L'estate che lavorai con i fiori

Da ragazza ebbi qualche problema nell’adattarmi al resto del mondo. Non amavo passare il mio tempo in compagnia e quando ero sola non sapevo come impiegarlo, così capitava che stessi per ore seduta in divano o distesa sul mio letto a fissare il vuoto e a non pensare a niente. Non amavo la compagnia e non concepivo un modello di vita sociale e comunitaria.
L’isolarmi non era dettato da esigenza di solitudine, da disagi particolari o da una forma di ribellione e affermazione di sé silenziosa e assente. Io, semplicemente, non avevo pensieri e non avevo interessi, non me ne fregava niente di niente. L’unica azione che compivo direttamente era non provare nulla.
Io ero niente e fui niente per molto tempo, fino a che mia madre non iniziò a preoccuparsi seriamente per me.
Nell’estate dei miei quindici anni, una mattina di giugno fui colta di sorpresa, cosa che non mi era mai successa, dalle parole secche di mamma “Lidia, la fioraia, ha bisogno di una mano per questi mesi e, visto che ormai sei grande e in questo periodo non devi andare a scuola, le ho detto che saresti felice di lavorare con lei. Inizi lunedì”.
Non ribattei, come al solito, perché non ero abituata a farlo, ma ero sconcertata e preoccupata all’idea di dover lavorare. Decisi che non avrei fatto storie, avrei cominciato e dopo un paio di giorni avrei trovato un modo per dileguarmi e tornare alla nullità cui ero abituata.
In famiglia non c’erano assolutamente problemi economici, sono figlia unica, e l’attività di papà, avvocato penalista, ci faceva stare bene. Non avevo bisogno di lavorare, quindi doveva esserci qualcosa sotto a questa sparata di mamma.
Che fossi una ragazza dal carattere insolito non l’ho nascosto. Non avevo amici o amiche e non ne volevo ma ho tralasciato che pure il mio aspetto fisico era particolare: alta, molto sgraziata e molto magra, tanto che non avevo ancora avuto il menarca. Non che fossi anoressica o cose del genere ma mangiavo come un uccellino, quel poco per tenermi in vita, perché non trovavo alcun piacere nel cibo e, ora, azzarderei dire, nemmeno nella vita.
Mamma era in pena per me e credette che la trovata del lavoro potesse dare una scossa alla propensione verso il nulla che mi stava inghiottendo.
Il lunedì seguente, il mio primo giorno di lavoro, fu terribile. Fai questo, fai quello, sposta questo, porta quello, parla con questo e quello. Credevo di impazzire. Parlare con la gente? Io? Cercai di mettere subito le cose in chiaro con Lidia: non avevo nessuna intenzione di lavorare a contatto con il pubblico e se proprio aveva bisogno di me sarei rimasta volentieri nel retrobottega a sistemare i fiori e a creare qualche composizione anche se la mia esperienza non era ancora sufficiente. Lei passò sopra al tono un poco arrogante che avevo usato dimostrando una grande comprensione per il mio disagio e disse che andava bene. Non avevo abbandonato i propositi di svignarmela alla prima occasione ma Lidia era stata così gentile che non ebbi il coraggio di insistere con la tracotanza e andarmene.
Trascorsero un paio di settimane ma la situazione non si sbloccava, nonostante fosse estate e la gente fosse in vacanza, lavoro ce n’era in abbondanza e io dovevo svolgere le mie mansioni con cura in modo che Lidia non facesse brutta figura con le clienti abituali che le commissionavano le composizioni floreali.
A me non fregava niente di niente, non avevo alcun pensiero. Cominciavo ad odiare questo posto che mi costringeva, seppur minimamente, a relazioni sociali, a imparare qualcosa e a dovermene interessare. Mi obbligava a pensare e io non volevo.
Quello che però mi teneva lì erano i fiori. Non li avevo mai considerati prima di allora, come tutto quello che mi circondava del resto, ma mi resi conto fin da subito che erano in grado di esercitare su di me un grande potere. Le prime mattine non riuscivo a sopportare l’odore acre che mi riempiva le narici e si spandeva ben oltre la soglia della fioreria dove ogni giorno mi recavo puntuale, alle nove precise, nonostante continuassi a tenere a mente i progetti di fuga. Mano a mano però che i giorni passavano e che abituavo i sensi ai nuovi sentori, la diffidenza iniziale verso le piante lasciava il passo ad una più benevola considerazione della natura e dei suoi frutti e più passava il tempo più mi sentivo a mio agio e rilassata.
Chi non è avvezzo all’esercizio della mente si ritrova spesso a decifrare ciò che lo circonda con strumenti rozzi e talvolta capita che non riesca ad andare molto oltre i primordi del ragionamento. Per me era così. Io non sapevo come si faceva, non mi fregava niente di niente ma era più forte dato che inaspettatamente, alcune volte, mentre lavoravo, mi scoprivo a riflettere su questi fiori che in fondo in fondo non mi dispiacevano ma, anzi, mi affascinavano.
Succedevano quindi, in quel periodo, due o tre cose, in me, che non avevo mai provato prima: pensavo e qualcosa mi piaceva, aveva catturato i miei sensi atrofizzati. Emozioni e sensazioni che mi erano completamente estranee.
Il tempo quell’estate fu per gran parte della stagione piovoso, non troppo da rovinare la fioritura ma abbastanza da gettare un alone malinconico su quelle giornate di lavoro tanto da non poter rimanere immune alla forza inquieta del pensare.
Mi sentivo spiazzata e sconosciuta a me stessa, questi cambiamenti mi stavano trasformando e non sapevo come avrei dovuto reagire, se si fossero dovute comunicare le proprie sensazioni o se invece pur tenendole per sé potessero essere visibili, magari fisicamente, anche ad altri. Il mio mutamento interiore, in effetti, lo era: nel primo mese, senza quasi rendermene conto, il caratteristico appetito da uccellino andava aumentando di giorno in giorno e misi su un paio di chili che riempivano i fianchi poco femminili e longilinei che erano stati, finora, parte di ciò che sapevo di me e che ora, invece, andavano a ingrossare le fila delle cose che, in me, stavano cambiando e non conoscevo.
In questo primo periodo principiavo ad avere coscienza di quello che stava succedendo ma mi mancava la pratica per saperlo gestire così, ne avevo appena una vaga percezione.
Una mattina piovosa di metà luglio, con la solita puntualità, mi recai in fioreria. Con mia grande sorpresa era aperta da molto e Lidia sembrava essere all’opera già da un bel po’. Entrando nella mia zona, il retrobottega dove si componevano le creazioni (che nonostante i miglioramenti di carattere non avevo intenzione di abbandonare per dedicarmi ai contatti diretti con i clienti), notai che qualcuno era attivo probabilmente da molto e realizzava meravigliose composizioni quasi certamente per un matrimonio.
La sensazione di fastidio e invasione del mio spazio da cui fui assalita in un primo momento si spense immediatamente alla vista di una signora anziana che lavorava con attenzione a spuntare e sfogliare, a combinare e legare, tanto che non potei trattenermi dall’avvicinarmi con curiosità per ammirare il suo operato.
L’anziana signora lavorava così laboriosamente che si accorse della mia presenza solo molti minuti dopo il mio arrivo. Nel frattempo io l’osservavo rapita, catturata da gesti sapienti e carichi d’amore. L’amore. Era forse la prima volta che questa parola mi affiorava alla mente ed era, con ogni probabilità, pure la prima volta che ne percepivo l’esistenza. In un batter d’occhi mi lasciai trasportare in un mondo affascinante e sconosciuto che oggi, come mai prima, mi attraeva a sé con una forza misteriosa.
La vecchietta sistemava ogni fiore al giusto posto, ogni abbinamento di colore era perfetto ma, soprattutto, le combinazioni dei profumi svelavano l’essenza del suo lavoro.
“Avvicinati cara, vieni qui”. Non aggiunse nulla, mi prese sotto la sua ala e prendemmo a lavorare fianco a fianco per tutto il giorno. Quando le sembrava che stessi sbagliando, la signora mi richiamava con delle lievi ammonizioni o con dei consigli ma non proferimmo quasi parola per l’arco dell’intera giornata. Lei non si profuse in spiegazioni e insegnamenti ma l’esperienza che portava con sé era quasi palpabile ed ebbi la sensazione, come, che sgorgasse, con energia incontenibile, da lei a me.
Quante cose stavano cambiando! Quanto stavo imparando a conoscere! Quante cose mi ero persa fino a quel momento!
Quel giorno di mezza estate fu la prima e unica volta che vidi la signora Amalia che, come seppi da Lidia di lì a pochi giorni, era convalescente da una brutta caduta che le aveva procurato la rottura del femore destro. Lidia mi disse anche che la signora Amalia era stata una vivaista molto appassionata e che le aveva insegnato tutto quello che sapeva. Era una donna taciturna e particolare, amava solamente i fiori e le piante a cui aveva dedicato l’esistenza senza occuparsi di nient’altro.
La figura di questa donna anziana nella mia mente si era ritagliata uno spazio in cui confluivano tutto ciò che stavo imparando in fioreria e tutto quello che mi sarebbe piaciuto diventare. Mi dispiacque di non averla vista mai più ma mi sentii comunque molto arricchita dal pomeriggio trascorso insieme in cui imparai ad assaporare tutta la vitalità che riesce a contenere ogni singolo fiore.
Nel frattempo, la mia abilità di fiorista andava aumentando di giorno in giorno rivelando attitudini creative che non immaginavo nemmeno di possedere e una sensibilità notevole verso la natura e il rispetto di essa. I bouquet erano la mia specialità e ormai, già dalla fine di luglio, le clienti affezionate si affidavano a me per i mazzi da tenere in casa e quelli da regalare.
Quell’estate misi su otto chili. Il mio corpo si era irrobustito, le spigolosità della magrezza stavano lasciando il posto a curve morbide e femminili e persino il cibo iniziava a conquistarmi con dei sapori cui prima non prestavo attenzione. Ai primi di settembre ebbi la prima mestruazione.
Mamma era felicissima di tutti i cambiamenti che avevano compiuto su di me l’estate di lavoro e la sua idea di mandarmi da Lidia e papà, da allora, ogni tanto mi regala un mazzetto di bucaneve, i miei preferiti. I primi a spuntare alla fine dell’inverno.
A volte mi capita di pensare a quel periodo di vuoto e buio in cui non mi fregava niente di niente e non posso fare a meno di credere che i fiori mi hanno restituito la vita, o meglio, i fiori mi hanno dato la vita e mi hanno insegnato l’amore. Sono nata a quindici anni, d’estate. L’estate che lavorai con i fiori.