professori universitari. Lei appariva la più giovane. Prima di entrare in sala,  decise di bere qualcosa al bar.
‐ Salve,  un Martini con ghiaccio. ‐
Entrò nella sala. Cercò il suo posto,  si sedette. Intorno a lei decine di persone imbellettate con l’aspetto di chi non gli importa nulla della musica classica,  ma usano questi eventi per poter sfilare i loro costosi vestiti.
Lei era sola. Si accorse che a qualche posto di distanza dal suo,  un signore sui cinquanta di età restava anche lui seduto da solo. Aveva un aspetto serio: sbarbato,  capelli corti e brizzolati. Portava un vestito scuro,  con maglione abbinato. L’uomo si guardava intorno quasi come se fosse distaccato da tutto ciò che gli gravava attorno.
Dopo qualche minuto,  il maestro salì sul palco: un uomo sui sessanta,  inglese. Il concerto iniziò. Lei restava sola e fin dalle prime note,  i suoi occhi si riempirono di lacrime,  la sua pelle si rizzò. Quella musica la mandava in estasi.
Spesso si voltava verso la sua sinistra guardando l’uomo seduto a qualche posto di distanza che rimaneva ad occhi chiusi,  contemplando le note di quei fugaci violini. E in un momento in cui la musica era nel pieno del delirio,  si accorse che l’uomo,  aveva tolto dalla tasca interna della giacca un fiaschetta contenente forse del whisky. Bevve un sorso,  poi continuò a restare ad occhi chiusi muovendo la testa,  estasiato da quelle sinuose sinfonie. Lei continuava a guardarlo. Lui non si accorse di quell’indiscreto sguardo.
Il concerto continuava e in alcuni momenti lei non riuscì a trattenere le lacrime. Voltandosi nuovamente a guardare l’uomo alla sua sinistra,  si accorse di come lui fosse assorto dalla musica,  continuava a stare ad occhi chiusi,  e spesso estraeva la sua fiaschetta per bere un sorso d’ accompagnamento.
E in un momento in cui le note di un pianoforte,  diveniva parole di un’elegia,  lei chiuse gli occhi e cercò di dare forma alla sua idea d’amore. Quella idea così pura si materializzò nella figura di quell’uomo solitario. Aprì gli occhi e guardò l’uomo,  lui restava con la testa rivolta verso il soffitto del teatro,  quasi come se quella fosse la direzione del tutto e del niente. Poi l’uomo abbassò la testa e rivolse il suo sguardo ad una delle tre violiniste.
Quando il concerto terminò,  tutti si alzarono andando verso l’uscita. Lei continuava a restare seduta con lo sguardo rivolto verso l’uomo. Lui si alzò con calma e nel mentre indossava il suo cappotto nero,  si accorse dello sguardo di lei. Per un attimo la guardò. 
Uscii anche lei. Molte persone restavano fuori dal teatro a commentare l’esibizione del maestro,  dandosi un tono da intellettuali degni di verità.
Si guardò attorno; lo vide. L’uomo accese una sigaretta. E guardando verso la strada,  vide arrivare nella sua direzione un taxi. Fece cenno. Il tassista accostò. Salì in macchina. 
Lei rimase ferma e quasi con una gioiosa malinconia,  guardò il taxi allontanarsi. Si avviò verso casa. La sua camera era pronta ad attendere lei e la sua tormentata insonnia.