L'Ernesto

L’Ernesto a quarant’anni si sentiva ancora figlio, non per causa della sindrome da contrabbasso, dato che superava il metro e ottanta e non portava tacchi. Pesava 104 kg. «E per fortuna che ho il cervello fino» ripeteva sorridente a chi lo scherzava del
suo peso, ma, se la matta non pescava, incupito lui esclamava: «Fino a dove non lo so.» Cervello intermittente e sciatalgia divampante, a lui piaceva essere figlio, di nessuno, essendo i suoi creatori “volati in cielo troppo presto”, come lui amava dire a chi gli chiedesse la giustificazione. Eppure l’Ernesto non aveva mai volato, nemmeno i
suoi sogni sapevan decollare. Sogni pulcini, reminiscenza di quando veniva costretto a fare il dodicesimo. Ma all’Ernesto andava bene lo stesso e ripeteva a chi petava: «Ma sì, siam tutti figli di Dio». Tra i suoi amici non c’era un Riccardo, forse per questo motivo non aveva un cuore di leone, e le stecche le prendeva solo nel soffiare dentro a un flauto, senza lenza, che nemmeno di pescare era capace e si rammaricava di non aver mai vinto nessun premio alle lotterie di paese, sostenendo che lo fregava l’ora, perché le estrazioni avvenivano di sera e lui non possedeva la cultura dei giornali. Tra gli amici c’era chi lo prendeva anche sul serio, ma senza Orio visto che l’Ernesto non volava, per via di quel nome un po’ infelice, peggio di una cicatrice. Così che tutti lo rincuoravano felinamente, pensando sarebbe stato ancor più devastante si fosse chiamato Felice, come quel Pulici Paolino il goleador del ri grande Torino, di cui teneva a distanza di tre decadi una fotografia sul comodino. L’Ernesto nella vita non aveva combinato nulla per quattordicimilaseicento giorni, aveva gli occhi spenti e le luci dei fanali sempre accese. Aveva smesso di fumare perché il catarro non riusciva a digerire. Si divertivano gli amici a proporre lui una bionda, ma lui abbassando gli occhi rinnegava quel passato, ammirandosi, così facendo, le macchie di pomodoro sulla
maglietta non stirata. «Io quella roba lì la fumavo da bambino per sentirmi un po’più grande, ora che son grande vorrei tornar bambino e non posso certo dire che ci guadagnai nel cambio, che i rapporti saltano sempre proprio in vista dell’ultima salita.» Le donne le guardava e portava anche rispetto, ma non sapeva cosa stessero poi a
significare di preciso. Sì le donne fanno fare i figli, anche a un uomo circonciso, “ma a chi è figlio cosa importa?” lui pensava. Li aveva festeggiati lo stesso i compleanni, in compagnia della sua torta. L’Ernesto ricordava di una donna, e tornava con la mente a quando spendeva la sua vita, pur senza averci un soldo da investire, per comprarsi almeno il sorriso dell’amica sua più amata. La aspettava tutti i giorni all’uscita della scuola e non si capacitava che lei ci avesse sempre mal di gola e ancor oggi quando la pensava non riusciva a vederla per ciò che veramente era. Il suo esser taciturno lo escludeva dai giochi di Oratorio, frequentato solo per vedere lei cantare quando si riuniva la corale, e tra tutte quelle voci lui ne udiva solo una, che lo accompagnava nel ritorno verso casa, e sognava sol di amarla, ma neppure nei pensieri immaginava di baciarla. L’Ernesto proprio non sapeva come si facesse a dare un bacio, se non per quella pubblicità della televisione dove poi in fondo più del bacio pareva contassero solo le parole, quelle che egli non sapeva dire. Si vantava poi l’Ernesto, di aver preso parte a tutte le elezioni, «perché a scuola ero un somaro» proclamava, professando la
sua fede per l’uomo dalla pipa sempre spenta, che troppo presto lo lasciò, in balia di garofani acerbi già marciti. Di consigli l’Ernesto ne aveva il frigo pieno, nessun ortolano poteva dire di averlo conosciuto, mentre il macellaio del paese, grazie a lui, sfoggiava ogni mese scarpe nuove. Nelle Domeniche di pioggia l’Ernesto preferiva stare in casa, a Natale e a Pasqua era solito far visita a una vecchia zia zitella, in campagna, che ci aveva galline buone per il brodo, la qual zia non disdegnava, alla sua età, di lanciare i dadi verso i cirri, che le gocce cadevano però solo da un altezza che per l’Ernesto era troppo bassa per capire. Il luogo che l’Ernesto preferiva frequentare era la pasticceria,
sita nella zona del paese ed è lì che quel bimbo mai cresciuto visse il giorno assai diverso da tutti gli altri che lo avevano preceduto. Otello il pasticciere, soprannominato “palo”, avendo speso quasi tutti i suoi guadagni all’Arcoveggio, in piedi sulla linea
dell’arrivo a ingoiare rospi molto amari, più di quelli che schiacciava col suo peso nelle notti in cui rincasava attraversando il suo giardino, per non farsi sentire dalla moglie, che neppure lo ascoltava, ormai persa a sognare un'altra vita, nella quale il dolce fosse solo l’ultimo delle sue voglie. Era un uomo mite, più bravo con le mani che col sedere e quel giorno, dopo un mese di vacanza su in collina, trascorso a depurarsi il sangue dalle scorie dei nitriti che facevano sobbalzare perfino le secche acque del Savio, era pronto a riprendere a sfornare le leccornie per le quali si faceva rispettare da tutti i golosi dei dintorni. Golosi che venivano anche da fuori del paese a fare colazione la mattina e a comprare cabaret farciti, di mancanze e scuse mute, nei giorni eletti a festa, quando tutti hanno una casa dove andare a trascorrere le ore più sole, anche se piove o c’è la nebbia. Quel mattino come ogni Uno Settembre fu l’Ernesto il primo dei
clienti, anche se aveva una Punto, che il sole ancora non aveva asciugato l’umidità dei sellini delle bici parcheggiate fuori nei cortili, o lasciate incatenate a un palo della luce, che le bici poi non pensano al suicidio, stanno bene anche da sole e la ruggine per farle diventare vecchie ci mette solo il tempo che ci vuole, niente più niente di meno, e poi loro hanno buona educazione, non calpestano le aiuole. Aveste visto la faccia dell’Ernesto nel trovarsi innanzi a quel bancone, tutto crema e zabaione, con sfumature di cioccolato, c’era pure un panpepato, e l’odore del caffè era simil a un canto di sirena, all’Ernesto poi piaceva con la schiuma e un po’ di latte, ma non era proprio un cappuccino, era come i baci della mamma ricevuti da piccino e che tanto gli mancavano non avendo mai sostituito loro con qualsiasi altro additivo. Ma le sirene quel mattino le udì davvero, intonarono un buongiorno molto roco, quasi porno, e il caffelatte, che di solito rendeva lui il palato un po’ scottato, cascò giù tutto in un colpo e si sentì ghiacciato.
«Mi presento son la Rosa, la maestra del paese, sono nuova qui del posto, arrivata a Ferragosto, quando tutti erano in ferie, a visitare un altro posto. Ho già preso le misure così quando inizierà la scuola sarò pronta e preparata e forse meno sola.» La
Rosa era una donna che non si capiva bene quanti capelli avesse, parevano incollati e lasciavano cadere due treccine lunghe come redini, che il corpo che ci aveva le faceva prender forma di un calesse. Otello le sorrise e la invitò a servirsi, le porse un vassoio chiamandolo piattino, aveva già intuito che non si sarebbe saziata con un classico panino. Lì l’Ernesto, a quella vista buona, perse l’equilibrio, si appoggiò a una colonna che a stento resistette al suo sospiro, non aveva visto nulla di più bello in vi‐
ta sua e fattosi coraggio si presentò: «Buongiorno signora, io mi chiamo l’Ernesto e oggi è un giorno speciale per me che non so poi mica bene come posso farmi spiegare, cioè, io non so se c’ha presente quando si diventa tutti rossi e si vorrebbe scomparire, ma poi ci si ritrova che per la prima volta ti rendi conto che hai qualcosa da dire.» La Rosa, seduta sulla sedia che a stento conteneva le sue grazie, che dovevano essere almeno quattro, gli sorrise coi suoi denti bianco paglierino, aveva gli occhi buoni e le gote rosso brina, che tutte quelle paste in attesa di essere ingoiate non parevano così belle, dicendo in coro un po’ scocciate: «Ah che peccato non poter esser prima masticate.» «Si accomodi signor Ernesto, la mi faccia compagnia, o devo anticipare il suo nome con un titolo, chessò... Vossignoria?» «No signora maestra, non ho titoli di coda, anche se, per la prima volta in vita mia, me ne sento una.» E così parlarono quasi tre ore fitti, fitti, che occupavano lo spazio di tre tavolini. Da soli erano un ricevimento, lei sorrise quattro cinque anche sei volte, mentre l’Ernesto le parlava dei suoi trascorsi di bambino avvenuti anni fa e giorni prima. Si levarono dalle sedie, che quasi li incastravano, che il mattino era già adulto. Lui da gran signore le offrì la colazione, inaugurando il libretto degli assegni che giaceva impolverato nella tasca interna del gilet domenicale. La storia parve subito una cosa seria, che l’Otello all’ora del caffè, dopo mangiato, raccontava a tutti ci sarebbe stato un seguito: «Ho sentito la invitava a passeggiare lungo il viale, all’ora in cui il sole lascia il sud per dirigersi verso ovest, munitevi di bussola e non fatevi scappare l’occasione, poi mi raccontate tut‐
to eh! Devo essere informato, ma stasera c’ho le corse dei cavalli, la mia più grande tentazione.» E così dicendo accennò un diniego, ma sapeva che quello delle corse dei cavalli era il suo vero impiego, per niente al mondo avrebbe rinunciato alle riunioni, il forno per lui era diventato solo lo sfogo alle proprie frustrazioni. Ma tutti pensarono a una burla dell’Otello, che non era mai furioso, e neppure un po’ geloso, il suo Iago apparendo lo avrebbe anzi salvato, da ciò che lui non avrebbe mai osato: togliersi la fede e andarsela a giocare. Così quel pomeriggio che non era neanche troppo caldo l’Ernesto si vestì di tutto punto, ma andò a piedi perché non aveva esagerato nel voler esser troppo cavaliere e poi lui a quel Berlusconi, di cui sentiva sempre parlar male in ogni luogo, non voleva certo somigliare. Si incontrarono all’ombra di un olmo, cresciuto a dismisura in pochi anni, come lui. Rosa indossava una camicia color vino rosso
ribaltato su tovaglia bianca, e pantaloni color traccia rimasta su tazzina di caffè non lavata bene, le sue trecce si eran sciolte e i tacchi che al mattino non aveva la facevan lievitare, al che L’Ernesto per un istante vacillò riflettendo: «Sarà mica quella Rosa della torta alla televisione? Ah no, ma quella faceva Rosa di cognome e Maria di nome...» Sollevato, ma anche un po’ dispiaciuto non fosse lei, guardandola nei seni
esclamò: «Sei uno splendore», estraendo il meglio dal proprio dizionario di parole, e si rammaricò per un istante di non aver mai imparato quelle incise sulle carte dei cioccolatini . Bastò il sorriso di lei a scacciare il pensiero, anche perché nessun siciliano oscurava il loro orizzonte. Lei lo prese sotto braccio, gli arrivava fino al petto, e cominciò a parlare della propria vita e di tutto ciò che aveva fatto, per fortuna risparmiò lui ciò che aveva detto in quel passato già mangiato, e sempre attorniato da olive, acciughe, capperi, basilico e costolette di castrato. A vederli camminare, una a fianco delle ginocchia dell’altro, non parevan due novizi, sembrava avessero già fatto quel sentiero che conduce al cimitero mille volte, invece era la prima, e neppure ave‐
vano fatto mai le prove, che i cancelli a quell’ora sono ancora aperti e c’è gente che li supera e li incrocia, li incontra ma non saluta. Anche il gatto che fingeva di dormire lungo il fosso a quei due ha buttato l’occhio, ma appurato non avevano con sé il cestino del pic nic li aveva liquidati con un flebile tic tic, dei suoi occhi gialli. E per fortuna che non c’eran pappagalli, perché l’Ernesto era sì cicciottello, ma modesto, lo dimostrano queste pagine di vita senza grandi picchi, solo gazze nel suo cie‐
lo. Siamo giunti alla fine del racconto, essendo ormai arrivati al cimitero e alla fine del racconto ti aspetti che io ti narri come fu il loro e suo primo bacio. E ti piacerebbe sapere se fu anche l’ultimo, o se fu talmente bello da risultare come i maccheroni sotto al cacio... Beh, chiudi gli occhi e prova a immaginare come fu il tuo primo bacio, poi moltiplicalo per tutti i giorni nei quali l’Ernesto lo ha aspettato. La morale? Sai, non è che chiedi troppo? Non esiste la morale e non c’è favola più appagante di un bacio ricevuto. Semplicemente ad ogni bacio corrisponde una rinascita.