Il mio caimano nero

(con parole mie e musica di Rino Gaetano)

Ricordo ancora quando ho visto per la prima volta la luna risplendere nel cielo di Roma. Il vagone della metropolitana usciva dalla galleria e iniziava a rallentare lungo un paesaggio che un tempo apparteneva alla campagna.  Lavoravo in città da un paio di mesi, ma una profonda apatia mi faceva trascorrere le serate in casa, da solo.
E nemmeno mi confortava la finestra della mia stanza, affacciata sul muro di un vecchio deposito. La luna a Roma proprio non ero riuscito ancora a vederla e mi stavo abituando al pensiero che il satellite fosse andato a cercarsi un pianeta più dignitoso sul quale riflettere la sua poesia.
Fino ad  allora avevo vissuto soltanto in posti di mare, dove la notte i raggi lunari rischiaravano la spuma delle onde. Ora invece guardavo la luna galleggiare sopra i silos e i palazzoni addobbati di parabole, che mi apparivano come alberi ammuffiti carichi di ciliegie velenose.
Quella sera viaggiai con l’ultima corsa. Unico passeggero, giunsi alla mia fermata e mi infilai frettolosamente per le rampe della metropolitana, per quei corridoi stretti e lerci che mi ricordavano la scena di un vecchio film dell’orrore, dove un elegante impiegato della city veniva sbranato dalla bestia sulla scala mobile dell’Underground.
Roma non è la capitale britannica, ma la sua metro di notte ha lo stesso fascino torbido, lo stesso sapore inquieto e fantastico che si respira nel mito londinese.
Svoltai per l’ultimo scalone che mi avrebbe riportato in superficie, quando mi accorsi di lei; non della bestia, ma della sua vittima. Una donna di colore giaceva a terra in ginocchio, stretta nelle braccia come un feto vomitato dalla notte.
E quello che poteva sembrare in apparenza un tiepido pianto era invece un urlo soffocato nella gola. La raccolsi tra le mie braccia, tremava e gemeva senza lacrime. Gli abiti strappati, la biancheria asportata. Alcune perline continuavano a sfilarsi da una collana, scivolando sul corpo e rimbalzando sul pavimento bisunto. Decisi subito di portarla con me, in quella casa da dove non si vedeva la luna.
I primi giorni trascorsero lenti e faticosi. Dentro di me la chiamavo “il mio caimano nero”. Mi aspettavo da un momento all’altro che in lei si risvegliasse lo spirito di un antico rettile; denti acuminati e ganasce pronte a divorarsi il mondo e le sue indegne creature. Lei, invece, immobile nel suo dolore carico di vergogna e rancore, accompagnava la mia malinconia.
Mi disse un giorno che veniva da un paese lontano, di averlo abbandonato per sfuggire a un destino di miseria e di abusi. Pensavi che qui fosse diverso?
Era in città soltanto da qualche settimana, aveva vissuto quei giorni da alcuni conoscenti che probabilmente non l’avrebbero nemmeno cercata. Ogni sera tornando dal lavoro la trovavo seduta sul divano, ammaccata dai pensieri e dal tormento dei ricordi. Il ricordo della violenza. E più della memoria, a torturarla era un male invisibile che l’aveva privata delle uniche cose che possedeva, il pudore e la speranza.
Eravamo due persone sole. Che non potevano comunicarsi altro che la loro sofferenza.
Ma il tempo passava, io reagii e imparai a prendermi cura di lei. Le preparavo sempre da mangiare. Abbondanti piatti di carne per rimetterla in forze prima di tutto.
Sceglievo spezie raffinate, piante aromatiche e frutta esotica per accompagnare il ferro e le proteine che l’avrebbero guarita, almeno nel corpo. Cominciò lentamente a riprendersi, a riconoscere il sapore delle mie vivande e la familiarità dei mie gesti, quando ero io ad imboccarla. Percepiva attenzioni e affetto come gli ingredienti di una ricetta nuova e misteriosa. La nutrivo con la stessa carne che l’aveva violata.
Passai cento volte fuori quella fermata della metro e interrogai mille persone. La città mi indicò la strada per arrivare a quello che cercavo. Spiai le mie bestie per giorni e presto riuscii a catturarle. Avevo sentito di antichi guerrieri che si cibavano delle proprie vittime per assimilarne la forza e il valore; all'interno di culture primitive si riteneva che mangiando carne umana si potessero trasferire le virtù dal morto ai vivi o che si potesse esorcizzare lo spirito del defunto.
Lei intanto migliorava ora dopo ora. Il suo sguardo tornava vigile. Il suo aspetto gradevole. La sua pelle nera appariva sempre più soda, densa e luminosa. I tessuti recuperavano la loro naturale tonicità. Adesso era viva e incensata come una dea. Dopo ogni pasto mi sorrideva. Recuperava forze e fiducia, se non verso se stessa, almeno nei confronti del prossimo. Ero contento e avevo cibo a sufficienza per giorni, settimane.
Quando le guardie mi vennero a cercare rividi in lei una sofferenza senza fine, mentre il suo corpo scivolava lentamente sul pavimento. Si raccolse in un angolo del corridoio, le ginocchia strette nelle braccia, la testa china, nascosta nei lunghi capelli corvini. Come la prima volta che la vidi.
Uscendo sulle scale, mi immaginai i suoi occhi spariti ancora una volta nel deserto della vita, lì dove soltanto io potevo ammirarli.