La storia delicata di Edmonda De Asmundis

L’anziana signora Edmonda De Asmundis, di nobili origini, ma ormai in stato di indigenza per una serie di avverse circostanze, rovistando in una cassa dimenticata in soffitta, tra ingiallite carte topografiche militari, ritagli di vecchi giornali, bollettini e vari documenti bellici del marito, capitano del regio esercito italiano, caduto sul fronte albanese nel lontano 1939, trovò uno strano libretto dal titolo: “ Massime e aforismi nel pensiero escatologico dai Presocratici ai Neoidealisti”. Faceva meraviglia, dato l’argomento, che il libretto si trovasse in quella cassa, ma nella fervida e giovanile fantasia dell’anziana signora, questa scoperta innescò un’idea commerciale che , nella pratica, risultò più valida di quanto sarebbe apparsa anche a un attento ed esperto analista di mercato.

Con elegante grafia, su foglietti pergamenati, custoditi gelosamente dall’epoca della sua giovinezza, la vedova De Asmundis copiò una gran quantità di massime e aforismi.

Dopo una settimana di lavoro, svolto con amorevole precisione, seguendo l’indice alfabetico per autori, l’anziana signora ordinò i foglietti in un bel contenitore dalla copertina in simil pelle rossa, indossò la sua famosa pelliccia di astrakan, tenuta con straordinaria cura da oltre un trentennio, fermò al collo un foulard celeste con una spilla di oro e zaffiri, l’unico gioiello che mai, anche nei momenti più duri, aveva voluto impegnare e iniziò il suo giro di vendita filosofica.

Si presentava nelle case dei signori che conosceva appena di vista e con la sua bella voce flautata diceva: “Sono una pensionata della Previdenza Sociale, vendo pensieri filosofici. Ogni pensiero lo vendo a duemila lire. Sono pensieri importanti, possono dare un significato alla vita, indicare una verità spesso cercata per anni o, almeno, renderci più pensosi e profondi”.

Vuoi per la sua spiccata simpatia fisica, vuoi per la curiosità che suscitava questo insolito e piuttosto stravagante commercio, vuoi forse perché si voleva, talvolta, dare una mano a una anziana vedova in stato di evidente bisogno, espresso, però, con grande dignità e decoro; per uno di questi motivi o anche per tutti e tre insieme, accadeva che la signora Edmonda, ogni volta che usciva per il suo giro, vendeva non meno di venti foglietti e incassava non meno di quaranta mila lire.

L’attività si protrasse per quasi quattro mesi senza ostacoli e anche l’arroganza e spesso la scortesia dei portieri in divisa, custodi zelanti nei palazzi borghesi di una privacy troppe volte degenerata in bieca diffidenza, venivano arginate dall’aspetto aristocratico e dai modi signorili della signora De Asmundis.

Insomma un lavoro che dava soddisfazioni. I proventi, superiori ad ogni aspettativa, le permettevano una dieta meno spartana, qualche comodità per la casa e anche, perché no, qualche piccolo capriccio: un profumo di marca, per esempio, oppure la stoffa per una gonna, che si cuciva da sé o il rinnovo di un po’ di biancheria intima di cui da tempo avvertiva la necessità. Ma, soprattutto, dopo tanti anni di solitudine e di noia, si sentiva di nuovo viva e utile agli altri, sentiva, cioè, quale mediatrice di elevati pensieri partoriti da menti universali, di corrispondere a un diffuso, benché latente, bisogno spirituale. E questa fiducia rinforzava il suo entusiasmo e le dava rinnovata energia, che sembrava ringiovanirla anche fisicamente.

La signora Elisa Morace, anch’essa vedova (era stata moglie e compagna devota dell’esimio maestro, direttore d’orchestra, Amilcare Morace), invitò la nostra Edmonda nella sua villa, per stare in compagnia, disse, assaggiare le sue favolose crostate alle albicocche, e brindare con Cardinal Mendoza, il celebre brandy spagnolo. Questa nobildonna, dai modi cordialissimi e nello stesso tempo raffinati, era innamorata degli aforismi. Ne ricordava molti e, talvolta, li ripeteva con precisione e con un tocco di emotività, che metteva in luce una sensibilità profonda e perfino un talento di attrice.

Arrivò a dire che il lavoro della De Asmundis fosse una vera e propria missione.

Tra gli aforismi che recitava, uno in particolare aveva scosso il suo animo, era di Franz Kafka: “ La giovinezza è felice, perché ha la capacità di vedere la bellezza. Chiunque conservi la capacità di cogliere la bellezza non diventerà mai vecchio”.

Alle otto e trenta della sera del 18 marzo, con la percezione di gioia per le affettuosità e le gratificazioni ricevute dalla splendida Elisa, con l’aforisma di kafka, che aveva fatto breccia anche nel suo cuore, la Signora Edmonda De Asmundis lasciò la villa per raggiungere la sua casa, ma mentre infilava la chiave nella toppa del portoncino col numero 11 di via Bologna dove abitava, fu aggredita da un giovinastro, ancora imberbe, ma con una voce roca da omaccio alcolizzato, il quale disse: “spogliati maiala depravata, ti voglio nuda, ti voglio!”

Sotto la minaccia della rivoltella puntata dritta dritta al cuore, l’anziana signora Edmonda, nonostante le sue frequentazioni con la concettualità escatologica, non riuscì a pensare né a dire in tal guisa, anzi, al contrario, prese a tremar tutta e a gridare come una gallina spaventata. Per fortuna, due della polizia, che per caso si trovavano a passare da quelle parti e sentirono le grida disperate della povera donna, intervennero energicamente e con un’abile manovra alle spalle, immobilizzarono il malfattore.

La rivoltella risultò un giocattolo acquistato alla Upim e l’aggressore un povero disoccupato, che da qualche mese aveva mostrato i segni di una brutta deriva della ragione, dicendo di essere il capo assoluto di un’organizzazione criminale a carattere internazionale, collegata con l’eversione politica del Medio Oriente e con una sede centrale in un non precisato recapito sulle strade della California, insomma un purpurì di cronaca e sceneggiati televisivi.

La signora Edmonda ritirò la denuncia e perdonò, in più alla mamma del ragazzo in lacrime regalò 200 mila lire per concorrere alle spese psichiatriche; tuttavia, da quell’episodio le venne come un deflusso di energia e non se la sentì più di uscire per il suo giro di vendita filosofica, anzi non usciva più nemmeno per fare la spesa, che si faceva portare dal garzone della fruttivendola.

A poco a poco si immalinconì. Non sapeva più adattarsi a quella vita fatta di giorni tutti uguali, priva di scopi e prospettive, chiusa in casa senza vedere nessuno, d’altronde l’esterno le faceva paura, le appariva oscuro, terribile, minaccioso. Lo sguardo invasato di quel povero ragazzo, come di chi debba espletare un rito di violenza e volgarità per una coazione a un male più generalizzato, le sembrava, rivedendolo continuamente nel ricordo, quasi il simbolo di un deragliamento collettivo, una nuova realtà improvvisamente svelatasi, a lei estranea, dalla quale bisognasse nascondersi.

Aveva perduto l’appetito e dormiva poco, facendo strani sogni.

Una notte sognò se stessa da bambina nel giorno della Prima Comunione. Vestita come una sposina, reggeva nella sinistra lo stelo di un giglio bianco, con la destra stringeva la forte mano del marito, il bel capitano, caduto sul fronte albanese. Uomo alto, baffuto, serio, taciturno, che la chiamava sempre “stellina mia”.

Camminavano sul lungomare di una città sconosciuta. Su un lato, a perdita d’occhio, una fila di palazzi tutti uguali, bianchi palazzi ottocenteschi dalle enormi balconate in ferro nero, adornati con stucchi floreali e cariatiti. Sull’altro lato, il mare e tante piccole navi, una a fianco dell’altra, anche queste bianche, splendenti al sole, ferme e uguali fra loro. La strada era un lunghissimo tappeto d’erba, perfettamente rasata. Non un’anima, nessun segno di vita. Anche il mare immobile come un immenso cristallo blu. Solo, più avanti, li precedeva Athos, il setter irlandese, che avevano amato come un figlio. Il cane, di tanto in tanto, si fermava per aspettarli.

Un grande misterioso silenzio.

A un certo punto, il capitano disse: “So tutto, sai? Il mondo è cambiato.” Poi dopo una lunga pausa, aggiunse: “Hai voluto fare di testa tua, senza chiedere consiglio a me.” La signora Edmonda De Asmundis si svegliò madida di sudore. Sentì di avere la febbre. Cercò il termometro nel comodino vicino al letto, non c’era. Andò a vedere nel cassetto dei medicinali e invece si trovò tra le mani il vecchio rasoio col manico in tartaruga, che il marito aveva usato tante volte per presentarsi agli occhi di lei sempre in ordine e ben rasato. L’idea di togliersi la vita le venne improvvisa e irresistibile, e, come per incanto, le dette immediatamente un senso di grande pace interiore. Immersa nell’acqua calda della vasca da bagno, col rasoio del marito si tagliò le vene ai polsi. Pensò all’autore del Satiricon, il mitico Petronio, che aveva studiato da ragazza e con questo ricordo dolcemente passò ad altra vita. Il capitano vedendola, sorrise – Oh, come erano meravigliosi i suoi rari sorrisi – "Ti aspettavo", disse, "stellina mia".