Il banderillero

José Luis aveva provato a fare l’espada in due occasioni, ma la critica fu sfavorevole e le sue ambizioni vennero meno. La rivista Fiesta, diffusa nell’ambiente della tauromachia in Estremadura e in Andalusia, aveva in una cronaca additato Josè Luis come un torero affetto da “inutile barocchismo”. Non ho mai capito, in verità, quale fosse il significato di queste parole, ma per Josè dovettero essere decisive per abbandonare ogni velleità di imporsi come matador. Come banderillero era invece considerato tra i migliori e ancora, a trentasei anni, mantiene il suo prestigio. Privilegia la modalità “de frente”, la più rischiosa, lui è velocissimo e,  puntualmente,  le banderillas,  infisse sul dorso del toro, scendono a destra e a sinistra con simmetrica precisione, riuscendo puntualmente a entusiasmare gli appassionati più competenti.  
Alejandro lo ha voluto nella quadriglia e questo è stato un vantaggio anche economico, perché Alejandro con la sua squadra, nonostante la grave crisi della tauromachia, è  molto richiesto dagli organizzatori delle sagre, dove è ancora permesso la corrida de toros.
Josè è un uomo riservato, molto serio, virile, ma umano e tollerante. Non gli ho mai sentito, per esempio, una parola di biasimo o di rancore verso gli abolizionisti e verso i più accesi sostenitori della corrida come spettacolo di barbarie e criminalità, negando in toto ogni dimensione artistica ed ogni radice storico‐culturale. In quel mondo Josè è un protagonista, ma senza mai raggiungere la spavalderia e il fanatismo o il compiacimento per i suoi indiscutibili successi. Gli sono amico anche per questo. Ho conosciuto Luis anni fa, tramite alcuni amici americani al seguito di Orson Welles, e via via ho avuto modo di stimarlo e volergli bene come un fratello. 

Luis Josè ha un segreto che nessuno deve conoscere, nemmeno la sua donna, Maria Pilar, che gli ha dato una figlia bellissima: è stato colpito dal cancro ai polmoni. Io sono l’unico che è a conoscenza del suo dramma e lo accompagno, due volte la settimana, di sera, in macchina nella villa (a dodici chilometri da Malaga) del professor Morales Ortega, che, segretamente, lo cura con i protocolli della chemio. Se si venisse a sapere del suo male, Josè entrerebbe nel cono d’ombra e uscirebbe certamente dal giro. Il professore  mi ha detto che uscirà comunque dal giro in poco tempo, anzi uscirà dalla vita stessa, perché le probabilità di salvarsi sono meno di zero.
Ortega sostiene che sia un dovere professionale dire la verità al paziente. “Noi dobbiamo tentare tutte le strade – dice ‐ per guarire o ridurre il dolore, ma non possiamo ingannare i malati e creare illusioni. Io invece penso che sia una barbarie spegnere una fiammella di speranza a quest’uomo coraggioso, che lotta eroicamente e scende nelle plazas de toros sotto l’effetto di forti sedativi.  
Ottenere il silenzio del professore sulla imminente morte del mio amico non è stato facile, ma  ho molto insistito e alla fine, mugugnando, mi ha accontentato.
Eccolo José Luis! Compare in fondo alla strada, con la sua caratteristica andatura agile ed elegante. lo stavo aspettando da un paio di minuti  e mi chiedevo se lo avrei visto anche quella sera, me lo chiedo ogni volta, nei nostri appuntamenti per la visita, con commozione e un atroce nodo di pianto alla gola.