La mazzata

Se ci fosse una parola chiave per la mia città, quella sarebbe palestra. Decine, dozzine, cinquantine: secondo precisi studi statistici, è presente una palestra ogni dieci nuclei familiari, ovvero 0,001 pezzo di palestra in ogni metro quadro della città.  La mia, anzi, la breve storia mia e del Paola (veramente il suo nome è Domenico‐Maria Paolantonetti, ma dato il nome ridicolo che ne scaturisce si preferisce chiamarlo il Paolo)… stavo dicendo… la nostra breve storia avviene in una palestra della mia città, il tempio della cura del corpo più ricercato, il luogo d’incontro dei truzzetti più vip e preferiti dalle ragazze (io e il Paola però non siamo in questo elenco), quella frequentata da chi conta. Il nome è sputtanato, Fitness World, e per grandezza non è paragonabile all’olimpico della nostra città (l’altrimenti detto Civitelle‐stadium), ma qui io e il Paola abbiamo passato e passeremo grande parte della nostra adolescenza, con fini ben precisi: fare il gioco ‘se‐tu‐sollevi‐40kg‐alla‐panca‐io‐ne‐metto‐due‐in‐più‐e‐ti‐ho‐battuto’, e tentare di abbordare... sempre invano. In quel momento stavo vincendo al gioco ‘se‐tu‐sollevi‐40kg‐alla‐panca‐io‐ne‐metto‐due‐in‐più‐e‐ti‐ho‐battuto’… il Paola si fa fregare molto facilmente. Per chi non l’avesse capito il Paola è quel ragazzo magrolino che sta appoggiato al muro, braccia scheletriche conserte, occhiali alla Ciccio Graziani e pizzetto alla Trezeguet. Non ha 32 anni, ne ha 15. Per lui l’uomo perfetto deve avere la saggezza di Gandhi e la forza d’Arnold Schwarzenegger. Lui è uno dei pochi ad avere l’intelligenza di Big Show e il fisico del nostro prof di filosofia, alquanto gracile. Io sono il ragazzo che lo sta additando, ridendogli visibilmente in faccia. Poco da raccontare di me: fisico bello e prestante, nonostante qualche rotolino di grasso, nessuna traccia di pettorali scolpiti e addominali larghi. O era il contrario? Addominali o Tricipiti? Bicipite anteriore o quadricipiti femorali trapezoidali? Non è che in due anni abbiamo capito molto in fatto di palestra e cura del corpo, figurarsi riguardo le ragazze e problemi della vita molto più seri. Per questo quel giorno ci siamo messi nei guai. Comunque la nostra totale ignoranza è dovuta a quel tipo laggiù, quel ragazzino alto 1,70 m fisico scolpito e messo in risalto dai vestiti aderenti, il nostro capo‐palestra, che si muove con grazia robotica allungando lo sguardo per notare discepoli poco attenti, come noi, ragazze piacenti e statue di marmo che reputa suoi migliori alunni. Una volta il Paola gli disse che senza t‐shirt aderente e scollata, molto spesso, il fisico non è che gli si potrebbe vedere molto: quel giorno dovetti spiegare alla mamma del Paola perché lui quel giorno aveva lo sguardo fisso, comunicava solo con mugolii . Ma ci volevamo bene in fondo. “Passami la mazza.”
“Che battuta ambigua.”
“C’è poco da scherzare.”
“Sicuro di volerlo fare?”
“NO. Anche se è un ordine del capo.”
“Lo so, quando il capo comanda. Ha sempre ragione.” 70 kg di ciambelle, in gergo, ovvero di pesi metallici, 70 kg a un’estremità e altri 70 kg all’altra del bilanciere. Il gigante li alza con grazia, conta digrignando i denti, strabuzza gli occhi di tanto in tanto e dopo quell’impresa riposa il peso sui due blocchi metallici che paiono non vogliano accettare quel quintale e mezzo di ferro appena sollevato dall’energumeno. Tutti guardano la bestia, circondata da pochi fedeli, persone fidate, persone che ogni tanto vanno da lui per chiedergli qualche consiglio o lavoretto. Lo chiamano il Capo, vi lascio immaginare il perché. Conosce pezzi grossi quel tipo, è una macchina che fiuta denaro ovunque, che non ha paura di niente, che carica senza guardare in faccia a nessuno: a me e al Paola ha commissionato spesso dei lavoretti, di tanto in tanto. Molto retributivi. Ma molto pericolosi. Solo ora però mi accorgo che io e il Paola siamo due pirla. Abbiamo sempre rischiato grosso quando abbiamo lavorato con lui. E l’ultima volta abbiamo rischiato veramente troppo: avevamo smerciato per il Capo un po’ di Marja e stavamo fumandocene ciò che restava laggiù, ai giardini pubblici, alla luce della luna,che ci guardava sorridente con gli occhi sognanti e stanchi, che ci rimproverava sul fatto che fosse troppo tardi e che dovevamo andare a riposarci, dopo una notte passata tra ragazzi gasati perché avrebbero provato la prima canna e tossici in crisi di astinenza. E infatti era notte fonda, ma si sa, gli sbirri non dormono mai. Ricordo solo le parole che ci tradirono. “Cosa vi state fumando ragazzi?”
“Philip‐Morris fine…”
“Ma di solito le sigarette fine non sono così fine.”
“Sono speciali.” Disse il Paola ammiccando allo sbirro, prima di poter prendere a testate il muro e guardarmi sussurrandomi nelle orecchie. “Questo è un tipo ambiguo. Ci sta provando con me” I guai che abbiamo passato, e che il capo per poco non passò, ci fecero guadagnare la sua collera. E soprattutto quella dei genitori. In quel momento, al cospetto del bilanciere, altare sacro nel tempio della cura del corpo e della mente, attorno a quell’uomo che, così come Socrate attirava flotte di giovani, ci inchiniamo per ingraziarci il capo. Ci ha chiamati per dire una cosa molto importante. Il Paola è molto affascinato dalla figura del Capo, soprattutto per i suoi discorsi filosofici, politici, religiosi. Teorie semplici per il Paola, irreali ma affascinanti per me, che ripropone, giorno dopo giorno, con qualche particolare diverso. Ci illustra nuovamente il suo pensiero politico, cioè che se ci fosse stato il Duce ora ci sarebbe stato l’ordine e che i totalitarismi erano state cose buone perché tutti sapevano cosa e come fare, ci racconta riguardo al suo pensiero filosofico, ovvero che la bellezza della mente non è equiparabile a quella del corpo (o viceversa? Non ricorda tanto), ci illumina riguardo al suo pensiero religioso, ovvero che c’era e c’è una cupola, un concilio di persone che da duemila anni controlla il mondo, che ci comanda attraverso la religione. Detto ciò, inizia ad illustrare il suo piano.
Se fosse andato in porto, avremmo riconquistato la sua fiducia. Avremmo solo dovuto fare ciò che un comune mortale con senno avrebbe di sicuro rifiutato. Accettiamo e il capo ci spiega la situazione. “Non me la sento.”
“E dovrei sentirmela io? Tu hai accettato.”
“Sì… però bisogna proprio fare tutto questo?”
“E’ questione di secondi”
“Provaci tu…”
“Ti ricordo che gli ordini del capo sono ordini.” “Ho un favore da chiedervi, ragazzi.”
“Parli pure, capo.” Il capo mi fulmina con lo sguardo. “Non sei tu a dirmi quello che devo fare.”. Il Socrate che conoscevamo ora diventa uno Stalin. E continua a parlare. “In ogni caso…se volete riguadagnare la mia fiducia. Dovete fare un favore per me.” Anafore, allitterazioni, altre figure di suono e di sintassi. Il Paola successivamente mi parafrasa le cose dette dal Capo e mi spiega cosa dobbiamo fare: andare da una certa parte, a un certo orario, e aspettare certi altri ordini che avremmo trovato dentro una busta dentro un albero. Aprire la busta ed eseguire gli ordini. Guadagno: 80€ a testa. Rischi: pochi, se il lavoro fosse stato fatto alla certa ora. La certa ora si aggira tra le 2 e mezza e le tre di notte. Ci teniamo svegli davanti al televisore, dalle nove di sera fino alla certa ora, passando il tempo con tutti i videogiochi che il Paola in 15 anni della sua vita era riuscito a racimolare ingannando i bambini. Ai miei avevo assicurato che stavo in campagna dal Paola. Come stiamo? Occhi stanchi e arrossati da qualche sigaretta di troppo, fisico stressato dalla palestra, materia grigia degradata dal troppo fumo, passivo e non: la missione inizia per il verso giusto. Saliamo sui motorini e ci avviamo verso il certo luogo. La strada è libera, sgombra, una deserta discesa ricoperta di platani e luci offuscate dei lampioni semi‐fulminati. Ecco il posto: un quartiere di gente per bene, abitato da dottori e commercialisti, gente calma, che vogliono bene alle proprie mogliettine per bene, che si fanno i fatti loro e non cercano guai. E’ lì che dovevamo svolgere la missione. Il Paola scova la busta. La apre, mi guarda con i suoi occhi stupiti. Con l’altra mano impugna una mazza da baseball che sta buttata per terra, ai nostri piedi. “Non posso.”
“Spacca sti vetri.”
“Merda.”
“Dai che lo faccio io.” Il Paola mi strappa la mazza da baseball dalla mano e inizia il lavoro. Il bello è che i vetri della Marea sono molto resistenti. E il Paola ci mette molto per distruggerli completamente. Però alla fine ci divertiamo. Così come il Paola scarica le legnate sui piccoli fanali della Marea, facendo roteare con grazia, eleganza e divertimento la mazza, io guardo divertito la scena, scaricando lo stress accumulato da una vita. Avrei voluto provare anche io, ma venti secondi dopo, scappammo con i nostri mezzi. Giorno dopo. Palestra. Il capo ci guarda con occhi felici, porgendoci un’altra busta. “Sono molto felice del lavoro che avete combinato ieri sera.”.
“Si figuri capo, per il suo rispetto tutto è lecito.”
“Dentro c’è una sorpresina, godetevela. La potete vendere oppure usarla.”
“Che cosa è?”
“Secondo voi perché io sono così?” Doping? Testosterone? Creatina? Lo lasciai al Paola. Io avevo solo voglia di tornare a casa. Il Paola vuole rimanere perché doveva provarci con una tipa. Una certa Annalisa, una dea della bellezza, un angelo caduto dal cielo, una creatura più unica che rara… secondo lui… lo lascio andare... poraccio, anche uno come lui può amare. Lo lascio e torno a casa. “Che schifo."
“Che c’è, father?”
“Lascia stare?”
“Che succede?”
“Figlio.”
“E’ la prima volta che mi chiami figlio.”
“Figlio…questo mondo fa schifo.”
“Che è successo?” Mio padre prende una boccata d’aria prima di parlare, poi mi mostra delle foto. Un auto. Un auto semi‐distrutta. L’auto semi‐distrutta. L’auto‐semidistrutta da due vandali. L’auto distrutta da me e dal Paola. “Guarda che schifo.”
“Di che si tratta?” E Il father mi spiega la storia. Un giornalista, pure un po’ testardo e cocciuto; aveva scritto un articolo molto compromettente contro una persona importante. E qualche bastardo aveva mandato qualcuno a distruggergli la macchina. Tacqui. “Che schifo.” Pensai. Il Paola mi sventola davanti al naso la bustina. La vuole provare. Ma non lo sa per quella stupidaggine cosa abbiamo combinato. “Dai… la proviamo?”
“No…buttala?”
“Ma stai a dire sul serio?” Do uno schiaffo alla mano del Paola: la neve bianca si sparge per la camera, poggiandosi ovunque. Il Paola si dispera silenziosamente, gli occhi gli si fanno lucidi quando vede il suo cane, entrato in camera, che lecca il pavimento, starnutisce, si rotola su se stesso. Il Paola si butta per recuperarne quanta più possibile, poi la assaggia e mi guarda. “Cosa ci saremmo dovuti calare? Chetamina? Coca? Creatina?” Il Paola lacrima leggermente. “Polvere di gesso aromatizzata con schiuma da barba.” Il capo. Si alza dalla panca e come al solito viene circondato dai suoi amici, dai ragazzini in cerca di favori, da uomini alla disperata ricerca di favoretti. Tutti in fila. Non li guardo con invidia. Sto uscendo dalla palestra quando incrocio il Paola che entra in palestra. Lo guardo, lui fa la stessa cosa, poi indica con il mento davanti a se. Annalisa, la sua ragazza, o almeno quella con cui avrebbe dovuto provarci, che entra in uno stanzino con un palestrato con i capelli meshati, espressione da beota, che le sorride con una strana luce negli occhi. E’ il Paola il primo a parlare. “Qual è la morale di tutta questa storia?” “Non so… mi sembra uno sceneggiato di un film comico di serie B.” “Ma i film comici di serie B hanno sempre un finale lieto. Alla fine veniamo ripagati e i cattivi finiscono in prigione.”. “Ti ricordo che siamo noi i cattivi.” “Allora… è una metafora della vita? Per soldi siamo capaci di fare tutto, ci si gasa, ci si monta la testa e non si sta con i piedi a terra, si fanno cose cattive senza accorgersene, si calpestano innocenti, ma alla fine ci si accorge, tra la melma dei sensi di colpa, che siamo noi stessi i calpestati…” “No… meglio una morale…”
“Politica?”
“Che tutti quanti siamo mercenari e che non abbiamo più ideali?”
“Lascia stare.”
“La vuoi sapere una cosa? Questa storia non ha una morale.”
“E’ immorale?” Guardo il Paola. Ha sempre la battuta, stupida, insensata, che non fa ridere spesso ma pur sempre appropriata, in certi momenti in cui non ci resta altro che piangere.