Parag. 7 (dal romanzo "La stazione di Avventura")

Come forse tutti gli studenti della mia età, non dividevo la vita in anni solari che iniziano l’1 gennaio e finiscono il 31 dicembre. Gli anni veri sono quelli che compie la scuola, che inizia a settembre e finisce a giugno. I rimanenti mesi non si collocavano da nessuna parte, facevano anno a sé, uno spicchio di dolce vita dentro un frutto solitamente amaro. In quei tre mesi, la massa di esperienze, avventure, scoperte, delusioni, amicizie nate e finite, albe viste dal vero e chewing‐gum masticati e sputati era più grande di quella accumulata in tutto l’anno scolastico. Dentro un anno duro c’era una piccola parentesi, molle e comoda come una vecchia poltrona. Molti personaggi, al ritorno a scuola, risultavano irriconoscibili, invecchiati di emozioni, spavaldi per aver provato chissà cosa, e i primi giorni di scuola erano solitamente dedicati da tutti a un riordino fisico e mentale molto privato. Ogni treno ritornava a malincuore sui propri freddi binari.
Tutto questo era valido per i “normali”, ma, come già detto, non per me. Con la fantasia, però, la differenza la vivevo nettamente. Ascoltavo i racconti dei reduci da estati vissute pericolosamente, memorizzavo e riscrivevo quelle vicissitudini per poterle raccontare, adattate a me, nei momenti di difficoltà. Così, seppur virtualmente, mi sembrava di esserci stata anch’io. Andavo convincendomi di essere semplicemente in una lunga sosta esistenziale. Ero solo sfasata rispetto agli altri, il segnale dal satellite ancora non arrivava, un piccolo problema tecnico che si sarebbe risolto. Sarei arrivata anch’io, un po’ ansimante, dopo tutti gli altri.

Alla fine di ogni anno scolastico fingevo con i miei coetanei una sana euforia per le vacanze. Nessuno doveva sapere che sarei andata dai nonni, al loro paese che non stava né al mare né ai monti, né carne né pesce.
Mi sforzavo di far sì che la gioia trasparisse dalle mie parole mentendo spudoratamente. Non amavo dire le bugie, facevo fatica e mi faceva pure male alla salute: i giorni in cui ci davo dentro, la sera, accusavo debolezza e male alla nuca. In fondo, cercavo solo di omologarmi agli altri, che la felicità l’avevano appena afferrata e che non faticavano ad esibirla perché era sincera e spontanea. Attorno a me tutti favoleggiavano di prospettive mirabolanti, di viaggi verso mari ben frequentati dove avrebbero trovato spensierate giornate di sole da condividere coi loro simili, belli, buoni e socievoli. La sveglia sarebbe deceduta di lì a poco, la cena delle ore 20 abolita, il silenzio assordante del sabato pomeriggio, un pallido ricordo. Presto sarebbe cominciata una festa che non conosceva orari, un carnevale senza confini, un happy‐hour che sarebbe terminato solo alla prima campanella dell’anno successivo, così lontano che non lo si nominava nemmeno.
Tutti gli errori sarebbero stati perdonati. Le estati importanti, nella vita, sono poche e sono quelle.
All’entusiasmo degli altri corrispondeva la mia disperazione, che non potevo confessare a nessuno: l’ultimo giorno di scuola è sempre stato uno dei più tristi dell’anno. Avrei voluto parlarne a qualcuno per sfogarmi una volta per tutte. Una sorta di rito purificatore, un esorcismo. Mai ne avevo trovato il coraggio. Temevo la superficialità, la derisione, l’incomprensione.
Mi consolavo pensando che qualche buona lettura non me l’avrebbe tolta nessuno, e leggere mi piaceva molto, anche perché sceglievo soggetti pieni di disgrazie peggiori delle mie. Che bello – pensavo – avvicinarmi finalmente a Tolstoj, Dostoevskij, Pasternak! Inconsciamente, non a caso, sceglievo autori russi, che col loro paesaggio e clima avrebbero rappresentato un’evasione più netta dalla mia estate, torrida solo per il termometro. Li sentivo più vicini alla mia introspezione, alla mia povertà. Purtroppo, anche il gusto dell’acquisto mi era precluso perché in casa, in vecchie edizioni ingiallite, tutti quei libri c’erano già. Così, nemmeno i libri preferiti erano veramente miei.
Se non avessi conosciuto Elle, anche quell’anno scolastico sarebbe finito con la mia finta soddisfazione, e con uno zainetto pieno di romanzi istruttivi ma noiosi. Quell’anno, però, non approdai in Russia, ma finii, per la prima volta, nel tritacarne comune.