I sette anni nuovi (la donna nuda)

Capitolo IV

Rapita

Cecina 2003

Sonnambula nel sole, cammino avvolta dai colori di luce perdendo la percezione della realtà, come non fossi più corpo pesante ma solo pensiero sospeso, mi sento risucchiare e scivolare nella luminosità del mattino di Firenze.

E mi lascio rapire.

Quella luce mi rapì, inondò il mio essere e allargò le braccia stringendolo ad essa per adagiarlo sulla sabbia di Cecina fresca di mattino, che solo un istante fa, di una vita fa, celava il suo spazio sotto i miei passi nelle vie di Firenze.

Guerra cieca

Eccomi prigioniera di quel giorno in cui obbligai me stessa a percorrere la strada che mi divideva dal mare. Ero nell’istante di una vita lontana, da me e da Firenze e da ogni mio passato, nella stessa luce di una stessa strada colorata di silenzio, del silenzio di una mattina di domenica in città; nel silenzio del giorno di ogni giorno d’inverno sulla sponda del mare toscano. Nella piccola casa, al mare.

Il buio e la guerra cieca che avevano consumato il mio essere, rimbombanti di parole mute, erano straboccati dal mio corpo. Figure mostruose, come ectoplasma dai colori ombrosi cangianti, nefande lottavano fino a squarciare tutto il mio essere; soltanto un’ultima fessura che lasciava intravedere la luce, mi mostrò il mare.

E andai verso la mia vita al mare.

Il viale alberato di pini lanciava schegge di resina, il cielo l’aiutava, pesante ed elettrico schiacciava al terreno profumi ed umido plumbeo. Tutto schiacciava verso terra.

Il mio pensiero, i miei mostri, le immagini della mia esistenza che come cani rabbiosi invadevano le mie notti e i miei giorni, furono compressi dalla pesantezza del cielo e dalla rigidezza dell’asfalto.

Il mare, la spiaggia, la friabilità della ghiaia che sprofondava sotto il mio passo, furono la mia musica pregna di cacofonie, la mia unica possibilità di fuga.

La fuga da me stessa, da quei mostri che possedevano me e tutto: tutto ciò che respiravo, la piccola casa al mare, il mio rifugio, la mia tana, la mia libertà incatenata.

Rintanata come animale ferito e sanguinante per puro spirito di conservazione, senza pensiero cosciente, con solo una montagna frantumata sul mio corpo e sulla mia anima: ero morta e non lo sapevo.

Come spirito ancora incatenato ai ricordi della terra, vagavo nell’etere sbattendo sui corpi fisici.

Sfuggendo alle leggi di gravità, ora cadevo, ora tornavo a volare. Mai fui consapevole del mio andare, “sapevo” che erano quelli i passi che dovevo seguire, né mai seppi però, se percorsi piste celesti o caverne o sentieri. L’istinto mi spinse a camminare, a scoprire come neonato ogni oscillazione del tempo, ogni contatto con la vita.

Ero morta e lo sapevo, pur essendo conscia di avere un corpo fisico che sentiva il freddo e il caldo e forse il dolore riservato agli esseri animati.

No, il dolore no, non sapevo più se lo sentivo, non ricordo infatti di essermi mai fatta male o di aver sanguinato o fratturato un osso. So di aver cercato l’ortica nei campi un giorno in cui un flash umano mi portò a pensare: ”‐ cosa ho da...

...continua