Il regalo di compleanno

Nacque, ed era stato lungamente atteso. Lui, maschio dopo tre sorelle. Sua madre appena lo vide pianse, abbandonandosi tra i cuscini sulla lettiga dell'ospedale, come addolorata, tanto estenuante era stato il travaglio ed il parto. Le sue sorelle, sebbene fossero consapevoli di essere diventate invisibili dal suo primo vagito, lo amarono. Suo padre non era in sé dalla felicità. Lo considerò fin da piccolissimo il gioiello da crescere con attenzione, curando la sua educazione personalmente, occupandosi di ogni minimo dettaglio della sua formazione senza neanche il più piccolo errore. E lui crebbe. La mamma non si perdeva una sola edizione dei telegiornali: come molte altre mamme nella sua stessa posizione sperava sempre, con l'animo tenero e romantico, di sentire una notizia eclatante, liberatoria, utopistica. Mai era accaduto, mai probabilmente sarebbe accaduto, ma lei testardamente perseverava. Lui era felice, sapeva per esserselo sentito ripetere da sempre di essere un eletto, un dono di Dio. C'era solo una cosa, un'ombra, una richiesta che dopo mille tentennamenti decise di fare a suo padre. Lo conosceva come un uomo a volte severo e duro, ma sempre giusto, che motivava le sue decisioni, che lo adorava. Grande fu quindi la sua meraviglia quando quella volta gli rispose brusco, quasi incattivito, quasi vergognandosi di lui. Pensò che ciò che aveva chiesto fosse sbagliato e decise di non tornare più sull'argomento. Quel giorno si svegliò, come ogni altro, ma non era un giorno come ogni altro. Era il suo decimo compleanno. Nel salotto buono l'intera famiglia lo aspettava per consegnargli il suo regalo, quello annunciato, quello che rendeva suo padre così fiero di sé e di lui. Per un attimo, solo uno, sperò che i programmi fossero cambiati, si augurò di ricevere quella cosa che desiderava tanto, per poi darsi subito dell'ingrato, dello sciocco. Quello con cui stava uscendo di casa ora era un dono preziosissimo, un privilegio che gli era stato accordato, motivo di invidia e di insoddisfazione di molti altri, e lui stava a pensare a giochi superficiali ed insulsi. Suo padre aveva ragione ad avergli negato ciò che aveva chiesto. Camminò fino alla piazza, chiedendo perdono a Dio per la sua immaturità. Era una splendida giornata, tanta gente vociava, bambini  schiamazzavano intenti ai loro giochi di strada. Il suo regalo avrebbe ammutolito tutti. Era quello il posto, lì doveva rivelare il tesoro che cingeva i suoi fianchi. Senza farsi vedere, aprendo appena il giubbotto per non rovinare la sorpresa, armeggiò con la cintura, come gli avevano insegnato, come lo avevano addestrato, come aveva già provato tante volte. Era pesante la cintura, lo aveva impacciato nei movimenti, gli provocava male alla schiena, ma ora stava per liberarsene, di lei, di ogni male. Sfiorò, tastò, schiacciò ed alzò lo sguardo. Ebbe solo un paio di secondi per vedere poco lontano due ragazzini che correvano dietro a ciò che aveva domandato senza ottenerlo, per il quale avrebbe barattato l'onore, la soddisfazione di suo padre, la sua missione, che tradiva ciò che lui era veramente, un semplice, innocente, inconsapevole bambino di dieci anni. Un pallone da calcio. Pregò mentalmente Dio di farglielo trovare dove stava andando, glielo chiese come premio ed iniziò a sorridere all'idea, poi gli occhi gli schizzarono fuori dalla testa, le braccia, le esili gambe, il torace, i suoi pensieri, si separarono fino a diventare minuscole tessere di un mosaico che non sarebbe stato possibile ricomporre. La detonazione fu così terribilmente chiassosa da arrivare fino al cielo. La carica di tritolo talmente potente che sarebbe stato inutile cercare nella distruzione che ne seguì un pezzo intatto del suo corpo. E di quello degli altri che incautamente avevano abitato la piazza fino a un momento prima. E del pallone. L'esplosione spostò l'aria, accompagnata dalle grida impazzite di sirene e allarmi. In casa la mamma la udì. Accese il notiziario, credette di aver udito quella notizia eclatante di pace tra due popoli che aspettava da anni, che avrebbe cambiato il destino di quel bambino di dieci anni, e di altri come lui, ma nelle sue orecchie risuonò la voce esaltata dello speaker che pronunciava il nome di suo figlio il martire, suo figlio l'eroe, suo figlio morto. Dio non le avrebbe perdonato quell'aggettivo "suo". I figli non erano delle madri, erano strumenti di dio. Guardò il volto commosso ed orgoglioso di suo marito, forse lo osservò attentamente per la prima volta, e le apparve come era: il ghigno di un mostro, gli occhi di un assassino, la rassegnata stupidità di un codardo. Pensò al suo pianto il giorno del parto, quando sapeva di aver condannato a morte quell'essere indifeso non appena lo aveva dato alla luce. Pensò che scavando tra le macerie sarebbe stato impossibile trovarne un pezzo intatto, questo non era un pensiero originale, ma inevitabile. Il cuore si sciolse e quel ruscello di sangue che produsse furono le sole lacrime che versò.

L'ambulanza accorse frettolosamente sul luogo dell'attentato. Con il suo tragico ululato sembrava chiedere di fare largo, sembrava sentirsi in colpa per essere in ritardo rispetto alle altre, sembrava desiderare di caricare qualcuno da curare ma sopravvissuto. Nessuno si era salvato. Uomini, donne, bambini, doni di dio erano ormai tutti polvere. Accostando in un angolo della piazza le ruote urtarono qualcosa, provocando un lieve sobbalzo. Il conducente scese, ma prima di affrettarsi per l'inutile soccorso in quel trionfo della morte gettò un'occhiata a terra: aveva schiacciato un ammasso informe di plastica carbonizzata, una carcassa di quello che tentò inutilmente di farsi riconoscere come un pallone da calcio. No, alla fine dio non gli aveva concesso di portarselo dietro.