Partenza alle ore 17.30

Non bisogna mai dare niente per scontato, tutti i nostri traguardi vanno riconquistati ogni giorno! Avvenimenti imprevisti, a volte lieti, a volte tristi, tendono a sconvolgere improvvisamente la normale routine del nostro quotidiano, annullando le nostre certezze e riportandoci ad una realtà inaspettata.
Anche stamattina, come sempre nei giorni piovosi, devo fare i conti con il traffico. La segnaletica autostradale mi indica quindici chilometri di coda ed è ormai un po’ che procediamo a passo d’uomo. I miei nervi cominciano a saltare, alzo sempre più il volume della radio per cercare di distrarmi. Mi innervosisco. Mi agito. Mi volto a sinistra. L’immagine dell’altra carreggiata, mi riporta brutalmente indietro nel tempo.
Quel giorno, lontano ormai dieci anni, ero rincasata molto prima del solito perché la baby sitter mi aveva dato buca. Riguardavo il lavoro fatto, davvero ottimo. Il mio antico orologio a pendolo aveva appena smesso di suonare i rintocchi delle ore 17.30, mi ero sbrigata prima del previsto e potevo finalmente riposare accoccolata sul mio divano. Ad un tratto, un lamento. Il cuore mi pulsò incessantemente! Mi alzai allarmata e mi avvicinai alla culla del mio bimbo; dormiva sereno e tranquillo, ma quel lamento mi aveva messo in ansia. Decisi di non parlare con nessuno dell’accaduto, temevo di passare per una madre eccessivamente apprensiva e, forse, un po’ lo ero.
Il giorno dopo andai in ufficio, ancora fortemente turbata da quel lamento che continuava a rimbombarmi nella testa; tuffarmi nel lavoro mi consentì di distrarmi. Alle 20.00, ormai a casa, mi arrivò una telefonata; mio fratello mi avvertiva che il telegiornale aveva appena mostrato uno scontro tra un’auto e un tir; aveva perso la vita Francesco, il mio amico e collega con cui lavoravo quotidianamente. Il mondo mi crollò addosso: 23 anni sono oggettivamente troppo pochi per morire, ancor di più quando a casa ti attendono una bimba di tre anni e tua moglie che, dopo quindici giorni, darà alla luce il tuo piccolo bambino.
Come in un film, mi tornarono alla mente tutti i momenti trascorsi insieme. Io e Francesco, lavoravamo insieme da tre anni nell’azienda della sua famiglia; io ero più grande di lui di dieci anni, lui era il figlio del mio datore di lavoro. Ero un po’ la sua tutor. Mille volte ci attardavamo al lavoro. Ore ed ore trascorse insieme a ridere e lavorare. Avrebbe voluto trascorrere più tempo con la sua famiglia o con i suoi amici a giocare a calcetto; ma io lo esortavo a lavorare per imparare e fortificare le fondamenta del suo futuro; lui mi ascoltava, perché si fidava ed imparava. Ero io che lo avevo esortato ad andare a quel colloquio. Una grande opportunità, come poteva perderla? Cattiva consigliera è stata la razionalità! A cosa erano serviti i sacrifici di Francesco? Le ore trascorse a lavorare? Le partite a calcetto non giocate, per costruire quel futuro? Se non fosse andato a quel colloquio, oggi sicuramente sarebbe tutto diverso.
I sensi di colpa, mi assalivano; non riuscivo a liberamene. Notte e giorno, in un pensiero costante. Lacrime e ancora lacrime. E poi l’aiuto mi è arrivato da chi, in realtà, l’aiuto avrebbe dovuto chiederlo. “Bisogna ricominciare il viaggio, nonostante tutto”, mi avevo detto e abbiamo cominciato a scrivere un libro a quattro mani per raccontare ciò che di bello è stato. Io e Caterina, la moglie di Francesco.
La nostra ripartenza come rimedio per ricominciare ma senza mai dimenticare ciò che ha lasciato un’esistenza breve ma eterna. Sulla copertina un’immagine stilizzata tratta da una foto del piccolo Francesco, il bimbo che non ha mai potuto giocare con il suo papà. Siamo ripartite dalle 17.30: l’ora dell’incidente! Il prologo, brevissimo, voluto da Caterina: “alle 17.30, laddove possibile, si suoneranno le note del silenzio in memoria delle tante, troppe, vittime della strada”.
Il traffico era ormai smaltito. Ero arrivata in ufficio. Calmissima. Ancora una volta, come spesso negli ultimi anni, il suo ricordo mi era stato di insegnamento: un’ora di rabbia è un’ora di felicità persa e la vita, se anche durasse cento anni, non merita di essere sprecata.
Lui non è passato invano.
Olimpia Improta