I sette anni nuovi- la donna nuda

L’albero dei cento uccelli

La luce del mattino successivo mi diede il buongiorno con un freddo e azzurro cielo, insieme al cinguettio degli uccelli annidati a centinaia sulla grande quercia, “l’albero dei cento uccelli”, così l’avevo battezzato al mio arrivo in quell’ameno paese marino. Oasi di ogni mio rientro a casa, convolvolo dove riparava il mio animo taciturno.
L’albero dei cento uccelli mi veniva incontro, sulla strada del ritorno al mio rifugio alla sera, e mentre lentamente scendeva il silenzio fra i rami, arrivava forte il profumo dei ceppi nel camino che si insinuava nelle narici evocando immagini di famiglie riunite, di paioli sul fuoco, di tavole imbandite. Scoppiavano i profumi della mia famiglia, del mio focolare, della mia vita, nella mente scoppiavano i giorni andati e si dibattevano in una immane lotta per fermare il tempo perduto. Scoppiavano lacrime pesanti che come petardi cadevano incandescenti sul mio cuore e bruciavano le viscere, il sangue era lava che nel passaggio ardeva la pelle.
La mano dei miei bambini, dei mie figli o dei miei nipotini, di chi? Di chi era la mano che solleticava leggera la mia? Sulla pelle violacea e gelida per il freddo, mi sembrò di sentire la mitezza di quelle dita e fra i suoni delle fronde al vento, le loro risa squillanti e le loro corse di corpi leggeri, danzanti nella giocosa scorribanda.
Non c’erano bimbi sulla strada buia, tanto meno i miei, c’era il vento impietoso che sferzava il mio corpo indifeso; e lontano, grida di gabbiani spruzzate di onde.
Eppure sotto la grande quercia li sentivo, sentivo le loro mani cercarsi sfiorando la mia gonna nel rincorrersi, sentivo le manine stringersi ai miei vestiti e tirarmi nel loro gioco, e nei gorgoglii delle vocine il mio nome: “mamma! Mamma, nonna, mamma, cercami, sono qui, lui è lì, non ci vedi? Siamo più furbi di te, ma mamma… nonna! Mamma, nonna, hai perso!…”
Ho perso.
Ho inciampato e sono caduta, nel passato.
Volti e immagini di istanti si sovrappongono, emozioni identiche si abbarbicano a tempi diversi, a bimbi diversi. I miei figli? I miei nipoti? Di chi sono queste voci e questi teneri corpicini, questi amori, di chi sono.
Il cuore si arrotola su se stesso, confonde il suo compito e non pompa nei suoi ritmi, si arrotola e conforma ogni orizzonte.
Muta e ferma e rinchiusa nel debole involucro di me stessa, mi vedo centrifugare nel vortice di un dolore che non sa mostrarmi vie di scampo. Animale ibrido, feto indeciso in un utero sconosciuto; scalcio nel tempo liquido che non mi riconosce, e non mi riconosco nel mio tempo, annaspo in acque che non so se sono le mie, follia di un'anima in cerca del suo corpo. Del suo tempo.
Il mio tempo di mamma dov'è, quando finisce il tempo di una mamma.
Lontana dai miei figli sento ingrandirsi sempre più il vuoto del mio ruolo sospeso in un argine di mondo che oggi mi ospita, che tenta di riconciliarmi, di mostrarmi quali siano i ruoli di ognuno, quali siano i dispiaceri che abbiano diritto di alloggiare momentaneamente in un essere umano. I miei figli, bimbi ormai adulti, ma figli. I figli di mio figlio, bimbi.
Rivolta ai pochi bagliori rimastele, l'anima mia sussurra parole e in cunicolo del cielo, a loro le invia:
Ti ho lasciato
Ti ho lasciato, figlio mio
andare via in un sussurro
mentre un urlo avrei voluto
lanciare dallo sterno
Ti amo, ti amo mio bambino
uomo d’oggi ormai adulto
eppure ‘si piccino
e d’amore bisognoso
di mamma e braccia larghe
che avvolgendoti cancelli
tutto il male e le tristezze
che il destino ci ha donato
per condividere il bisogno
d’esistenze rinnovate
Ci vuol forza bimbo mio,
uomo ormai adulto,
per percorrere la vita
che ignari abbiamo scelto
quando nell’ombra di un’aurora
il nostro sì alla vita è stato detto
Ti amo, figlio mio
e se una piuma mai vedrai
sulla tua spalla abbandonata
accarezzala e sorridi
che mamma tua è lì appoggiata.

E sotto l'albero dei cento uccelli, carezzata da una piuma scivolata dal vento, lascio la mia anima appoggiata sulla spalla dei miei figli.
Non sono strilli di bimbi, né figli né nipoti che accarezzano la mia aria, e il tepore che mi sembra di assaporare sulle mani non è il tocco di manine di bimbi, né miei né di altri, è il sangue che ancora come lava arde, e vuole irrorare queste mie mani gelide e violacee dal freddo che mi pervade, dentro e fuori. Cado sulle ginocchia su quest'asfalto che pure sembra abbracciarmi e consolarmi. Sono caduta, ho inciampato nel passato e sono caduta.
Sono caduta nel passato, in un giorno del giorno di ieri.