La macchina dei sogni

“Davvero pensi che sarebbe possibile?” – “Sì, te lo ho detto e ridetto, ho studiato accuratamente le onde cerebrali in particolare durante le fasi REM. E’ plausibile, anzi probabile, per non dire certo, che, con opportune manovre si possono condizionare!” – “Sì, ma anche ammesso ciò, come pensi di procedere su un volontario che si presti all’esperimento?” – “Ho messo a punto un’apparecchiatura, una specie di macchina per encefalogrammi, bisogna solo riuscire a trovare la combinazione farmacologica in grado di far dare, come dire, un’impennatina alle onde “theta” e “delta”, quelle per intenderci che sembrano attirare di più la creatività, la capacità mnemonica e la fantasia”. Il colloquio si svolgeva pacato tra Andrea, giovane ricercatore della facoltà di Ingegneria Biomedica dell’Università di Bologna e Marco, amico da una vita, compagno di scuola prima e di epiche sfide a calcetto poi, nonché camionista con l’hobby dell’onirico, del soprannaturale.  Andrea ricordava le sedute spiritiche cui sempre Marco da ragazzo cercava di coinvolgerlo, ma per lui erano baggianate, perdite di tempo che non portavano a nulla, ore preziose sottratte allo studio… e difatti lui era poi diventato uno studioso, un futuro, forse, professore universitario oppure un inventore, ma per ora a 1000 euro al mese e costretto ancora con papà e mamma che adoravano quel ragazzo sempre chino sui libri, un po’ introverso, versatile e intelligente. Marco era sempre stato intraprendente, pronto a lanciarsi in avventure rischiose e coinvolgenti. Voglia di studiare poca, e difatti dopo il diploma al liceo scientifico Copernico di Bologna e un esame in 2 anni a giurisprudenza si era detto che la sua seconda passione, guidare, avrebbe potuto dargli da vivere… e così si era preso la “DE” investendo i 1500 euro di faticosi risparmi di 3 anni all’autoscuola vicino casa; si era presentato da un noto autotrasportatore di Sasso Marconi con quella sua aria spavalda che ispirava fiducia e simpatia a pelle e aveva cominciato a fare su e giù per l’Italia, con tanto di baracchino a bordo, assai sudore anche d’inverno e più che meritati quasi 3000 netti al mese. Ma erano rimasti amici, diversi eppure accomunati da molti stessi interessi, come quello per i sogni e quel che c’è dietro… dibattiti interminabili al pub con gli amici o anche la sera fino a tardi prima di rincasare, a discutere se un giorno qualcuno avrebbe inventato qualcosa che avesse potuto condizionarli, i sogni. Insomma sognare a proprio piacimento, soggetto a richiesta e durata anche, e… senza dover usare immorali e pericolosissime scorciatoie chimiche. Andrea ci aveva lavorato in segreto, dopo le giornate in laboratorio all’Università, due orette la sera, anziché guardare i programmi in tv demenziali investiva il suo tempo libero in esperimenti. Nemmeno a Marco lo aveva accennato, solo una volta una parentesi rapidissima circa una sorpresa che lo avrebbe stupito ma cui il suo caro amico non sembrava aver dato eccessiva rilevanza. Non era stato semplice in principio, passare cioè dalla pura teoria (con relativi studi e ricerche sulle attività cerebrali, sia da svegli che dormienti) alla creazione di un prototipo. Dubbi a non finire, paure anche, timori sia di aver perso 3 anni che di aver creato un qualcosa di difficilmente governabile. Gioia e speranza da una parte, ma anche terrore che la sua scoperta potesse sfuggirgli di mano, come al dottor Frankenstein con la sua “creatura”. Ma… erano solo teorie, la macchina andava testata, e da un essere umano ovviamente; aveva bisogno di qualcuno di cui potesse fidarsi e che lo rendicontasse ogni cosa; non poteva essere lui stesso la cavia, perché solo lui era in grado di dare gli opportuni comandi al macchinario ed essere pronto ad intervenire. Marco poteva andar bene, in fondo era con lui che erano maturati certi discorsi teorici serali da liceali e poi era in gamba, avrebbe saputo sicuramente meglio di lui comprendere le reali possibilità, anche pratiche, di guadagno insomma, che una simile scoperta poteva procurare. E, anche se dei soldi non gli era mai interessato molto, sarebbero finiti i tempi in cui doveva farsi bastare i suoi 1000 euro scarsi: bisognava solo crederci, ma in fondo ad Andrea interessava di più passare alla storia come lo scienziato che aveva inventato “la macchina dei sogni” e il cui nome, ing. Andrea Moretti, un domani i liceali del Copernico avrebbero letto sui libri di scuola. E così aveva chiamato Marco ed ora si trovavano seduti al pub dove da ragazzi avevano rimorchiato le due tedesche di Hannover e con le quali avevano finito col dissertare di sogni, scienza e fantascienza mentre le due walkirie impazienti non aspettavano altro che le portassero in macchina, ciascuno la sua, ché già se li erano scelti ciascuno il suo… “E chi ti dice che funziona?” – riprese Marco – “come puoi essere sicuro che la forzatura che avviene nel cervello non possa causare problemi? Per non parlare poi del cocktail di farmaci antiepilettici che vorresti somministrare… a che scopo poi non ho mica capito bene sai, a rallentare l’attività iniziale cerebrale? Una specie di sedazione insomma!” – “Non è una sedazione, è una semplice induzione, come dire… tu fai l’autista no? E’ come se riuscissi a farti mettere da parte tutte le tue argomentazioni, ciò che ti hanno inculcato dapprima all’autoscuola e poi man mano che ti sei formato da solo, comprese imprecazioni e avversione di voi camionisti verso gli automobilisti in genere o verso chi sorpassa a destra oppure va troppo lento dove la strada è scorrevole. Ho reso l’idea?” – “Un battesimo!” – sintetizzò Marco – “tu vuoi resettare la coscienza consapevole del disgraziato che si sottoporrà al tuo giochino, vuoi lavare via tutti quegli accumuli che anni di elucubrazioni mentali hanno stratificato nelle cortecce cerebrali. E’ così?” – “Più o meno” – ammise l’ingegnere non potendo non ammirare dentro di sé l’acume dell’amico – “E dove pensi di trovare la cavia? Farai un giretto di telefonate o scriverai qualcosa sulla bacheca di facebook? E quanto pagheresti?” – Lo diceva scherzando ma una certa inquietudine si impadronì di Marco allorché scorse negli occhi cupidi di Andrea lo stesso sguardo che doveva aver avuto Jane quando ascoltava Tarzan… “Tu. Sarai tu la mia freccia lanciata nell’ignoto. Sai che ti voglio bene e non ti esporrei a rischi di nessun genere, ho tutto l’interesse che torni da me vivo e vegeto e mi aiuti a mettere definitivamente a punto l’esperimento. Faremo a metà degli introiti: ci pensi? Brevettiamo il tutto e mettiamo in funzione il pallottoliere contasoldi, pensa a che implicazioni può avere una macchina del genere opportunamente usata: te ne vai a dormire stanco e stressato e ti regali ore e ore di un sonno ristoratore, denso di visioni estatiche. L’Eden, Marco, sarà la scoperta del secolo, pensaci, possiamo regalare a tutti la felicità. Il sogno dell’uomo che si avvera, abbattute le differenze di classe, operai e nobili, possidenti e indigenti, tutti sullo stesso piano! La macchina non fa disuguaglianze. Una mente vale l’altra, le onde di un povero sono le stesse di un ricco. E questo sia a Mosca che a Buenos Aires, tutti avranno il loro caricabatteria personale, con pochi soldi e niente rischi!” – “Ma se vuoi davvero somministrare dei farmaci a chi non è malato come fai a definirti un filantropo?” – si oppose timidamente Marco, che già suo malgrado era affascinato dall’idea di essere lui il primo astronauta dell’onirico – “I farmaci servono solo all’inizio per tarare la macchina dei sogni, conto che già dopo una sola applicazione sarò in grado di farne a meno, si tratta solo di partire” – “E quanto durerebbe ogni seduta?” – cominciava a interessarsi l’amico – “Anche questo dipende da molti fattori e… da come risponde il tuo encefalo”. Ormai entrambi erano d’accordo che si doveva tentare, troppo grosso il tornaconto che poteva derivarne, in un senso o in un altro. Andrea capì che Marco sarebbe stato il suo uomo e ci aveva sempre sperato, anzi creduto ciecamente. “Quando si farà?” – concluse Marco. “Mi occorrono un paio di settimane ancora, devo fare tutta una serie di verifiche, non voglio correre il rischio che alla mia cavia si brucino le cervella come animelle fritte dorate” – “Ma vaff…” fu il commento dell’amico – “Se ci lascio le penne sarò io a venire nei tuoi sogni, ogni sera e a tirarti i piedi anche, quindi bada bene a quel che fai!”. Risero entrambi e suggellarono il patto con un bel boccale di lager rossa per Andrea e una Pilsener chiara doppio malto per Marco. Gusti sempre differenti, anche sulla scelta delle ragazze, come quelle due tedesche che chissà dove erano ora che avevano deciso tra loro al primo sguardo a chi la bionda e a chi la rossa… Nei quindici giorni seguenti Marco aveva percorso un numero imprecisato di chilometri sempre attento alla guida ma sempre pensando alla macchina e all’esperimento. Si chiedeva cosa avrebbe mai provato, se avesse avuto dolore, pizzicore, insomma un qualche segno tangibile oltre che la possibilità di scegliere preventivamente cosa sognare. Andrea usciva sempre meno dal box della villetta dei genitori alla periferia nord di Bologna, non faceva che provare e riprovare, mandar giù interruttori, misurare col tester, guardare dentro l’oscilloscopio, tutto un fervere di attività che però non preoccupava più di tanto i suoi vecchietti, come li definiva lui, che non immaginavano certo che il loro ragazzo andava cercando quel qualcosa che non aveva ancora trovato in sé. “Sei libero domenica mattina?” – Il trillo del cellulare non sorprese Marco – “Siamo sulla rampa di lancio?” – domandò. “Sì, tutto è pronto, prepara il testamento” – “Ma vaff…” fu la risposta, identica a quella del pub di qualche tempo prima – “Ok. Allora ti aspetto alle 9 da me e...” – “Cosa?” – chiese allarmato il camionista – “Niente, portati il pigiama”. Risero ambedue e riposero i telefonini. Quella domenica era abbastanza caldo, pur essendo ancora aprile (temperatura media a Bologna 14°). Marco pensò che il pigiama non sarebbe servito, guardando la poltrona‐letto con tutti quei fili allarmanti che pendevano da tutte le parti e quello schermo dietro il quale Andrea aveva preparato la sua postazione. Non poteva non ammirare, anche se con una certa inquietudine, le capacità del suo amico ingegnere. “Tre anni per preparare tutto questo? Bè nemmeno tanti!” – si disse. “Per prima cosa ti farò un’endovena, ti somministrerò una dose bassa di acido valproico e carbamazepina tu mettiti comodo e raccontami esattamente cosa provi” – “Sì, dai sbrighiamoci, prima iniziamo e meglio è. Alle 15 Bologna‐Milan e stavolta vi mandiamo a casa con le ossa rotte” – anche in fatto di tifo Marco e Andrea non la pensavano allo stesso modo – “Non ci sperare, i rossoneri torneranno a casa coi 3 punti, 3 a 2 al 90°!” – “Vedremo” – “Sì, vedremo” – “Giù, forza”, lo accompagnò con delicatezza ma fermezza. Il farmaco affluiva, ma Marco non sentiva nulla, né bruciore, né sonnolenza, né altro. Era ancora insonnolito perché la notte passata la aveva trascorsa quasi insonne, nonostante Andrea gli avesse raccomandato di comportarsi come sempre, ma per il resto tutto ok. “Tutto procede per il meglio Marco, stai andando benissimo”, il casco con gli elettrodi glielo aveva già messo su da una mezzora ed era intento a scrutare lo schermo e a mandar su e giù manopole con la stessa sinuosità con cui un direttore d’orchestra muove la bacchetta. “Ora aspettiamo tranquilli che ti addormenti anche per poco, sono le 10 e 25, rilassati che dopo dovrai raccontarmi tutto l’evolversi. Io da qui “vedrò” o meglio, il computer tradurrà gli impulsi che emetterai in immagini sullo schermo” – “Caspita! Spero di non fare sogni erotici allora, sarebbe oltremodo imbarazzante, ehehehe” – “Tranquillo. Sognerai paesaggi rupestri e ruscelli azzurri…” – “E tu come fai a saperlo?”. “Mmmmmm, mi sono buttato a indovinare dai, poi mi dirai, ora vai a nanna”. Marco si addormentò, suo malgrado. Non se ne rendeva conto ma Andrea inviando opportuni segnali era in grado di “indirizzarlo” in un posto particolare, dapprima in maniera generica, poi man mano sempre più nitida, i segnali di ritorno che gli arrivavano gli suggerivano dove e cosa far sognare all’amico che dormiva; gli giunse chiara la richiesta di alberi, distese di alberi senza fine, di verde sconfinato, fronde altissime che si stagliavano tra le nubi; alberi insolitamente alti. “Chissà che significa” ‐ si diceva Andrea assecondando la volontà di Marco girando un potenziometro e vedendo l’amico rispondere all’istante con una visione ancora più esaltante. “Chissà cosa sta provando”… Decise che questo primo esperimento poteva definirsi concluso. Scollegò delicatamente la sua cavia e lo lasciò dormire ancora intanto che riponeva tutto. Tutto sembrava procedere per il meglio, nemmeno un piccolo sussulto al momento dello stacco, tutto tranquillo, tutto apparentemente normale se non fosse stato che Andrea aveva indotto Marco a sognare quello che lui aveva programmato, dapprima lo aveva seguito ma poi via via che il sogno prendeva forma era stato lui a decidere dove portarlo... “Ma c’è ancora da lavorare molto” – si disse l’ingegnere – “soprattutto se voglio tentare un altro tipo di esperimento: indurre nel paziente il sogno che non desidererebbe mai, il peggiore degli incubi; naturalmente solo per pochissimo e solo per vedere se ciò è possibile”. Marco si era svegliato e sembrava nemmeno non ricordarsi che si trovava nel box di casa del suo vecchio compagno di scuola e solo dopo aver guardato la poltrona dove si era appisolato chiese all’amico e anche a se stesso: “Bè? Come è andata? Io non ho provato nulla di nulla, anzi credo di non aver sognato proprio, ma sei sicuro che funziona?” – Andrea stava per dirgli che aveva deciso lui cosa doveva sognare ma temeva che l’amico non gli credesse e soprattutto lo frenò il pensiero improvviso di ciò che aveva in mente, ossia tentare un nuovo esperimento mediante il quale riuscire ad indurre un incubo, considerazione che però non aveva intenzione di svelare a Marco, almeno nell’immediato – “Devo verificare diversi parametri, per ora è un pareggio, diciamo che siamo sulla strada buona ma manca qualche tassello. Sei sempre intenzionato a seguirmi?” – “Certamente. Non mi sono mai tirato indietro, dovresti saperlo!” – “Benissimo, allora aggiorniamoci alle 23 di questa sera, sei d’accordo? Stanotte dormirai qui, ed ora smamma, vai a vedere la partita anche per me e vediamo se anche lì c’è un pareggio… Un pareggio può andar bene in fondo” – “Ci vediamo stasera; dirò a casa che dormo da te e domattina vado direttamente in ditta, per fortuna attacco dopo pranzo così se anche non mi farai dormire potrò recuperare in mattinata” – “Dormirai, stai tranquillo” – e mentre pronunciava questa frase una leggera inquietudine mista a rimorso si andava delineando in lui. Cacciò via però subito il pensiero, in nome della scienza, si disse… Il Bologna aveva perso con un tremendo 0 a 3 contro il troppo più forte avversario di Milano, Marco aveva visto la partita ma si era rassegnato subito mentre Andrea non era per nulla interessato alla vittoria della sua squadra: ormai aveva in mente tutto un altro universo di attenzioni. Marco si presentò a casa dell’amico più che puntuale e vide la sua bella poltrona che cominciava ad essergli familiare, chiese ad Andrea se aveva terminato le sue procedure e, ricevuto l’assenso, si accomodò, stavolta col pigiama, visto che la temperatura si era notevolmente abbassata. Andrea lo aiutò ad accomodarsi e gli pose il casco e tutti i sensori, gli adagiò sopra una coperta ed abbassò le luci, non prima di avergli augurato buon riposo. “Trascorreremo tutta la notte, ti studierò accuratamente e non sentirai nulla” –  gli occhi chiari su cui si riflettevano i led multicolori di tutte quelle strumentazioni erano resi ancora più belli – “L’iniezione non me la fai stavolta?” – “No, non serve, la macchina è ormai pronta. Rilassati dai, conta le pecore, anche a due a due se ti scappano…”. Aveva deciso che avrebbe sviluppato in Marco un incubo, mettendo in funzione il macchinario in maniera opposta, invertendo cioè i poli positivi coi negativi. Avrebbe iniziato dapprima gradualmente, poi sempre più in maniera intensa fino a portarlo al punto estremo, per poi tornare alla posizione di partenza e, ove le condizioni lo avessero consentito, traghettare l’amico al totale stato di estasi… aveva anche capito durante quel lungo pomeriggio che aveva visto soccombere la compagine della sua città contro quella della sua squadra il motivo per cui Marco non ricordava nulla: mancava una specie di “fissante”, l’impulso finale che non aveva previsto sarebbe servito. In pratica era come se il cervello umano si fosse ribellato all’idea di essere manipolato e cadeva in una specie di trance. La parte sinistra dell’encefalo bloccava ogni tentativo di accedere a quella passiva, la destra. La mente veniva riprogrammata per manifestare ciò che in realtà desiderava sopra ogni cosa. Marco si era addormentato ora e Andrea armeggiava con fare convulso, nervoso e inquieto ma determinato. Dapprima un’ombra si insinuò nel sonno di Marco, una figura che racchiudeva in sé tutto il peggio dei mali del mondo, la sensazione era quella di non potersi muovere, di voler scappare inseguiti da una figura mostruosa, sintesi estrema di orrore e  raccapriccio, ma non averle, le gambe. Passava da uno spavento all’altro, l’incubo si andava materializzando con sempre più veemenza. Marco ormai piangeva disperato, si era improvvisamente reso conto che era lui dentro una realtà che non poteva controllare, aveva cognizione di essere manovrato dalla macchina infernale di Andrea e che non poteva intervenire in nessun modo, nemmeno svegliandosi, anche se lo desiderava ardentemente. Non più sognante dunque ma perfettamente lucido. Provò a chiamare Andrea, tentò di urlare, ma senza esito. Doveva scappare: la cosa, l’insieme di tutti i peccati del mondo che voleva impossessarsi di lui non gli avrebbe dato scampo, né tregua. Si ritrovò dapprima in un labirinto pieno di specchi che riflettevano decine di immagine malvagie del Male, ognuna delle quali poteva essere quella reale. Decine di se stesso atterriti correvano nella stessa direzione in tutti i meandri del labirinto, inseguiti da altrettante creature orrende ed efferate. Andrea si era reso conto che i parametri funzionali dell’amico cominciavano a dare problemi, le pulsazioni scendevano sotto il livello di guardia e i valori della pressione arteriosa avevano degli sbalzi allarmanti; decise però di andare avanti perché aveva bisogno di spingersi al punto estremo per poter poi tornare gradatamente indietro, per verificare se era sempre in grado di tenere sotto controllo il tutto. Marco ora era non più in un labirinto ma a piedi nudi in una piazza grandissima sotto la quale si aprivano una moltitudine di griglie da cui fuoriuscivano ogni sorta di raccapriccianti insetti mai visti sino ad ora, una specie di blatte enormi e nere come la notte con delle chele grandissime, che cercavano di afferrare le sue estremità martoriate; nella fuga disordinata ne schiacciava a dozzine e da quei corpi neri usciva un liquido biancastro ripugnante e fetido che sporcava i suoi piedi. Le bestie mordevano e facevano male. Marco sentiva il dolore distintamente ora; disteso sulla poltroncina mentre Andrea ipnotizzato e affascinato seguiva quel film dell’orrore senza intervenire, sussultava e gemeva sempre più inebetito. La scena cambiò ancora: le bestie ributtanti erano tornate da dove erano venute ma Marco correva ancora sentendo direttamente lo scricchiolio della cartilagine dei corpi di quegli assurdi insetti. Alzò gli occhi al cielo, quasi volesse scorgervi un segno rassicurante e invece gli cominciarono ad apparire sempre più nitide, dapprima puntolini indistinti, poi macchie sempre più definite. Non potevano definirsi uccelli, anche se indubbiamente appartenevano al mondo dell’aria. Un mix tra stracci bagnati, grandi volatili senza penne e macchie d’inchiostro blu. Esplodevano come palloncini pieni d’acqua tirati da bambini festosi in una sera d’agosto. Ve ne erano a centinaia, più ne cadevano a terra, e più se ne formavano. Colossali splash ripetuti e una deflagrazione di liquido blu appiccicoso. Marco cercava di zigzagare disperato con tutto quel blu ributtante che ormai lo andava trasformando in una specie di puffo grande e impacciato. Si ritrovò a ridere di questa cosa, pensò alle seppie, alle innumerevoli ricette che la sua mamma avrebbe saputo improntare con le seppie… Ma non erano seppie, erano piene di liquido blu scuro ma questo fluido gli entrava ora nei polmoni e sentiva che non poteva più respirare, o forse lo desiderava soltanto. La zona andò in tilt alle 2 e 45 del mattino, in piena fase REM di Marco. Andrea non aveva mai pensato, stupidamente, a un generatore autonomo. Senza corrente la macchina non poteva più funzionare e non funzionò più. Lo stacco improvviso trascinò la cavia definitivamente nel mondo irreale che il suo amico ingegnere aveva costruito. Il referto medico parlava di arresto cardiocircolatorio, ma Marco non era morto, qualcosa di lui, al di là delle semplici cellule che componevano il suo corpo era sopravvissuto. Rimase sospeso nel limbo eterno comprendendo presto che tutta la sua eternità sarebbe stata vissuta dentro quell’orrore perpetuo da cui mai e poi mai avrebbe potuto uscire. Al suo funerale Andrea piangeva e non riusciva a levarsi dagli occhi quella visione che aveva avuto mentre il suo amico tentava di sottrarsi alla sua condanna: una mano lo aveva afferrato e voleva che lo tirasse su o forse voleva trascinare giù nell’abisso anche lui; da quella mano, la mano di Marco, lui si era distaccato con forza ed era riuscito a staccarsi. Da allora, ed erano ormai passati 15 anni, il famoso ingegner Moretti, noto in tutta Europa per le sue importanti scoperte nel campo della bioingegneria si divertiva tutte le notti col suo personalissimo videogioco reale. Spostava l’amico intrappolato nella gabbia da cui non poteva più tirarlo fuori nemmeno se lo avesse voluto, da un settore all’altro con la stessa disinvoltura con cui il giocatore di scacchi inizia la sua partita spostando il pedone di Re. Giocava con la sua anima, il puro spirito dell’amico venticinquenne inchiodato alla sua eterna giovinezza e al suo destino, era ormai suo, del quarantenne brizzolato e con gli occhi chiari che era tanto piaciuto a una bionda tedesca di Hannover di tanti anni prima, e solo lui poteva  decidere di quale morte egli dovesse morire ad ogni alba. Ogni volta diversa. Novello Prometeo con la sua aquila pronta a divorare il fegato che gli ricresceva ad ogni alba… senza neanche aver rubato il fuoco agli dei. Ogni volta l’incubo era peggiore del primo. Quel lunedì mattina di tre lustri addietro nessuno aveva capito nulla. La gente del quartiere commentava nei bar la sconfitta dei felsinei contro il Milan; forse anche la disfatta calcistica aveva contribuito a far passare in secondo piano la morte del simpatico camionista. Andrea aveva avuto cura di caricare in auto l’amico con sé appena resosi conto che il suo cuore aveva ceduto, adagiandone il corpo sul sedile vicino a lui ed avendo cura di allacciargli con delicatezza estrema la cintura di sicurezza, forse anche sussurrandogli in un orecchio: “Tranquillo Marco, la cintura che non porti e non sopporti  sul tuo camion qui potrebbe servirti, amico mio”. Aveva simulato un malore improvviso dopo una violenta frenata. Nessuno aveva avuto dubbi. I ragazzi erano noti a tutto il quartiere per la loro amicizia. Nessuno sapeva dell’invenzione di Andrea. Nessuno aveva ritenuto di indagare; non vi erano segni di violenza di alcun genere sul corpo. Andrea si sarebbe tenuto il suo giocattolo vivente per anni… e chissà se un giorno non avesse desiderato di entrare anche lui nell’incubo, sospinto dal desiderio mai del tutto represso di aiutare il suo vecchio compagno di scuola in quella impari lotta…