Parag. 12 (dal romanzo "La stazione di Avventura")

Mi ero svegliata da sola, così spensi la sveglia. Era presto, la luce rossa di un’alba d’estate entrava dal terrazzo e aveva fretta. Mi ritrovai in salotto, vestita con un abito semplice e con la valigetta in mano che avevo preparato all'ultimo momento, ad ascoltare il russamento che proveniva dal fondo di un corridoio a me vietato sin dall’infanzia, un bagno‐e‐camera dei genitori come appartamento distinto.
Cercai affannosamente il numero del radio‐taxi, lo trovai al secondo tentativo e bisbigliai il mio indirizzo tre volte perché la mia voce era troppo bassa. Presi il foglio con la filastrocca da declamare: era un ringraziamento preventivo per l’ospitalità, uno scusarmi in anticipo del disturbo, invocare un improbabile incontro tra le nostre famiglie, auspicare che quel periodo (trentasei ore circa) passasse in serenità nonostante la mia presenza.
La paginetta più imbarazzante della mia vita, che avrei ripassato in treno perché andava recitata a memoria.
Pagato il taxi, scesa dall’auto, realizzai che il più era fatto, rischiavo veramente di arrivare a destinazione. Col terrore di sbagliare binario, non ebbi il coraggio di avvicinarmi all’edicola per comperare qualcosa da leggere che non fosse il solito romanzo che portavo sempre con me. Quando fu il momento di salire, chiesi due‐tre volte se era il treno giusto.
Il convoglio partì in orario, la valigia era leggera, la giornata serena, lo scompartimento quasi vuoto: troppe coincidenze positive. Forse toccava a me avere fortuna, almeno quella dei principianti. Era il primo vero viaggio che affrontavo da sola.
Emozionata per le persone che avrei incontrato, per le domande che mi avrebbero fatto e per le risposte che avrei dato. Tutti si sarebbero accorti della mia pseudo‐asocialità. Quella di chi sta sempre solo e in compagnia appare goffo, perché finge che quella situazione sia per lui abituale, mentre teme gli altri, pur avendo il sogno di stare con tutti, accettato da tutti, di sembrare simile a tutti.

Nello scompartimento vicino, uno spicchio di umanità vociava allegramente con pettegolezzi su attori e personaggi della televisione. Un piacere sottile mi saliva dal basso, da quel pavimento vibrante che tutti abbiamo imparato a conoscere da bambini. Il rumore di rotaia accompagnava con un buon ritmo quel parlare libero da censure. Nessuno mi poteva offendere né farmi del male. Mi sentivo al sicuro. Tutti fermi e in movimento, tutti sicuri di arrivare.
Ero contenta che qualcuno mi stesse aspettando, mentre il treno sembrò accelerare. Parlai ai miei compagni di viaggio con entusiasmo di un’amica, di una casa vicino al mare e di una famiglia importante. La mia vita era in una curva a gomito, avevo già qualcosa da raccontare.
Avevo avvertito tutti i pochi passeggeri, sul treno, della mia destinazione, la mia gioia e l’eccitazione trasparivano e la reazione fu simpaticamente collaborativa, un’autentica empatia che interpretai come un buon auspicio. Appena arrivai, qualcuno mi spinse fuori dallo scompartimento, poi giù, sul marciapiede vuoto di quella stazione vuota. Nessuno scese con me, e il treno ripartì subito alle mie spalle senza che io lo degnassi di uno sguardo.
Esaminai i marciapiedi e gli anfratti della piccola stazione di Verdemare, fino agli interni di edicola e bar, biglietteria e bagni. Elle non c’era, e neppure qualcuna che le assomigliasse.
Il primo pensiero fu quello di aver confuso il giorno con un altro, come già successo. Il secondo, che a fronte di una situazione troppo serena, il destino si fosse messo d’impegno per riequilibrarla in negativo. Il terzo, più nefasto, riguardava Elle che poteva aver cambiato programma, volando verso altri lidi con altre compagnie.
Non ero più sicura di averle comunicato l’ora del mio arrivo.
Cercai un telefono, fantasticando che mi avrebbe ufficializzato il licenziamento con un nastro pre‐registrato:
“Siamo spiacenti di comunicarLe che la Sua Persona è stata rimossa dall’incarico di Amica Ufficiale della Grande Elle. Grazie”.

Appena fuori dal bar, un ragazzo, spalle alla porta e birra in mano, mi guardò e pronunciò poche piacevolissime parole:
“Sei tu l’amica di Elle?”.
Frenai in pochi centimetri:
“Amica? In un certo senso sì, sono io. Credo…”.
Mi si avvicinò sorridente:
“Ti aspetta a casa. Non puoi sbagliare: esci dalla stazione e segui la discesa. Bastano dieci minuti, per te forse quindici. La casa rossa, grande, con un grande albero davanti all’ingresso, è la sua. Di solito dalla strada si sente musica ad alto volume. Il numero sul muro della casa non c’è, è sbiadito. Se hai dubbi chiamala dalla strada, lei non ti sente, ma il vicino sì. È pesante la valigia?”.
“La valigia? Pesante? No, è leggera, non c’è quasi niente, per due giorni. Beh, grazie, ora è meglio che vada, sono in ritardo”.
Effettivamente, la valigia mi sembrava molto leggera, più di quando ero partita.

Mi incamminai veloce. Guardai per terra, poi il cielo, blu come solo la brezza di mare sa portare, e me lo respirai. Non ero abituata al blu profondo, e nemmeno a guardare sopra la mia testa.
La casa di Elle non compariva mai, la discesa scendeva senza fine verso quel mare che mi aspettava da tempo.
“Elle, dove abiti, dove cavolo sei? Non potevi venire tu in stazione? Lo sai che sono maldestra...”.
Mentre camminavo, immaginai la scena del nostro incontro: io davanti alla sua casa, mentre una musica mi arrivava addosso come l’aria di un asciugacapelli. Da una finestra intravvedevo la sua faccia e i capelli raccolti da una fascetta. “Elle! Sono qui!”. Lei si voltava e dal suo viso abbronzato non emergeva un sorriso ma un ghigno di soddisfazione. Mi urlava:
“Fino a domani abbiamo la casa tutta per noi. Bisogna festeggiare. Entra e rilassati. Siamo sole, io e te”. E scoppiava a ridere. A quel punto mi accorgevo che la porta era già aperta. Elle non si muoveva dall’enorme tavolo di legno che campeggiava in cucina. Entravo, la casa era meravigliosa, mi buttavo sul divano ed Elle mi raccontava tutto quello che ci aspettava...
Il sogno cessò d’un botto, e tornai alla dura realtà: avevo trovato la casa, ma Elle non compariva. Suonai e chiamai a lungo. Sentii le gambe che tremavano. Mi guardai attorno, un vicino mi sorrise e mi urlò:
“Se cerchi Elle, scendi ancora verso il mare. La trovi, non ti preoccupare. Dove c’è il gruppo, c’è anche lei. Tranquilla.”
Non lo ringraziai nemmeno, per dimenticanza, ma obbedii. Quando vidi un agglomerato rumoroso, traboccante di gonne e catenine, tatuaggi e occhiali da sole, pelli lucide e unghie laccate, capii che ero arrivata, anche se la divina non era visibile in mezzo a quella folla giovane e bella. Mille amici di Elle, tutti insieme, tutti sorridenti. Esisteva anche quello al mondo, e sicuramente non solo lì. Ora ne avevo le prove, un’informazione di importanza fondamentale, di quelle che nessuno ti darà mai spontaneamente.
Il gruppo era meno peggio di quello che credevo, anzi non era affatto male. Apprezzai di essere una ragazza simile a quelle che vedevo davanti a me, almeno per sommi capi.
Mentre cercavo Elle, percepii nettamente la sua presenza, e infatti la sua mano stava sventolando da chissà quanto tempo e mi chiamava.
La raggiunsi con passo incerto e titubante. Lei smise di scomporsi, e questo mi aiutò a non dare nell’occhio. Niente di quel formicaio si modificò a causa del mio arrivo. Il suo abbraccio certificò il distacco definitivo dai miei, dagli impegni scolastici, dalla mia città e dalla solitudine. Potendo, avrei piantato lì una bandierina col mio nome, cognome e data dell’evento.
La tensione calò improvvisamente, e mi colpì una fame terribile, da svenire. Praticamente, non mangiavo da ventiquattr’ore. Scelsi la parola “curiosità” al posto di “appetito”.
“Fammi vedere la tua casa, Elle, muoio dalla curiosità!”.
Lei salutò brevemente la piazza, mentre io cercavo nel mio repertorio un saluto misto di presentazione e di commiato che ovviamente non esisteva. Feci un mezzo sorriso a non so chi.
A casa sua, in cucina, sopra un tavolino troneggiava una radice di albero pulita dal fango e ricoperta di una speciale vernice trasparente. Quella era davvero una casa speciale per gente speciale. Allo stupore che mi impietriva, Elle rispose:
“Vai, gira, metti in disordine, apri i rubinetti, buttati, muoviti in assoluta libertà”.
Il buco nello stomaco era ormai un crampo, ma non era educato parlarne.
“Mi avevi detto che sapevi cucinare…”.
“Con una nonna che ha gestito 45 anni una trattoria, mi era impossibile non imparare. Ma non sono mai diventata come lei. Certo, rispetto a quelli che usano il pepe macinato un anno prima…”.
“Non va usato già macinato? A casa mia c’è solo quello!”.
“Metti la borsa in una camera a tua scelta. E vestiti da vacanza, mi sembri una delle invitate per la prima comunione”.
Feci tre passi avanti e due e mezzo indietro. Stavo dimenticando la filastrocca dei miei, mi avrebbero scoperto, non sapevo mentire, me lo avrebbero letto in faccia.
“I miei genitori mi hanno preparato… i tuoi non ci sono?”.
“Aiutami a preparare da mangiare, non farò mica tutto da sola, sono in vacanza anch’io, che ti credi”.
La vacanza iniziò quindi con un lavoro breve. Dopo aver cucinato per un reggimento, mangiato come un uccellino e bevuto una pinta di birra, Elle iniziò, da sdraiata, a parlarmi di decine di personaggi come se io li conoscessi perfettamente, e di idee e progetti come se li avessimo elaborati insieme. La sua tendenza alla condivisione mi mise a mio agio e mi rallegrò. Mi preoccupai per la lattina di birra gelata che mi era stata imposta, perché due dita erano sempre state sufficienti per garantirmi gonfiore addominale, mal di testa e confusione mentale. Nell’offrirmela, Elle era stata categorica, intollerante e antidemocratica. Al mio iniziale rifiuto aveva opposto un feroce:
“Non sopporto gli astemi!”. Ma io, forse, non lo ero.
Non contenta, a fine pranzo bevvi del digestivo al ribes che sua nonna preparava tutti gli anni, senza conoscerne la folle gradazione (35°). Ero felice e non lamentavo alcun disturbo. Mi sentivo già a casa mia, senza padroni, giudici, co‐eredi, spioni. Tossivo a tratti e sventolavo un foglio di carta. Nel mio corpo era già iniziata una trasformazione irreversibile.