Rumore

Non appena ebbe esploso il colpo di pistola gli tornò alla mente la sua infanzia e la sua gioventù: era sempre  stato quello che normalmente si definiva un ragazzo normale, senza troppe distrazioni, magari non di un’intelligenza acutissima. Si ricordava ogni momento di quell’epoca ormai lontana e la ricordava con nostalgia, una nostalgia che però lo faceva sorridere. Ancora sentiva la voce di sua madre che lo richiamava a casa; e lui che non rispondeva facendo finta di non sentire perché impegnato, sì proprio così, impegnato a scoprire mondi tutti suoi che poco avevano a che fare con la vita reale di tutti i giorni. E ancora lo voce chiamava e chiamava. Al terzo richiamo doveva per forza abbandonare quel mondo in cui si sentiva protetto e per certi versi di cui si sentiva padrone, per tornare a quello che molti anni dopo gli apparve come la monotonia quotidiana del vivere.    Andava regolarmente a scuola insieme a tutti gli altri bambini, ma si lui si sentiva differente e privilegiato. Non era una questione di soldi; era una questione di mentalità. Si sentiva in grado di vedere o di cominciare a vedere dove gli altri non potevano arrivare. Pur non essendo un buono studente era capace di ottenere profitti discreti nella vita scolastica. Non che gli piacesse imparare: la scuola era per lui solo un obbligo dal quale non si poteva fuggire e che prima si faceva, prima sarebbe finito. I suoi maestri non riponevano grande fiducia in lui e anzi spesso si accorgevano di questo suo “trasferirsi” in un altro mondo e in un’altra realtà. A nulla serviva richiamarlo all’ordine. Il viaggio era per lui la componente essenziale della sua vita. Sovente si isolava dalle persone e dai suoi coetanei; mentre gli altri giocavano, lui preferiva rintanarsi in qualche angolo remoto del mondo, che poi distava solo poche centinaia di metri dagli altri e cominciava a viaggiare.

Il suo mondo consisteva nello stare a contemplare ciò che di bello c’era nella natura intorno a lui fuggendo nello stesso tempo la noia del quotidiano. Lo si vedeva, ammesso che qualcuno lo trovasse, fissare per ore uno stagno pieno d’acqua e a scavare piccole buche nel terreno in cui seppelliva o comunque introduceva una goccia d’acqua o una foglia dell’albero. Così facendo era convinto che dalla terra sarebbe nata una nuova bellezza da contemplare e che magari un giorno avrebbe mostrato a qualcuno che lo avrebbe saputo apprezzare. Non raccontava mai a nessuno di queste cose; sua madre si sarebbe preoccupata e i suoi amici, o forse era meglio dire i suoi conoscenti lo avrebbero preso in giro per sempre. D’altronde lui vedeva dove gli altri si arrendevano. Non si limitava alle apparenze.

‐“E’ strano come certe cose ti accompagnino per tutta la vita” ‐ pensava dopo aver sparato. –“Sono come delle cicatrici che possono anche diventare più piccole e sbiancare ma alla fine te le porti sempre sulla pelle” ‐.

Aveva sempre avuto paura degli scoppi o comunque dei rumori forti e assordanti. Non fastidio, paura. Un giorno si era trovato nel bel mezzo di un temporale mentre era all’aperto in una delle sue consuete avventure. Ad ogni tuono corrispondeva un singhiozzo e un lamento disperato e in pochi minuti si trovò a piangere. Piangere per la paura. Ancora non riusciva a capire il perché di tutto ciò; in fondo il tuono non uccideva nessuno, non era un’arma mortale. Ma era una paura irrazionale, che non poteva controllare. E anche quel colpo di pistola gli faceva paura. Aveva chiuso gli occhi nel preciso istante in cui premeva il grilletto come se chiudendo gli occhi il rumore sarebbe stato meno forte e penetrante.

Non poteva dimenticare il giorno in cui era tornato a casa dal suo mondo e aveva trovato la fine di tutto. O forse l’inizio. Sua madre giaceva ancora sulla piccola sedia della cucina. Non si sarebbe detto il corpo di una persona morta ma piuttosto quello di una persona che dormiva profondamente; le labbra erano socchiuse e un piccolo sorriso sembrava giungere da quel viso. L’unica cosa che davvero stonava di quella scena era quel piccolo foro all’altezza dell’orecchio destro da cui scendeva un sottile filo rosso che rigava la guancia pallida. Non riuscì a piangere; non sentiva necessità di piangere ma solo quello di rifugiarsi un’altra volta nel suo mondo, in cui la morte non esisteva. La sua unica consolazione era che perlomeno non aveva sentito il colpo e perciò non si era spaventato; con un dito sfiorò la guancia della madre e una piccola goccia di sangue gli rimase sul polpastrello. Corse fuori e scavò una buca perché un giorno quel sangue sarebbe germogliato e sua madre sarebbe rivissuta in un fiore o in una qualunque cosa della natura; sempre dentro il suo mondo però.

Ora che l’aveva trovato, dopo tanti anni, realizzò che quello sparo non voleva essere frutto della vendetta ma più semplicemente avrebbe dato inizio ad una vita di fuga e una vita in cui dormire sotto le stelle sarebbe stato naturale. Ora non avrebbe più dovuto rifugiarsi nel suo mondo: ora ci avrebbe vissuto e basta. Guardò il cielo; da lontano apparivano nuvole minacciose cariche di pioggia e di ricordi lontani; sperava tanto che non portassero con loro anche i tuoni.